13 Maggio 2023
Alias - il manifesto

I gomitoli di Dedalus per ricucire le vite interrotte

di Vincenzo Mattei


Patrizia cammina sicura nel corridoio del laboratorio Gomitoli della cooperativa sociale Dedalus di Napoli, un fare spigliato, disinvolto ma deciso, il corpo si muove a suo agio come se avesse sempre sfilato. La rottura del timpano per le botte subite dal marito violento sembra solo un ricordo. «Oggi sono una donna libera, non ho più paura. A maggio del 2021 decisi di andare via di casa con i miei figli per tornare dai miei genitori e lo stesso giorno denunciai il mio ex marito per violenza e per minaccia. Da lì è iniziato un processo per ritornare a vivere, oggi se mi giro indietro mi domando da dove sia venuta fuori tutta questa forza. Decisi di intraprendere un percorso con una psicoterapeuta, per farmi aiutare dopo tante umiliazioni. La violenza psicologica riesce a uccidere le persone, chi la subisce dentro è spenta anche se da fuori sembra uguale. Quindi mi rivolsi al centro antiviolenza di Archibugi dove mi consigliarono di andare alla Dedalus», afferma Patrizia (nome di fantasia).

Il pubblico fatto di pachistani, algerini, marocchini, italiani, russi, egiziani… applaude le modelle-madri. Ognuna ha cucito la propria borsa con materiale da riciclo e il proprio abito. Mentre le protagoniste sfilano si sente un audio in cui raccontano la propria storia condensata in una frase significativa della propria vita. «Le cose si imparano anche con la dolcezza. Questa è la mia eredità e cerco di fare lo stesso», è la frase che ha scelto Patrizia. «Dalla mattina alla sera sorrido. Finita la giornata, di sera piango tanto. Oggi dico la mia: basta, ho finito di piangere, io sono forte. Basta!», è la voce dell’egiziana Asma Ghoraby.

«Patrizia ha subito per vent’anni, poi durante il Covid ci sono stati degli eccessi di violenza dovuti alla forzata permanenza in casa, all’ospedale ha capito che non poteva più andare avanti, che era troppo, così si è rivolta al nostro centro», parla Tania, la responsabile del settore antiviolenza di Dedalus.

«Prima eravamo al Centro Direzionale, troppo limitrofi, da sei anni ci siamo trasferiti al Lanificio a Porta Capuana, in un quartiere ad alta densità di migranti, questo posto è simbolico. La cooperativa è venuta qua con l’intento di attivare una rigenerazione urbana di un territorio spesso abbandonato dalle diverse amministrazioni. Quest’area multiculturale ha le scuole con il più altro tasso di bambini che vengono da fuori Italia. Sono soprattutto adolescenti stranieri che hanno bisogno di un sostegno per fare i compiti, perché i genitori spesso sono di seconda generazione o sono venuti qua da piccoli, quindi non parlano italiano e non possono seguirli e aiutarli a casa», spiega Carmen Vicinanza, responsabile della comunicazione di Dedalus e fondatrice del blog femminista «Una donna al giorno».

Dedalus ha diverse attività per gli adolescenti del quartiere e non solo per stranieri. Si spazia dai corsi di fotografia, di pittura, di arti visive, di teatro, hanno una webradio e fanno book crossing per la città in cui i ragazzi leggono testi per strada o nelle piazze napoletane. Il contrasto alla povertà educativa è chiaramente uno dei progetti della cooperativa che fornisce una serie di strumenti e attività per poter garantire la convivenza, l’integrazione e cercare di far uscire delle capacità nascoste.

«Alla sfilata c’erano molte mamme con l’hijab che prima di frequentare il nostro laboratorio di sartoria non socializzavano. La sorella di una delle modelle mi ha raccontato che vive a Napoli da ventun anni e che non usciva mai di casa perché non sapeva cosa fare, non aveva idea di come e dove poter apprendere l’italiano, conosceva solo le nozioni minime per fare la spesa. Due volte a settimana teniamo il corso di educazione ai sentimenti insieme alle mamme che si chiama “Un tè con le ragazze”, così sorseggiando il tè, ci si racconta in una sorta di autocoscienza collettiva per sentirsi meno sole e socializzare. Inoltre, molte di quelle donne che stanno giù in sartoria le abbiamo intercettate durante le lezioni d’italiano dei figli. Così anche loro hanno iniziato a studiare la lingua e poi hanno trovato delle affinità con i nostri laboratori, tanto da parteciparvi. Si parte dai ragazzi, si arriva alle mamme e da lì a tutto il contesto familiare», afferma Carmen.

Attraverso questa dinamica sono uscite delle problematiche rilevanti spesso sottovalutate o non considerate a livello mediatico come i matrimoni combinati e forzati in Italia. «Almeno in Campania, la nostra è stata la prima ricerca. Parlando con delle allieve che facevano parte del nostro centro interculturale, sono fuoriusciti due casi di ragazze promesse in sposa che poi sono sparite, rimpatriate in Pakistan per decisione della famiglia», analizza Carmen. Agire all’interno delle mura domestiche è un percorso tortuoso e complicato, le mura di casa sono insormontabili a meno che non ci sia qualcuno da dentro che apra la porta. «Ci si sposa per commissione perché avere una figlia da maritare diventa un potere contrattuale potentissimo per chi deve prendere il permesso di soggiorno dall’estero».

Infatti esiste un divario immenso per ciò che si vive nel Lanificio, con gli amici e la famiglia. «È uno shock culturale per molti ragazzi e ragazze, perché spesso a casa hanno la mamma che praticamente non esce, magari molto religiosa, e il padre che decide cosa deve fare la figlia, cosa dire, come vestirsi, mentre alla Dedalus incontrano coetanei di diverse nazionalità con cui nascono anche storie d’amore. Quindi proviamo a intervenire cercando di comunicare con le famiglie per ammorbidire alcune posizioni, c’è un progetto in particolare che si chiama “Grazia sotto pressione” in cui prendiamo in carico l’intero nucleo familiare e non la singola persona», conclude Carmen.

Asma Ghoraby è de Il Cairo, è arrivata in Italia nel 2018 per far curare sua figlia di quattro anni al Santobono di Napoli. «Non sapevo fare nulla, mentre ora so cucire i giacchetti e le borse, ho imparato molte cose. All’inizio non avevo nessun amico o amica, poi ho conosciuto delle persone alla sartoria con le quali ci incontriamo anche fuori e ora sono contenta di avere delle amiche con le quali parlare, i primi anni ero proprio triste perché ero sola. La mia storia è abbastanza complicata, perché ho perso mia figlia da qualche mese ma già prima che accadesse avevo deciso di uscire, di non rimanere nel guscio, per imparare qualcosa e magari iniziare a lavorare», Asma prende una pausa, i suoi occhi per un momento sono in un altro luogo. «Ho un’altra figlia, di sedici anni. È importante continuare a vivere, quando mia figlia di otto anni è morta ero a pezzi perché avevo dato tutto per lei. Poi un’amica quando mi ha visto così depressa mi ha detto di venire alla Dedalus. Ti insegnano a cucire, puoi incontrare persone, imparare l’italiano…», un accenno di sorriso per un attimo sembra scacciare le ombre del passato «… per me è stato importantissimo», conclude Asma.

La sartoria di Dedalus è anche un coinvolgimento emotivo e sociale trasversale che agisce in diversi ambiti ed età. «Nel mese di novembre del 2021 iniziai il corso di sartoria, alla vista delle macchine mi brillarono gli occhi, si risvegliò la passione che era stata repressa. Infatti sono cresciuta in un’azienda di borse di pellami di proprietà di mio padre, ero e sono macchinista di pelli. Tutti ovviamente hanno notato la mia dimestichezza e manualità, e giorno dopo giorno sono rinata sempre di più. Poi mi è stata offerta una borsa-lavoro, e mi sono ritrovata a insegnare a cucire a ragazzi e ragazze che venivano al corso», afferma Patrizia commossa.

«Mi chiesero di sostituire l’insegnante Antonella nei giorni in cui lei non poteva, così mi sono ritrovata in un mondo meraviglioso. Ero lì per insegnare qualcosa alle ragazze che mi hanno praticamente resa consapevole del fatto che si può rinascere. Quando veniva Asma per raccontarmi la sua vita mi infondeva fiducia perché si fidava di me, raccontandomi la sua storia aiutava la mia autostima. Mi è successo tante volte con le donne della sartoria, è fantastico perché ti rendi conto come il cucire è l’ultima cosa: lì c’è sorellanza, siamo tutte uguali, c’è affetto, c’è il rispetto, c’è tutto e poi c’è la sartoria!», continua Patrizia.

Mariola, polacca sposata con un tunisino e a Napoli da più di vent’anni è la responsabile di Ciak si cuce, il laboratorio sartoriale in cui le protagoniste sono proprio le madri. «Abbiamo iniziato con l’atelier un anno prima del lockdown, ma solo da due anni è diventato corso di formazione che rilascia un attestato di frequenza spendibile», precisa Mariola. Al momento è in fase di avvio una collaborazione tra Dedalus e l’Università Federico II di Napoli al fine di realizzare borsette a tracolla per gli smartphone. «Molte donne sono arrivate tramite passaparola, qualcuna è venuta direttamente a chiedere delle informazioni, altre tramite i figli che frequentano i nostri lavoratori. Qualcuno è arrivato perché è beneficiario dei nostri progetti, come le donne che sono nelle strutture di antiviolenza o i giovani che si trovano nelle nostre case per minori stranieri non accompagnati», puntualizza Mariola.

Patrizia è una di queste persone, durante la sfilata del 7 marzo organizzata da Dedalus anche i suoi tre figli erano presenti e applaudivano insieme a tutto il pubblico. «Ci occupiamo tantissimo della ricostruzione del rapporto madre-bambino perché una donna che subisce maltrattamenti per anni è nei fatti lesa nella sua capacità genitoriale, non perché non sia una buona madre, ma perché le violenze abbattono l’autostima. Il maltrattante che picchia fisicamente la propria compagna la denigra anche moralmente, molte di queste umiliazioni avvengono davanti ai figli, quindi la donna viene sminuita ai loro occhi. Quando vengono nelle strutture di accoglienza uno dei lavori importanti delle operatrici è quello di ricostruire il rapporto tra madre e figlio, anche quel rapporto di autorevolezza che giustamente un genitore deve avere. Se un bambino piccolo che ha bisogno di cure vede che il suo principale datore di cura, la madre, è svilita, umiliata, costantemente in pericolo, tra virgolette perde fiducia nella sua capacità di proteggerlo, di conseguenza il suo datore di cura smette di essere un adulto di riferimento», Tania prende una pausa, è visibilmente coinvolta dai vari meccanismi di violenza che si instaurano dentro casa.

«Nel centro di accoglienza lavoriamo molto su questo aspetto, Save the Children lo diceva già qualche anno fa che in Italia ci sono 400.000 bambini vittime di violenza assistita. I bambini che vivono all’interno di case dove si consumano i maltrattamenti non c’è bisogno che li vedano, la violenza il bambino la percepisce sulla pelle, perché la madre dopo che è stata picchiata dal compagno e sminuita psicologicamente di certo non gli sorride. Il grande errore che delle volte viene commesso dalle istituzioni è che non capiscono che il maltrattamento non si consuma davanti ai figli, ciò induce le autorità a sottostimare la situazione», conclude Tania.

«Il problema sorge quando lui pensa effettivamente che tu sia diventata la sua preda, quando sa di averti preso, in particolare quando tiene in pugno i tuoi figli. Perché la violenza psicologica è quella più elevata? Perché incomincia proprio da lì, e noi spesso abbiamo difficoltà a vederla perché si inizia con piccole rinunce, in realtà è proprio questo l’inganno», è Giovanna (nome di fantasia) dell’associazione Maddalena di Fuorigrotta, vittima di violenza domestica, che parla davanti a un pubblico prevalentemente femminile al teatro Trianon Viviani di Napoli dove Dedalus e diverse associazioni tengono una conferenza con il titolo «Oltre l’8 marzo» presieduta da Marisa Laurito.

«Inizialmente quest’uomo sembra perfetto: ti comprende, ti sta a fianco, estremamente empatico, fino a che non capisce che è il momento giusto per creare un precedente, un piccolo litigio di cui voi sarete ignare responsabili. L’intento è di far sorgere in voi il senso di colpa. Allora la restrizione inizia dal divieto al caffè con le amiche o dal: “Come mai sei così truccata? Dove devi andare? E con chi?”, mentre noi cerchiamo di rincorrere quello che c’era all’inizio, ma non lo troveremo più, perché quello era l’inganno per poterci soggiogare. La responsabilità non è nostra e il prenderne consapevolezza è difficile, perché ci hanno insegnato che dobbiamo salvare la famiglia a tutti i costi. Infatti, uno degli slogan che abbiamo nei volantini del centro antiviolenza di Fuorigrotta è “Io non tolgo il padre ai figli, tolgo un uomo violento”». Giovanna racconta di come si è resa conto di essere vittima di violenza tramite suo figlio di due anni e mezzo che aveva iniziato a balbettare, a soffrire di enuresi notturna, a non voler frequentare altri bambini. «Il neuropsichiatra della Asl non mi credeva, pensava che esagerassi ma gli raccontai il cambiamento che aveva avuto mio figlio: era un bambino solare, dinamico, estremamente socievole, che in una settimana si era tolto il pannolino, mentre in quel momento avevo un bambino che si svegliava la notte, o meglio rimaneva con questi occhi ghiacciati aperti. Alla fine, decise di tenerlo in osservazione con una psicologa per quattro sedute consecutive, e così è emerso che il problema di mio figlio… era il mio. I figli delle vittime di violenza sono tra virgolette dei disabili non riconosciuti, sono individui che hanno sofferto estremamente», Giovanna prende una pausa di fronte a una platea silente ed empatica.

Giovanna analizza poi il comportamento dei maltrattanti. «I padri che fanno? Una vittimizzazione di secondo livello, forse si prendono gioco dei figli, a tratti strumentalizzandoli. Sono riuscita ad averne l’affidamento esclusivo mentre lui li può vedere soltanto in presenza di altre persone, eppure sapete che cosa ha fatto? Una volta mi permisi di chiedergli di accompagnare insieme a suo padre i bimbi dal barbiere perché avessero un riferimento maschile visto che di solito li portavo io. E cosa fece? Li legò alla sedia rasandogli i capelli a zero con la macchinetta mantenendoli con forza. I bambini quando tornarono da me, il giorno dopo era l’inizio della scuola, non volevano uscire di casa. E questo non lo riesci a spiegare, neanche quando vai in tribunale, la prima cosa che ti dicono, è se sei adeguata, se sei così… se sei capace», conclude disarmata Giovanna.

Tania di Dedalus punta il dito contro certi atteggiamenti dei mass media. «Il grande errore che viene commesso dai media, che forse deriva dal fatto che siano anche loro vittime del patriarcato, è utilizzare a volte dei termini quando si parla di maltrattamenti in ambito domestico che invisibilizzano le vittime. Penso ai casi di femminicidio: “Donna uccisa da un uomo vittima di un raptus”, raptus di cosa? “Il gigante buono che non accettava di essere rifiutato”, no, è un uomo che ha ucciso una donna, un assassino, punto. Oppure: “Il primo colpo di pistola l’ha sparato lei quando ha deciso di lasciarlo”. Questi titoli che acchiappano lettore rendono invisibile la vittima e giustificano lo stupratore, il violentatore, l’assassino! Bisogna cambiare il linguaggio di comunicazione, altrimenti passa un messaggio sbagliato».

«Il tema della violenza in ambito domestico è strettamente connesso al tema delle discriminazioni di genere, e al tema della violenza economica. Partiamo dal presupposto che in Italia il 50% delle donne è disoccupata, il 50% degli/lle italiani/e ritiene che in famiglia il principale soggetto che deve portare risorse economiche è l’uomo, mentre la donna prendersi cura della casa. Questa visione stereotipata dei generi fa parte della struttura della società e in parte comporta che le donne che subiscono maltrattamenti trovino molta più difficoltà nel diventare autonome. Perché le donne non si affrancano da un maltrattamento? Perché spesso non sanno poi come occuparsi economicamente dei bambini. Quindi, l’essere disoccupata o impegnata in un lavoro solo part-time non aiuta, la discriminazione all’interno del lavoro e nella società è strettamente connessa con la violenza», conclude Tania. I centri antiviolenza prendono in carico la vittima per affrontare il percorso di affrancamento sostenendola a livello economico e legale, spesso fornendo un appartamento dove vivere.

«Mi ruppe il timpano e oggi questa lesione fisica è permanente, avverto ancora dolori quando sento un po’ di vento… ma rispetto alle umiliazioni, al chiudersi in casa, a negarti l’amicizia, la famiglia e tutto il resto la menomazione fisica è proprio una passeggiata. Il dolore fisico non è nulla rispetto a quello psicologico, oggi ne sono totalmente fuori. Per me la sfilata del 7 marzo alla Dedalus è stata una rivincita personale, l’ho pubblicata sui miei social come la mia vittoria», sorride fiera Patrizia. «Ho voluto che venisse fuori l’eleganza, la femminilità, l’essere anche provocante, tutte qualità che avevo represso. L’allegria, la spensieratezza, la forza, però decido io, perché purtroppo ancora si sente in giro “Eh, ma quello ti ha guardato, gli hai dato troppa confidenza”, “Perché tu ti sei messa un pantalone così…”, non è giusto. Volevo che queste qualità venissero fuori alla sfilata, tutte me lo hanno confermato e sono felice. Inoltre posso dire che mi sono molto divertita, perché in fondo doveva essere un gioco: facciamo le borse, le gonne, la sfilata e mi sono ritrovata su Rai Tre, una serata meravigliosa, un sogno praticamente».

Patrizia ora sta facendo un tirocinio presso una ditta di tessuti nel napoletano, la sua amica Asma sta studiando per ottenere la borsa-lavoro e sostituirla alla sartoria, a breve Patrizia potrebbe essere assunta in maniera definitiva, un’altra rivincita che si è presa. «Auguro a tutte di venirne fuori, ma incontrare le persone giuste può salvarti, perché la vita non la perde solo chi viene ammazzato, nel vero senso della parola… io non ero solo morta, ero sepolta viva».


(Alias – il manifesto, 13 maggio 2023)

Print Friendly, PDF & Email