29 Agosto 2000
Democrazia e diritto n. 7

Il lavoro del senso

Tiziana Vettor

Le conseguenze sulla vita personale indotte dal nuovo capitalismo «flessibile» sono al centro di alcune recenti analisi. Richard Sennet sottolinea lo stato di ansia in cui si trovano la maggior parte dei lavoratori e in generale l’effetto «tellurico» sulle relazioni sociali causato del nuovo paradigma produttivo (Sennet 2000). Franco Berardi parla apertamente di infelicità e alienazione che dilagano nella «fabbrica» postfordista (Berardi 2001). Ulrich Beck è a sua volta esplicito, descrivendo la società odierna come la società del rischio, che è, innanzitutto, il rischio esistenziale cui sono soggetti i lavoratori: le trasformazioni del lavoro in atto hanno comportato una progressiva e inarrestabile demolizione del welfare state e la deregulation del mercato del lavoro con la conseguenza di un progressivo peggioramento della condizione umana (Beck 2000).

Che cosa ci sta capitando? Si chiede uno psichiatra e psicoanalista, Cristophe Dejours, direttore del Laboratoire de Psychologie du Travail e autore del recente L’ingranaggio siamo noi (Dejours 2000). Perché tanta indifferenza per l’infelicità nei luoghi di lavoro (ma anche fuori da questi)? Perché nessuno agisce, nessuno si oppone? Per capire questa incapacità di difendere noi stessi e gli/le altre dalla violenza del neoliberismo, Dejours propone di indagare il rapporto soggettivo che uomini e donne hanno con il lavoro. Il suo è un libro controcorrente nella cultura politica di sinistra, e vicino invece alla cultura delle donne – l’autore lo sa e lo dice – per la grande attenzione che dà alla vita soggettiva (Muraro 1998).

 

 

 

2. Un altro approccio

 

Il problema, per Dejours, non è cercare di comprendere la logica economica cui la quasi totalità dei paesi del pianeta oggi si ispira, ma metterla invece tra parentesi, per concentrare lo sforzo analitico sui comportamenti umani che la producono e su quelli che portano ad accettarla, a sottomettervisi. Il punto è precisamente quello del rapporto tra soggettività e lavoro. Secondo questa prospettiva l’attuale assetto economico non è solo il risultato di scelte economiche ineludibili spiegate dalla scienza economica, ma anche di comportamenti dei/delle singoli/e.

Privilegiare la soggettività nel lavoro è operazione complessa, e dai più svalutata. A partire, dice Dejours, dalle principali organizzazioni sindacali (ma non solo: analogo discorso vale anche per le organizzazioni politiche), le quali si sono rivelate storicamente contrarie ad accogliere il tema della soggettività e, in primis, a considerare la sofferenza di uomini e donne provocata dal lavoro[1]. Il che non è stato privo di gravi conseguenze: a questo atteggiamento di chiusura Dejours in particolare imputa «un ritardo enorme rispetto allo sviluppo delle tesi avanzate dal liberismo economico, ritardo che ha lasciato libero il campo ai sostenitori dei concetti di risorsa umana, di cultura di impresa, e ha creato indirettamente una grave difficoltà a produrre un progetto alternativo all’economicismo di sinistra come di destra» (Dujours 2000, p. 52). Ma, soprattutto, il rifiuto sindacale di prendere in considerazione questo aspetto «ha rappresentato la prima fase di costruzione della tolleranza verso la sofferenza nel lavoro» (p. 53), laddove questa riveste un ruolo fondamentale nella comprensione delle «molle soggettive del dominio» (p. 16), nella spiegazione, cioè, della mancata rivolta o del mancato rifiuto, da parte della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, di una condizione umana di ostaggio del «male». Male che Dejours identifica nella «tolleranza della menzogna» (il prevalere del discorso economicistico o delle pretese dell’economia di mercato) «nella sua mancata denuncia e, più ancora, nel concorso alla sua produzione», vale a dire nella «partecipazione all’ingiustizia e alla sofferenza inflitta ad altri» (p. 106).

Nell’analisi di Dejours, più precisamente, l’elemento della sofferenza non è che l’inizio di un processo soggettivo che sfocia nella paura del «male» così come egli lo ha descritto (Dejours 2000, pp. 106 sgg). Ed è proprio la «comparsa della paura» l’unica spiegazione verosimile (dopo quella rappresentata dalla svalorizzazione della soggettività nel lavoro) del perpetuarsi dello stesso male (p. 67). Contro la sofferenza e la paura patite sul lavoro si assiste in realtà anche allo sviluppo di strategie difensive, che tuttavia, sottolinea l’autore, appaiono diverse tra uomini e donne. Del resto, precisa Dejours, ciò che è radicalmente diverso è, prima ancora delle strategie difensive, lo stesso rapporto che donne e uomini hanno con il lavoro e la sofferenza nel lavoro (p. 185).

 

 

3. Soggettività e differenza sessuale

 

Dejours rende esplicito il debito di riconoscenza della sua ricerca nei confronti del lavoro di quelle studiose, come Daniele Kergoat, che attraverso studi pioneristici hanno tentato di «captare l’espe­rienza complessa del lavoro femminile», sollecitandone e raccogliendone la narrazione (Cigarini 2000a, p. 149). Ma insieme con que­­­­­­­­sto raro merito Dejours ha, soprattutto, quello di avere colto un aspetto dirimente dell’approccio metodologico da esse proposto e utilizzato, e cioè di avere correttamente inteso che elemento fondamentale dell’analisi della soggettività nel lavoro è il fatto della differenza sessuale. Un nuovo approccio nell’analisi che si è potuto affermare grazie alla personale presa di coscienza femminista da parte di quelle stesse studiose e ricercatrici da cui poi è scaturito un profondo cambiamento nella metodologia della ricerca, appunto spostatasi da un approccio oggettivizzante, neutro, indifferente alla differenza sessuale, ad uno centrato invece sulla soggettività e la parola di uomini e di donne.

Ispirate a questo diverso approccio sono senz’altro le ricerche di Cristina Borderías, studiosa di storia contemporanea dell’Università di Barcellona, ora confluite nel libro Strategie della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile (Borderías 2000), nonché quelle intraprese dal gruppo di ricerca sul lavoro costituitosi alcuni anni fa alla Libreria delle donne di Milano, dei cui risultati teorici si è dato conto anche sulle pagine di Democrazia e diritto (Cigarini 2000a).

Cristina Borderías proviene dal movimento della storia orale, che privilegia il metodo biografico, ma questo da solo non sarebbe bastato – come lei stessa spiega – a leggere le biografie delle donne senza farsi intrappolare nelle tradizionali categorie interpretative di stampo oggettivo sul lavoro femminile; c’è voluta quella presa di coscienza che, è ancora lei a dirlo, l’ha portata a rompere la distinzione tra soggetto e oggetto della ricerca, ascoltando le donne intervistate come narratrici e interpreti della propria storia invece che come mere fornitrici di dati da interpretare (Jourdan 2001). Così è riuscita a mettere in gioco la soggettività di queste donne, la soggettività di chi lavora, e ad una storia astratta costruita da sociologi, economisti, sindacalisti e giuristi sulle donne ha potuto contrapporre una storia concreta sorta dalle loro esperienze e raccontata da loro stesse. Il lavoro femminile, infatti, è stato tradizionalmente letto come debole, non qualificato e marginale perché interpretato a partire dall’uso indiscriminato di paradigmi concettuali – gli unici, peraltro, ad avere dignità scientifico-disciplinare – che nascevano all’interno delle analisi del lavoro salariato maschile (il lavoro in fabbrica di fordistica memoria). Si pensi solo a come fino agli anni settanta veniva indagato il lavoro domestico: cura, affetti senza misura, tempo come valore in sé – ovvero tutto ciò che faceva irrazionale quel lavoro – dovevano cedere il passo alla produttività, a un tempo tutto cronometrato, alla messa tra parentesi di qualsiasi relazione personale; efficienza e redditività invadevano lo spazio domestico allo scopo di addomesticarne le passioni e renderlo finalmente razionale (Vantaggiato 2001a). Scrive Borderías: «La storia degli studi sul lavoro femminile è la storia di un itinerario che va dall’invisibilità, cancellazione e costruzione di una immagine fortemente negativa di questa esperienza, all’af­fermazione della soggettività e della differenza sessuale» (Borderías 2000, p. 108)[2].

Anche le componenti del gruppo di ricerca della Libreria delle donne di Milano hanno proceduto rifacendosi all’espe­rienza storica del femminismo, alla quale ora bisognerà brevemente guardare per comprendere meglio quella svolta metodologica di cui parla Cristina Borderías.

Il movimento femminista non fu (così sicuramente nell’e­sperienza italiana e, segnatamente, milanese) un movimento di liberazione, ma di libertà, per libertà intendendosi il poter trovare liberamente il senso della propria vita (Libreria delle donne di Milano 1987; Ribero 1999). Se lo si intende come movimento di liberazione, si continua ad alludere a un modello paritario, e a legittimare solo il discorso sulla discriminazione. La libertà femminile è nata, invece, in opposizione a eguaglianza e tutela antidiscriminatoria (Muraro 1997; 1995). Racconta Lia Cigarini: «Insieme ad altre ho pensato che la questione prioritaria da porsi fosse quella di trovare un senso al mio essere donna, cioè di chiedersi chi siamo e che cosa vogliamo. Questa è stata la rottura con la precedente politica dell’assimilazione al mondo maschile. […] Ponendo dall’inizio la questione dell’essere donna, abbiamo cominciato a lottare sul terreno della libertà femminile, perché la libertà spetta a causa del suo essere donna e non a prescindere dal suo sesso come recita invece la Costituzione e tutte le leggi di parità che ne sono seguite» (Cigarini 1995, p. 229). E fu nell’atto dell’autointerrogazione della soggettività che la libertà femminile prese corpo: «raccontata in prima persona, l’e­sperienza femminile muta o tacita o costretta al conformismo sociale e all’imitazione dei modelli maschili acquistava un altro significato e apriva nuove strategie narrative della vita femminile, in cui i destini prescritti lasciavano il posto alla libera costruzione di sé» (Dominijanni 1998, p. 25).

L’esperienza del femminismo ha fatto sì, quindi, che le donne mettessero in atto un’interrogazione radicale della soggettività attraverso una pratica dell’autointerrogazione – consegnataci con il nome di «pratica del partire da sé» (Diotima 1996) – che andava ad indagare senza pregiudizi l’esperienza e i vissuti, anche quelli più profondi, e che si è rivelata capace di restituire il senso, l’autenticità e l’origi­nalità delle vite di donne cancellati (rimossi?) dalla ricerca «oggettiva» o, se si preferisce, dal pensiero scientifico e/o dal pensiero toutcourt, del quale il femminismo della differenza ha svelato il finto carattere neutro (Diotima 1987).

È questo, dunque, il retroterra culturale e politico delle ricerche sulla soggettività nel lavoro. Esse infatti portano il segno inequivocabile dell’importanza che le donne attribuiscono al primato della soggettività (domanda di senso e quindi autonarrazione) e della differenza sessuale. La differenza sessuale ha qui infatti a che vedere con la dicibilità della propria esperienza di sé e del mondo (Rivera Garretas 1998).  Essa, in altri termini, è semplicemente il senso e il significato che si dà al proprio essere corpo (donna/uomo), aprendo la via alla libertà (Cigarini 1995, pp. 229 sgg.).

 

 

4. La via alla libertà nel lavoro

 

Nel gruppo di ricerca della Libreria delle donne ci siamo interrogate sul nostro rapporto con il lavoro e più in generale su che cosa le donne ritengono essenziale e importante nel lavoro (Cigarini 2000a; Cigarini-Marangelli 1998). L’indagine sulla soggettività ha evidenziato molti aspetti di questo rapporto e, in primis, che esso si gioca nell’agire e pensarsi in relazione. Le donne, cioè, vivono il rapporto con il lavoro come alienato laddove quest’ultimo si presenti povero di scambi e di relazioni (Cigarini 1997, p. 13). «Sono soddisfatta del mio lavoro, non perché guadagno tanto, ma perché ho delle buone relazioni», dicono spesso, mostrando di avere una misura del lavoro che eccede quella del denaro e della carriera, e che si verifica soprattutto nelle relazioni con i colleghi e le colleghe (Cigarini-Marangelli 1998).

Notoriamente, in questo aspetto relazionale del lavoro femminile è stata individuata anche una decisiva chiave di lettura delle attuali trasformazioni del lavoro tout court, che nel postfordismo evolve appunto verso forme sempre più relazionali, «femminilizzate»[3]. In queste forme peraltro è stato individuato anche il pericolo di consegnare tutto ciò che si è al mercato (Caccia 1998; Gorz 1997). C’è qui un fraintendimento, o un’incapacità di comprendere in che cosa consista la relazionalità femminile, e, di converso, uno dei principali motivi della sofferenza femminile nel lavoro. La relazionalità femminile, infatti, è una barriera all’alienazione, poiché si oppone all’astra­zione, definendosi in base ad una concretezza estrema: il contatto con l’altro/a, e il prendersene cura, la capacità di ragionare in «contesto», la facilità nel creare legami (Vantggiato 2001b). Quanto alla sofferenza, una delle sue cause è senz’altro rintracciabile nello stare in un contesto di lavoro fatto di relazioni strumentali per l’acqui­sizione e la gestione del potere (è per questo che le donne in molti casi non vogliono accedere a posizioni di vertice, e non a causa del famigerato «tetto di vetro» che le esclude) (Borderías 2000).

Il potere, secondo Dejours, è una delle e­spres­­­sioni più significative della virilità nel lavoro. Numerosi, del resto, sono i racconti dai quali emerge la spaccatura esistenziale, simbolica, fra i due sessi nel rapporto con il lavoro, e il configurarsi di un conflitto tra i sessi nel lavoro  (Cigarini 2000a). Della virilità Dejours parla, in particolare, per spiegare le strategie difensive attuate nei confronti della paura. Gli uomini per combatterla si appellerebbero al senso di virilità, o meglio al cinismo virile (Dejours 2000, p. 122), coltivato nel lavoro e che Dejours propone di considerare fra le cause del male dell’indifferenza verso il male. Per spiegarla, egli si sofferma sul significato della virtù del coraggio, su cui si fonda il valore sociale della virilità. «Il coraggio è, in origine, la capacità di andare in guerra ad affrontare la morte e a darla ad altri. Ma questa virtù dell’anima è umanizzante? Non è certo: essa forma uomini virili, ma forse non umani, essa infatti non è esente da ambiguità verso l’umanità. Chi non è capace di vincere la sua paura e di andare a combattere, costui non sarebbe un uomo coraggioso. E neanche un essere umano? Dalle donne generalmente non si esige un simile apprendistato, tolte quelle chiamate ad occupare posizioni professionali esclusive degli uomini. In tal caso però possono insorgere spesso difficoltà psicologiche ed affettive nella sfera privata». E continua: «Ma, trovarsi dalla parte delle donne, non è forse far parte dell’u­manità? E se la caratteristica dell’essere umano e della sua umanità non fosse proprio quella di non poter fare violenza ad altri? Solo dagli uomini si può pretendere che esercitino la violenza nei confronti degli altri. E solo gli uomini possono giudicare una vigliaccheria il rifiuto di combattere delle violenze quando ciò viene loro richiesto o quando, come si dice, la situazione lo esige. Fra le donne non troviamo una simile configurazione. Rifiutarsi di esercitare la violenza, per una donna, non è svalorizzazione agli occhi delle altre donne. Che una donna rifiuti di fare del male ad altri non può essere considerato un vizio se non da uomini che associano un tale rifiuto alla debolezza, e questa debolezza all’inferiorità congenita delle donne… il sesso debole. La debolezza del sesso debole non è nell’incapacità di sopportare la sofferenza, ma di infliggerla ad altri». E conclude: «La virilità è il male associato ad una virtù – il coraggio – in nome delle necessità inerenti all’attività lavorativa […] è la forma banalizzata con cui si esprime la giustificazione dei mezzi attraverso i fini […] è il concetto che permette di erigere a valore, in nome del lavoro, l’infelicità inflitta ad altri» [4].

Anche per le donne funzionano certamente strategie collettive di difesa specifiche. Nelle donne però «si osserva un rapporto notevolmente diverso da una parte con il sapere e con la padronanza, dall’al­tra con il reale, con il fallimento e con il non riuscire a far fronte. Nelle donne c’è un riconoscimento basilare del reale: la strategia difensiva consiste nel circoscriverlo, mentre nelle strategie collettive di difesa che portano l’impronta della virilità il reale e il suo corollario (l’esperienza del fallimento) sono oggetto di negazione collettiva e di razionalizzazione» (Dejours 2000, pp. 143-144).

L’interrogazione sul senso del lavoro per le donne ha rivelato anche altro. Esse nel rapporto con il lavoro mettono al centro l’impor­tanza di poter decidere qualcosa del proprio lavoro, la competenza professionale e la formazione culturale più che la competizione, il tentativo di tenere assieme vita e lavoro  (Cigarini 2000a).

L’interrogazione sul senso del lavoro apre la via alla libertà. Dire il senso che per ciascuno/a ha il proprio lavoro significa riposizionarsi continuamente rispetto a quest’ultimo. Significa darsi la possibilità di una espressione di sé, dei propri desideri, paure, capacità, competenze, risorse; e la possibilità di modificare la realtà sia in senso soggettivo (le relazioni di lavoro) che oggettivo (il più generale contesto di lavoro, le forme contrattuali). La libertà nel lavoro di cui parlo è proprio questo: presa di coscienza del proprio desiderio, ricerca di senso e modificazione del contesto. Una nozione della libertà profondamente diversa da quella che ereditiamo dal pensiero giuridico. Essa non è riducibile – e quindi non si identifica – con il sistema dei diritti, collocandosi sopra la legge, nel luogo dell’esi­stenza simbolica (Cigarini 1995, pp. 195 sgg.), e si deve alla politica delle donne, alla pratica femminista dell’autointerrogazione, al partire da sé.

 

 

5. Più libertà e meno regola eteronoma

 

Soggettività, differenza sessuale, libertà nel lavoro (nei significati qui accolti) sono problematiche spesso non considerate nei recenti studi sull’«orrore economico» (Forrester 2000) (ovvero sulle trasformazioni produttive e del lavoro in atto) e, malgrado la loro importanza (sul piano della metodologia della ricerca, delle analisi e delle proposte), continueranno a non esserlo fintanto che prevarrà uno sguardo oggettivizzante o legalista. Molti/e sembrano ancora non accorgersi che il mondo del lavoro, proprio perché è un mondo di costrizioni (non si dimentichi che il diritto del lavoro si è costruito sul modello paradigmatico del lavoro subordinato), ha bisogno di qualcosa in più della sola legalità formale. Il «male» nel lavoro, per stare ancora con Dejours, è (anche) sistematica violazione delle regole lavoristiche e ciò nonostante l’ordinamento italiano sia senz’al­tro dotato di norme a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici fra le più garantiste e complete. Con questo naturalmente non intendo dire che di quelle norme ci si debba disfare[5]. Intendo dire che la libertà nel lavoro nasce e agisce su un altro piano. Nasce da aperture che sciolgono vincoli non indispensabili, da invenzioni di regole elastiche, trovate dai/dalle singoli/e nei contesti di lavoro in base alle proprie esigenze.

Alcuni giuristi del lavoro cominciano a mostrarsi consapevoli di tutto questo, in particolare coloro che hanno riflettuto sui destini del diritto del lavoro a seguito della svolta dal fordismo al postfordismo. Così si è espresso Marco Barbieri in un recente convegno: «Una prospettiva diversa in grado di determinare un nuovo sviluppo del diritto del lavoro deve fare i conti con la capacità di quest’ul­timo di essere più strumento di libertà (di relazione, di produzione di senso) tra i soggetti concreti che lavorano e meno regola eteronoma che assume le persone come “destinatarie”. È, insomma, la via stretta della liberazione del lavoro, piuttosto che quella della liberazione dal lavoro, quella che mi pare capace oggi di offrire un orizzonte di senso alla mediazione giuridica. Insomma, non è tanto dentro il confronto/scontro – giuridicamente, il bilanciamento degli interessi – tra efficienza economica e giustizia sociale che si può aprire una nuova stagione del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Al contrario, è necessario lavorare con analisi e proposte sull’equilibrio tra esigenze del mercato (del capitale, cioè) e libertà (desideri) delle persone che lavorano: sapendo che il diritto può molto ma non può tutto» (Barbieri 2001)[6].

 

 

Bibliografia

 

Marco Barbieri (2001), Lavoro e diritto tra mercati e poteri, relazione al convegno I diritti del lavoro e le pretese dell’economia, in corso di pubblicazione.

Ulrich Beck (2000), Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino, Einaudi.

Franco Berardi (2001), La fabbrica dell’infelicità, Roma, DeriveApprodi.

Maria Luisa Boccia-Adele Pesce (1998, a cura di), Lavoro Lavori, Quaderni di Reti, supplemento a Reti n. 1.

Cristina Borderías (2000), Strategie della libertà, Roma, Manifestolibri.

Beppe Caccia (1998), Quando il lavoro diventa donna, in Via Dogana, n. 38.

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Lia Cigarini (2000a), Il conflitto tra i sessi nel lavoro, in P. Barcellona(a cura di), Lavoro: declino o metamorfosi?, Democrazia e diritto 4, Milano, FrancoAngeli.

Lia Cigarini (2000b), Intervento, in Azione Mag, n. 2.

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Viviane Forrester (2000), Una strana dittatura, Milano, Ponte delle Grazie.

André Gorz (1997), Miserie del presente ricchezze del possibile, Roma, Manifestolibri.

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Christian Marazzi (1998), Passami il 23. Il passaggio dall’economia fordista all’eco­nomia dell’informazione, in Via Dogana, n. 38/39.

Luisa Muraro (1995), Oltre l’uguaglianza, in Diotima, Oltre l’uguaglianza, Napoli, Liguori.

Luisa Muraro (1997), Desiderio a cielo libero, in Il manifesto, 19 febbraio.

Luisa Muraro (1998), La politica della compassione, in Via Dogana, n. 40-41.

Marco Revelli (2001), Oltre il novecento, Torino, Einaudi.

Aida Ribero (1999), Una questione di libertà, Torino, Rosenberg & Sellier.

María Milagros Rivera Garretas  (1998), Nominare il mondo al femminile, Roma, Editori Riuniti.

Richard Sennet (2000), L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli.

Franco Scarpelli (1999), Autonomia collettiva e autonomia individuale nella regolamentazione del rapporto dei lavoratori parasubordinati, in Lavoro e diritto, n. 4.

Iaia Vantaggiato (2001a), Biografie messe al lavoro, in Il manifesto, 2 febbraio.

Iaia Vantaggiato (2001b), Sentimenti e cura, in A Zanini-U. Fadini (a cura di), Lessico postfordista, Milano, Feltrinelli.

Tiziana Vettor (1999), Le ricerche empiriche sul lavoro autonomo coordinato e continuativo e le nuove strutture di rappresentanza sindacale Nidil, Alai e Cpo, in Lavoro e diritto, n. 4.

 

 

 



[1]. Scrive Dejours: «[L’approccio privilegiante] la soggettività individuale si pensava che conducesse a pratiche individualistiche e nuocesse all’azione collettiva. […] Considerate antimaterialistiche tali preoccupazioni erano sospettate di nuocere […] alla coscienza di classe, e di favorire un “ripiegamento individualistico piccolo-borghese” di natura fondamentalmente reazionaria» (Dejours 2000, pp. 49-50).

[2]. Cfr. anche Boccia-Pesce 1988, in particolare i contributi delle stesse Boccia, pp. 3-4 e Pesce,pp. 12-13.

[3]. «Giova indicare – almeno sommariamente – quali caratteristiche del paradigma postfordista ne abbiano ispirato l’accostamento a un modello femminilizzato del modo di produzione. L’immaterialità della merce, innanzitutto, e dello stesso processo produttivo, ossia l’u­­tilizzo – per la produzione di beni – di materie prime quali il sapere e la comunicazione. A definire una merce che tende a diventare “immateriale”, sono, infatti, elementi legati alla conoscenza, al sapere e al linguaggio come pure all’assistenza e, dunque, alla cura» (Vantaggiato 2001b, pp. 264-265. Per analoghe considerazioni, Marazzi 1996 e 1998; Revelli 2001).

[4]. Dejours 1998, Suffrance in France, éditions du Seul, Paris (Dejours 2000) citato in Muraro 1998, pp. 6 sgg.

[5]. Cartosio 1998, che, invece, considera la libertà nel lavoro nel senso datone in queste pagine, in alternativa ai sistemi dei diritti a tutela dei lavoratori.

[6]. Cfr. anche Scarpelli 1999, pp. 553 sgg.; Vettor 1999, pp. 619 sgg.

 

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