Il reddito di base incondizionato come progetto postpatriarcale, di Ina Praetorius
Intervento all’Agorà del lavoro di Milano, 27 gennaio 2014
Per quanto ne sappiamo, finora tutti gli esseri umani sono venuti al mondo come poppanti: dal corpo di un essere umano di sesso femminile della generazione precedente. I “nuovi arrivati” possono sopravvivere solo se qualcuno/a dà loro ciò di cui hanno bisogno. Di che cosa hanno bisogno? Di protezione, di cibo, vestiti, calore, amore, stimoli, sonno, tranquillità, regole, lingua, morale e di molte altre cose. Tutto questo i nuovi nati lo ricevono come dono, perché non sono in grado di pagarlo.
Se cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento – difficilmente contestabile – della conditio humana, allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è stato dimostrato. In Svizzera è entrato da qualche anno nella statistica ufficiale; solo che i media e la ricerca mainstream finora non ne hanno davvero preso atto. Anche se una grande parte della società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia, è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare delle soluzioni durevoli.
2400 anni di Self Made Man (l’uomo che si è fatto da sé)
Dal 21 aprile 2012 fino ai primi di marzo 2013 ero impegnata a raccogliere firme per l’“iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato”. In quell’occasione, nelle strade e piazze svizzere, ho sentito dire tante volte: “La mia vita me la sono guadagnata da solo!”
Che cosa vogliono dire i numerosi ex poppanti con questa frase?
Loro pensano che, dopo aver ricevuto gratuitamente per anni da qualcun altro tutto il necessario, alla fine hanno fatto degli sforzi per guadagnare soldi: per esempio hanno fatto la scuola, si sono dati una formazione, hanno trovato un posto di lavoro oppure hanno “fatto carriera” . Queste fatiche pluriennali meritano, senza dubbio, un certo riconoscimento. Posso persino capire che alcune persone che sentono di “mantenere con le loro fatiche” se stessi e forse anche una famiglia, non se la sentano spontaneamente di dare una parte del loro denaro a coloro che si impegnano meno.
Questa affermazione “guadagnarsi la vita con le proprie forze” è abbastanza corrente e stranamente poco messa in dubbio. È il riflesso fedele della visione semplicistica dell’economia, con la quale conviviamo dalla fine del ‘700 circa. Il liberalismo economico moderno, a sua volta – così come molte parti della teoria socialista – si basa su una visione sdoppiata del mondo che troviamo già nel quarto sec. A. C., ad esempio nell’autorevole Politica di Aristotele: Il filosofo sostiene che l’uomo che secondo la sua natura non appartiene a se stesso ma ad un altro è per natura uno schiavo, e anche il rapporto tra maschile e femminile sarebbe per natura così: uno è meglio, l’altra inferiore, uno governa, l’altra viene governata. Sempre secondo il filosofo, la gestione della casa è una monarchia – perché ogni casa viene governata da un’unica persona – la politica al contrario consiste nel governare uomini liberi e uguali tra loro.
Esiste quindi una continuità strutturale tra la società schiavista dell’antichità, che molti ancora oggi chiamano affettuosamente “la culla della civiltà occidentale” – e la nostra vita collettiva di oggi. Ma si comincia a vedere che “la mano invisibile del mercato”, buona erede del “Dio padre” patriarcale, in realtà sono innumerevoli mani, soprattutto femminili, che lavorano. Ora quelle mani cominciano a diventare visibili, e ciò crea degli spostamenti, delle crisi – ed enormi spazi d’azione.
Si potrebbe ricominciare a riflettere …
Il dibattito sul reddito di base incondizionato sarebbe, ad esempio, una possibilità straordinaria per pensare noi stessi come esseri umani in modo del tutto nuovo – o forse antico: liberi nella dipendenza. Esseri umani che hanno ricevuto molti doni, in continuazione, all’inizio della vita e anche in età adulta, e che “si sono guadagnati da soli” solo una piccola parte della loro vita. La politologa Antje Schrupp spiega il necessario cambio di paradigma dicendo:
“La realizzazione dell’idea del reddito di base richiede un profondo ripensamento culturale, con due aspetti che non si possono guardare separatamente: da una parte l’idea che è normale ricevere qualcosa senza prestazione in cambio, dall’altra parte l’idea che le persone si sentono responsabili del loro ambiente e che fanno il necessario, anche senza essere costrette o remunerate.”
Se si affrontasse il dibattito alla luce dell’intera economia, invece di quella basata esclusivamente sul denaro, allora si vedrebbe che il reddito di base non è solo una questione di più libertà, come continuano a sottolineare molti dei protagonisti maschili di questo movimento, ma che si tratta piuttosto di organizzare le attività necessarie in modo nuovo. Finora si è parlato molto di libertà e poco di dipendenza e necessità – e solo raramente si dice che le donne già da molto tempo si stanno facendo carico della maggior parte della attività necessarie, senza quegli “incentivi economici”, da molti ritenuti indispensabili.
… e spesso si lascia perdere
A questo proposito vorrei citare l’esempio della polemica nata attorno alla trasmissione-dibattito “Arena” alla televisione svizzera del 27 aprile 2012, dedicata alla discussione sul reddito di base. In quella trasmissione si confrontavano quattro uomini, due favorevoli e due contrari. La trasmissione durava 75 minuti. Gli uomini presenti ne hanno occupato 72 per i loro interventi, le donne tre. Dopo 10 minuti viene inserito un grafico per illustrare il progetto reddito di base: una sagoma maschile, accompagnata dal commento
“Uno che guadagna 10.000 franchi, nel nuovo sistema riceve un reddito di base di 2.500 franchi e uno stipendio di 7.500.”
Poi appare una sagoma femminile, accompagnata dal testo:
“Chi non lavora riceve, senza fare niente, 2.500 franchi.”
L’affermazione ripetuta più volte dai contrari all’iniziativa, cioè “chi non guadagna denaro non rende, e quindi bisogna stimolare queste persone con incentivi monetari” non incontra quasi alcuna obiezione.
Fortunatamente la massima istanza per il controllo dei media ha accolto all’unanimità il ricorso di una telespettatrice, Martha Beéry-Artho, che aveva formalmente protestato per mancanza di informazione adeguata in questa trasmissione. Il giudizio che le dà ragione dice che il maggiore settore economico, non pagato o sottopagato, cioè la cura, non deve essere un “aspetto secondario” in una trasmissione dedicata al futuro della convivenza umana.
Ma la storia non finisce qui: nelle settimane successive al giudizio dell’autorità di ricorso, io in quanto membro del comitato d’iniziativa ho cercato di far capire alle e agli altri promotori e anche ai media che questo fatto era da mettere in grande rilievo.Ma giornalisti di grido, redattrici e attivisti per il reddito di base si sentivano infastiditi dalla mia richiesta e mi spiegavano che non spettava a loro “portare più donne in televisione”. Erano sordi alla mia obiezione che una rappresentazione adeguata della dipendenza dalla cura non si ottiene grazie a “più donne”, ma solo attraverso precise analisi economiche. Il comitato d’iniziativa ha deciso a maggioranza di non pubblicare un commento positivo sul giudizio dell’autorità di ricorso. Il giudizio è poi stato pubblicato in Internet e io ho smesso di raccogliere firme per l’iniziativa popolare, cosa piuttosto inusuale per una che l’ha promossa. In seguito la potente società televisiva ha trascinato il caso davanti alla corte suprema. Quest’ultima ha revocato il giudizio dell’autorità di ricorso l’11 ottobre 2013.
Ancora da capo
L’ “iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato” ha consegnato a Berna il 4 ottobre 2013 più di 120.000 firme valide. Il dibattito continua, e ciò significa che avremo ancora molte occasioni per dare un’impronta postpatriarcale al reddito di base incondizionato, contro una resistenza massiccia, ma con molto divertimento e molto lavoro sulle relazioni e sul linguaggio.
Insomma, la questione fondamentale di questo dibattito è di capire chi siamo in realtà, noi esseri umani: riconosciamo il fatto di essere dipendenti dalla cura, e che riceviamo tanti doni, anche da adulti? Capiamo che per questo motivo ogni forma di attività nel mondo è un atto di restituzione per qualcosa ricevuto in precedenza? In futuro, tutti, non solo le casalinghe e le madri, saranno disposti a fare le cose sensate e necessarie, senza incentivi monetari?
La politica postpatriarcale è un’arte. È un processo di contrattazione che non finisce mai. Mi capita di disperarmi per l’ottusità di tante persone. Mi capita di essere talmente arrabbiata da voler prendere d’assalto il grattacielo della società televisiva, e anche il tribunale federale. Ma quasi sempre è una festa continuare il lavoro, imperterrita, insieme alle mie amiche politiche.
Traduzione dal tedesco: Traudel Sattler