20 Ottobre 2009

Immagina che il lavoro

Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano
IMMAGINA CHE IL LAVORO
un manifesto del lavoro delle donne e degli uomini
scritto da donne e rivolto a tutte e a tutti
perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti
e il femminismo non ci basta più
Sabato 24 ottobre 2009, Casa della Cultura, via Borgogna 3, Milano

Abbiamo messo in mano il manifesto a donne e uomini, sollecitando pareri e reazioni.
Quelli che seguono sono alcuni dei commenti che abbiamo raccolto.
Fulvia Bandoli, politica ambientalista
Chiara Bisconti, responsabile risorse umane Sanpellegrino
Loretta Borrelli, movimento studenti dell’Onda
Susanna Camusso, segretaria confederale CGIL
Pat Carra, fumettista
Luciana Castellina, giornalista e scrittrice
Arianna Censi, segreteria provinciale PD, Milano
Giuliana Chiaretti, sociologa, Università di Venezia
Franca Chiaromonte, senatrice, giornalista
Don Raffaello Ciccone, responsabile per la vita sociale e il lavoro, Arcidiocesi di Milano
Roberta Cocco, responsabile marketing Microsoft Italia
Marco Deriu, sociologo, Università di Parma
Silvana Gallizioli, lettrice
Giulia Ghelfi, ricercatrice di marketing
Sabina Guancia, presidente Associazione famiglia Acli/Cisl
Giovanni Invitto, docente di filosofia teoretica, Università del Salento
Paolo Lazzaretto, artista
Alberto Leiss, giornalista e scrittore, DeA
Paola Liberace, giornalista e blogger, Il Sole 24 ore
Linda Liguori, consulente marketing
Mimma Marotta, lettrice
Lea Melandri, saggista e scrittrice, Libera Università delle Donne di Milano
Laura Mora Cabello de Alba, docente di diritto del lavoro, Universidad de Castilla-La Mancha (E)
Giorgia Morera, educatrice Comunità Giambellino, Milano
Letizia Paolozzi, giornalista e scrittrice, DeA
Laura Pennacchi, economista e politica, Fondazione Basso
Marina Piazza, sociologa
Marcella Pogatsching, filosofa, Università di Pavia
Liliana Rampello, docente di estetica, Università di Bologna
Rosanna Santonocito, giornalista e blogger, Il Sole 24 ore
Anna Soru, presidente Acta, associazione consulenti terziario avanzato
Aldo Tortorella, giornalista e politico, presidente ARS
Alain Touraine, sociologo, École des hautes études en sciences sociales, Paris
Chiara Valentini, giornalista, L’espresso

Fulvia Bandoli, politica ambientalista
Da un po’ di anni quando leggo un testo politico so che non devo aspettarmi grandi emozioni. Il vostro ultimo Sottosopra invece mi ha spiazzata, si legge bene da cima a fondo, ha forza e me l’ha trasmessa. Io mi occupo di ecologia, anzi è più corretto dire che l’ecologia si occupa di me e di noi (come del mondo) anche se gran parte degli economisti ancora non se ne rende conto e non la calcola, come molte altre cose, nel Pil. La parola che ho usato di più in questi vent’anni per spiegare quel che vedevo cambiare intorno a me, nel lavoro e nella vita, è stata proprio “manutenzione”. Manutenzione più che produzione di troppe merci o case, manutenzione dell’assetto idrogeologico del territorio, delle città, del patrimonio edilizio e dei trasporti, delle reti di ogni genere prima tra tutte quella dell’acqua. E mi son trovata a sostenere tante volte che non di opere grandi e di
operai e operaie per costruirle avremo più bisogno ma di manutentrici e manutentori di ciò che già c’è, di quell’esistente in natura ma al contempo limitato. Meno merci, più servizi e più relazioni (come quella, intensa, che mia madre e la donna che si prende cura di lei hanno iniziato da qualche mese, e che per quella donna è anche un lavoro che le dà da vivere).
Dunque potete immaginare quanto mi sembrino reali e vere le cose che avete scritto e quanto possa essere fecondo definire un bel pezzo di lavoro futuro “arte della manutenzione dell’esistenza”.
Spero che il vostro testo parli forte come ha parlato a me, a tanti e a tante, a destra ma purtroppo anche in altri perimetri, che il lavoro non sanno più in quale posto metterlo e quale ruolo abbia, e non trovano le parole per definirlo e valorizzarlo. Avevate scritto nel vostro quaderno Il doppio sì che “il lavoro che fanno oggi le donne è più basicamente lavoro: intreccia produzione di cose e di simboli e riproduzione della vita propria e altrui.” Con l’ultimo Sottosopra vi spingete oltre, come a dire che “tutto” il lavoro che fanno oggi le donne (e il loro modo di interpretarlo, di piegarlo e contrattarlo negli orari e nei modi) è la strada per ridare un senso al lavoro di tutti e di tutte e soprattutto una critica forte agli indirizzi dello sviluppo e al mercato come finora li abbiamo conosciuti.

Chiara Bisconti, responsabile risorse umane Sanpellegrino
Ho letto con grandissima commozione la parte “Doppio sì” del manifesto. È bellissima.
In generale mi piace molto la vostra idea, è attuale e necessaria in questo momento.
In più mi piace molto lo stile anticonformista e femminile che usate (mi piacciono queste parole in libertà e l’idea che ci sia più intuito che razionalità nel presentarlo).
Insomma, bel lavoro, state facendo quello che è necessario, nel momento giusto e con il modo giusto.

Loretta Borrelli, movimento studenti dell’Onda
Ho letto il Sottosopra e lo trovo molto interessante, soprattutto per quello che riguarda l’analisi del lavoro gratuito e la possibilità di un’organizzazione diversa del lavoro. Io purtroppo però non ho una famiglia e non sono caricata da alcun lavoro di cura, per questo alcune sfumature forse mi sfuggono. Non so se nel mio futuro sarà prevista questa opzione perché, come dite anche voi, siamo diventati soggetti abbastanza liberi da escludere dal campo delle possibilità la maternità o la famiglia, facendo riferimento a una costellazione di altre relazioni, ma mai dire mai. Tuttavia nel mio lavoro trovo che sia centrale l’analisi del lavoro prestato gratuitamente. Mi occupo di applicazioni internet e analizzo spesso quelli che vengono chiamati social network. Si tratta di interi
sistemi basati sullo sfruttamento delle proprie vite narrate a titolo gratuito e assolutamente volontario dagli utenti. Sono strutture che producono davvero tanta ricchezza, e che trovano il loro punto di forza proprio nel processo di automazione e astrazione delle relazioni umane: questo naturalmente non ha un effetto positivo sulle relazioni fisiche. Penso però che un processo di trasformazione dei rapporti che non faccia esclusivamente riferimento al lavoro salariato possa essere una chiave interessante per l’analisi di una economia che sta prendendo sempre più piede.

Susanna Camusso, segretaria confederale CGIL
Ho letto con molto piacere Sottosopra-Immagina che il lavoro, perché da tempo sentivo il “bisogno” che illavoro diventasse tema della riflessione delle donne. Penso, infatti, anche a costo di essere eretica, che il femminismo si sia fermato alla soglia del lavoro; sento la mancanza di un pensiero collettivo sul lavoro, che lo affronti non solo come necessità, come salario aggiuntivo in “famiglia”, ma lo legga anche come desiderio, progetto, realizzazione, scelta, libertà. Come sempre, il pensiero in verità c’è, attraverso molte riflessioni, nel vostro lavoro lo si ordina e propone: non ho condiviso tutto, molto va pensato e non solo letto in acrobazie di tempo; vi invio qualche prima riflessione,
intravedendo non un pensiero che si conclude, ma una ricerca che si apre.
L’organizzazione del lavoro, anche quella meglio contrattata e condivisa, è a misura di uomo. L’organizzazione del lavoro è assunta, spesso/sempre, come appiattita, vincolata, determinata dalla tecnica e dagli obiettivi, ed in ragione di quella organizzazione si determina l’orario, la professionalità, l’interazione e nella oggettivazione asettica non si considerano le relazioni, né quelle fra, né quelle con, non l’interno, non l’esterno.
Eppure, anche quando molte lavoratrici si descrivevano come lavoratrici per necessità, anche allora nel loro lavoro c’era la relazione. La qualità delle relazioni era di per sé tratto distintivo del loro lavoro, ignorato nelle valutazioni, nei manuali, nei riconoscimenti.
Un modo diverso di stare nel lavoro, anche una lettura del luogo di lavoro, come un fuori, un posto dove cambiava il rapporto tra i tanti lavori e quello retribuito, nello stesso tempo una ricerca di come tradurre quello che abbiamo titolato in tanti modi ma continua a racchiudersi nel concetto di discriminazione. Discriminazione che ha tanti volti, tante pratiche ed una ragione di fondo, la contesa del campo maschile, dello spazio, del potere che dal lavoro (e dalla sua gerarchia) deriva. La parità è parsa per lungo tempo la risposta, la strada per superare la discriminazione. Aveva tra gli altri il limite di assumere quell’organizzazione come unico modello a cui pretendere di appartenere, omologando i
comportamenti, ed un secondo straordinario limite: accettare di essere categoria che doveva conquistare la condizione di soggetto, un essere “fragile” da proteggere per diventare forte. Se la guardiamo oggi, parità sempre più spesso dice di una sommatoria di diversità, sommatoria di esclusi o di potenziali esclusi dal modello maschile, ma anche di uomo bianco ed eterosessuale, magari di mezz’età. Parità, pari o meno, ha segnato un periodo, ma oggi offre prevalentemente la conservazione di un modello, e non ha ridotto la discriminazione: ha cambiato forme, pratiche, ma resta profonda.
La discriminazione si concentra in gran parte sulla maternità, ma non solo, tutto ciò che parla di libertà si scontra con la discriminazione, con la negazione.
Un misto di forme di difesa (del territorio), di paura dell’ignoto.
Non si cambia solo a partire da noi, dalla differenza, si cambia con, è uno dei fili di Sottosopra.
Penso che la discriminazione, quella che reputo più forte, tagliente, la maternità, si cambia solo superando l’idea di qualche permesso per conciliare; ovvero se la condivisione da privata, irrompe sulla scena pubblica, se costringe a non essere più il “costo del lavoro” di un genere ma un costo collettivo.

Tradotto: con la “paternità obbligatoria”, per togliere l’alibi del chi guadagna di più, per smitizzare l’assenza di un periodo come ragione del cambio di prospettiva di qualificazione, o di carriera. Il cambiamento qualche volta va forzato, perché non deve apparire un ignoto da allontanare, ma quotidianità. Maternità – che non è ovviamente solo il periodo di congedo, non lo è nel nostro vissuto, lo è molto nelle logiche
aziendali – la maternità, dicevo, propone molti altri passaggi di lettura e rilettura del rapporto con il lavoro, della qualità e tenuta delle relazioni, anche la modifica delle aspettative che trovano equilibri diversi.
Non per tutte è uguale, ma non per tutte il tema ruota intorno alla scelta di maternità.
Molte volte mi sono interrogata su quale era l’elemento trasversale, il filo da tirare per parlare e valorizzare il lavoro retribuito delle donne, per intervenire sulle discriminazioni di qualità del lavoro, di riconoscimento professionale, di carriera.
Molte volte mi sono interrogata perché le donne, e in particolare le donne giovani, parlano di merito, lo rivendicano come criterio senza quel disvalore al termine che ha caratterizzato la cultura politica della mia generazione e senza cogliere le modalità con cui il merito è letto nelle aziende e nella cultura organizzativa dominante.
La mia riflessione ruota intorno al termine “tempo”. Perché tempo è quello dell’ingresso, della maternità, dello studio, dei tanti tempi che ognuna può immaginare per la propria vita, ma tempo è anche il tiranno quotidiano, acrobate del tempo è certamente formula immediatamente comprensibile per tutte. Tempo chiama orario come grande crinale del vincolo o della libertà. Orario in tutte le sue forme. Tempo, però, è anche un metro di misura nel conformismo delle decisioni sulle carriere, misura del merito, misura della tua appartenenza al club dei decisori, dei fidelizzati. Tempo è misura dell’esclusività dei tuoi interessi, tempo è dedizione, fedeltà, finanche asservimento. Se distribuisci il tempo tra tante attività, lavori, scelte, se la quantità di tempo non è l’unica misura delle tue
relazioni, il tuo “merito” sarà meno merito, una pizza con il caporeparto può essere più “utile” di una corsaall’asilo, o di una buona lettura.
Ma il tempo è il grande assillo di un lavoro che attraverso i sistemi di comunicazione può invaderti in ogni momento, la scansione delle giornate, i ritmi dello scorrere delle ore sono ignorati da un cellulare, un computer, un palmare.
Quale libertà, quale non discriminazione se non si ripropone il “governo” del tempo come punto di partenza?
Questa domanda si ricollega alle ragioni della crisi, all’inseguimento della ricchezza per pochi, al consumo come unico scopo, alla riduzione del reddito del lavoro. Fermare la corsa al consumo del mondo, è il tratto delle donne, anche da questa angolatura il “tempo” può essere il filo da prendere.

Pat Carra, fumettista