a cura di Tiziana Morganti
pubblicato il 16 gennaio 2014
La regista tedesca, premiata con il Leone d’oro nel 1981 per Gli anni di piombo, torna in Italia, suo paese d’adozione, per presentare l’ultimo lavoro in cui umanità e intelligenza si fondono con la volontà di raccontare la personalità stimolante di una donna dedita al pensiero.
“Non ho dubbi sul fatto che l’esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del “carattere nazionale”, per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future.” In questo modo l’intellettuale ebrea-tedesca Hannah Arendt nel 1963 chiudeva una intervista con Samule Graffon sulle molte polemiche sollevate dalle teorie rivoluzionarie espresse ne La banalità del male. Il suo scritto, frutto degli interrogatori ascoltati durante il processo al nazista Adolf Eichmann, portò alla considerazione che il male possa non essere radicale e che, proprio a causa dell’assenza di memoria e radici, persone altrimenti banali riescano trasformarsi in artefici di distruzione di massa. Un pensiero, questo, che sconvolse l’allora comunità ebraica fortemente ripiegata su sé stessa nel tentativo di guarire le proprie ferite, ma che ha consegnato al processo filosofico e storico un personaggio dalla mente straordinariamente acuta. Dunque, non stupisce che questa donna in perenne lotta con qualsiasi definizione statica abbia attratto l’attenzione di una regista come Margarethe von Trotta ispirando il suo ultimo lavoro intitolato proprio Hannah Arendt.
Margarethe e Hannah
Presentato in esclusiva al Bari International Film Festival e portato in sala dopo molte difficoltà da Ripley’s Film il 27 e 28 gennaio in occasione della Giornata della Memoria, questo film s’inserisce perfettamente nel percorso artistico della Von Trotta, spesso concentrato sul coraggio della femminilità a confronto con gli eventi tragici della Storia, e offre la possibilità di andare oltre le immagini dell’orrore parlando di rielaborazione e futuro. “Quando ho iniziato a studiare la personalità complessa di Hannah, non avevo idea di quale periodo della sua intensa vita avrei scelto di raccontare – dichiara la regista durante la conferenza stampa – La fuga dalla Germania nazista nel ’33, gli anni trascorsi in Francia fino all’invasione tedesca e la scelta di rifugiarsi in America senza sapere una sola parola d’inglese sono eventi che raccontano molto di una donna libera e sicura delle proprie decisioni, ma nulla come la formulazione de La banalità del male dimostra l’autonomia mentale di un pensatore slegato da qualsiasi appartenenza etnica e fedele solo al pensiero indipendente.”
L’ira della comunità ebraica
Dopo aver assistito al processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme come inviata del New Yorker, la Arendt prende coscienza di due elementi fondamentali, ossia che il male non è necessariamente frutto di una intelligenza perversa e che essere delle vittime non pone in una posizione di “privilegio” intoccabile, almeno dal punto di vista intellettuale.. ” Quando entrò nell’aula del tribunale a Gerusalemme – continua la von Trotta – si rese conto della natura praticamente nulla di uno dei più feroci nazisti. La mediocrità mentale e culturale di Eichmann, infatti, non coincideva in nessun modo con la malvagità delle sue azioni e, partendo proprio da questo punto fondamentale, costruì la teoria della banalità accolta erroneamente dagli intellettuali dell’epoca come revisionista degli orrori nazisti. Inoltre accese i riflettori sulla comunità ebraica attribuendo ad alcuni capi una sorta di cooperazione con le SS. Probabilmente molto venne fatto in buona fede sperando di salvare più persone possibili, altri invece agirono per interesse personale. Sta di fatto che, in questo modo, la Arendt pose l’accento sulla debolezza della natura umana e sul fatto che l’essere ebreo non rappresentasse necessariamente una garanzia di merito”.
Attraverso la donna nasce la filosofa
Però, nonostante i molti detrattori e la violenza con cui si sono scagliati contro di lei, le teorie della Arendt hanno il vantaggio di portare splendidamente i loro anni tanto da rendere incredibilmente attuale un film capace di raccontarla sotto molti punti di vista grazie all’interpretazione di Barbara Sukowa, allo stesso tempo forte e ironica. In questo modo Margarethe Von Trotta, affidandosi a una interprete con cui ha condiviso molta strada artistica, riesce a dipingere un ritratto completo in cui la donna e l’intellettuale diventano i due volti di una stessa realtà umana. ” Ho voluto costruire un dialogo continuo tra la vita privata e il lavoro. Solo attraverso questo percorso in parallelo ho potuto dare voce a Hanna e alla Arendt allo stesso modo. Per questo motivo ho inserito momenti di intimità, anche controversa, con il marito Heinrich Blucher, mentre la figura discussa di Martin Heidegger parla soprattutto della sua formazione come pensatrice. Nonostante la consapevolezza che puntare l’attenzione sulla loro relazione sentimentale avrebbe facilitato il percorso produttivo del film, ho deciso di considerare Heidegger soprattutto nella sua funzione di mentore e compagno di riflessioni capace di cadere nella trappola del nazismo e di deluderla profondamente. In questo modo ho messo l’accento su un confronto tra i due, ossia sull’uomo con capacità di pensiero ma che si lascia sedurre dall’ideologia e su di una pensatrice pura come lei incapace di riconoscere appartenenze. Perché, alla fine di tutto, è il pensiero che ci protegge di fronte alle catastrofi.”
Successi inaspettati e vecchie polemiche
A questo punto, dopo cinquant’anni dalla discussa pubblicazione de La banalità del male, come è stato accolto il film? E, soprattutto, le opinioni della Arendt suscitano ancora scandalo e indignazione? “In Germania e negli Stati Uniti il film è stato un successo – conclude soddisfatta la regista – Certo, non parliamo delle cifre raggiunte dai film hollywoodiani visto che la gente non corre in massa a vedere la storia di una filosofa ebrea, ma c’è stato grande interesse. Questo è stato l’atteggiamento del pubblico, mentre gli accademici hanno sollevato ancora vecchie polemiche. In Germania, a esempio, alcuni storici mi hanno rimproverato per non aver inserito nel film delle documentazioni successive riguardo alle attività naziste. Ma io volevo offrire un suo ritratto e per farlo dovevo necessariamente camminare con lei seguendo il suo pensiero del momento senza dimostrare di saperne di più. Lo stesso è successo in Francia e in America, anche se vengo continuamente invitata a parlare di lei in molte università. Del tutto diversa la reazione di Israele che ha contribuito anche alla co-produzione del film con la Film Commission di Gerusalemme. Dopo essere stato interdetto per molti decenni, La banalità del male è uscito in Israele solo nel 2002, ormai senza provocare nessuno scandalo.”
Hildegard secondo Von Trotta: una femminista del Medioevo
a cura di Roberto Castrogiovanni pubblicato il 21 ottobre 2009
La regista tedesca rivela ai giornalisti tutta la sua passione per il personaggio di Hildegard von Bingen, rivoluzionaria figura religiosa al centro del film “Vision”.
Nonostante sia vissuta nel XII secolo, Hildegard von Bingen è un personaggio che mantiene forti legami con la società di oggi: religiosa benedettina, scienziata e letterata, la sua esistenza è stata segnata da visioni mistiche rivelatrici. Ma soprattutto, è stata una delle donne più influenti della sua epoca, tanto da intrattenere rapporti con i grandi potenti del periodo, tra cui il Papa e l’imperatore Federico Barbarossa. Proprio questo aspetto – che ne fa un vero e proprio simbolo d’emancipazione – non poteva che affascinare una regista da sempre sensibile alle questioni femministe come Margarethe Von Trotta, che in Vision ne fa un ritratto appassionato. Durante un incontro con la stampa, la regista tedesca approfondisce alcuni aspetti della figura di Hildegard e rivela i motivi che la hanno spinta a dedicarle un film.
Pur essendo una donna del Medioevo, Hildegard von Bingen è un personaggio che ha ancora molto da dire oggi. Cosa l’affascina di questa figura così particolare, decisamente rivoluzionaria per l’epoca?
Margarethe Von Trotta: Non penso che si sarebbe mai definita una rivoluzionaria. La sua vita è stata segnata dal fatto di essere vittima di visioni sin dall’età di tre anni. Da come questo fenomeno viene descritto nelle sue lettere, è come se di colpo perdesse conoscenza per entrare in un altro mondo. Il neurologo americano Oliver Sacks, nella sua celebre opera “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” dedica un intero capitolo al suo caso, spiegando le visioni come l’effetto di una malattia neurologica, connessa anche ad attacchi di emicrania. Probabilmente, essendo una donna medioevale, Hildegard attingeva all’iconografia biblica e religiosa per dar vita alle sue visioni. Ma era anche una grande scrittrice, una donna dotata di enorme talento creativo.
Com’è nato in lei l’interesse di ritrarre questo personaggio, apparentemente così distante dalla nostra cultura?
Margarethe Von Trotta: Avevo già maturato l’idea nei primi anni Ottanta, perché le femministe del tempo, alla ricerca di modelli di riferimento tra le donne del passato, nutrivano un grande interesse per questa insolita figura. Avevo anche già scritto la prima sequenza del film, ambientata alla fine dell’anno mille, ma poi ho abbandonato il progetto perché troppo costoso. L’idea, però, è sempre rimasta dentro di me, e alla fine è sbocciata, proprio come l’amore nei riguardi di una persona che rivedi dopo tanto tempo.
In un’epoca in cui le donne erano completamente estromesse dal potere politico, Hildegard von Bingen è riuscita ad avere i contatti con i più grandi potenti della Terra, eppure in un dialogo con Federico Barbarossa si definisce una donna “debole”.
Margarethe Von Trotta: Penso che fosse un’abile diplomatica. Durante la sua vita ebbe rapporti con gli uomini più influenti dell’epoca, come Federico Barbarossa, il Papa e Bernardo di Chiaravalle, che in quel periodo era una personalità persino più rilevante del Papa. Ma per farlo dovette essere sempre molto modesta, accostarsi a questi uomini con umiltà. In quel momento storico per una donna era necessario dapprima doversi sottomettere per poter poi riuscire a conquistarsi uno spazio di autonomia e di potere.
Per quale motivo nel film non sono mai mostrate le visioni di Hildegard?
Margarethe Von Trotta: Ho pensato più volte di mettere in scena il contenuto della visioni ma, essendo talmente radicate nell’immaginario medioevale, è estremamente difficile adattarle al linguaggio di oggi. Esistono vari dipinti realizzati all’epoca in cui Hildegard von Bingen scrisse l’opera, ma penso che riproporre quelle stesse immagini non avrebbe avuto senso. Avevo paura di scadere nel kitsch realizzando sequenze con effetti speciali come nei moderni film commerciali. Avrei avuto bisogno di un grande artista visuale per un’impresa talmente difficile, e a un certo punto si è offerto anche il marito di Barbara Sukowa, che è dotato di grande talento. Ma alla fine ho preferito affidarmi esclusivamente ai dialoghi per descrivere le visioni, tranne che per la prima, che rappresenta per Hildegard un’iniziazione alla vita mistica.
In Germania e nei paesi d’area anglosassone il film è stato criticato per aver descritto la vita di Hildegard von Bingen in una chiave eccessivamente pop, strizzando l’occhio anche allo sciamanesimo e alla riscoperta della medicina tradizionale.
Margarethe Von Trotta: Quando si realizza un film su un personaggio del passato il regista lo filtra necessariamente attraverso la cultura e la società di oggi. Ho cercato di individuare quali potessero essere gli aspetti più attuali della figura di Hildegard. Tra questi senza dubbio il suo interesse per la medicina alternativa e la necessità di entrare in armonia con le forze della natura. A Federico Barbarossa suggerisce di non farsi prendere dall’avidità e dall’ingordigia del potere: un messaggio che credo sia oggi più che mai attuale.
Ho particolarmente apprezzato le figure secondarie del film: Jutta, la fedele compagna in convento di Hildegard, e la sua discepola Richardis. Si tratta di personaggi realmente esistiti?
Margarethe Von Trotta: Ho un’amica medievalista che ha studiato approfonditamente la vita di Hildegard von Bingen. Secondo lei c’era un’altra bambina, col nome di Jutta, assieme alla quale Hildegard ha seguito il noviziato. Invece Richardis è sicuramente esistita, dal momento che vi sono numerosi carteggi epistolari che documentano il rapporto fortissimo instauratosi tra le due donne, fin quasi a portare Hildegard alla follia.
Come considera il tipo di relazione tra Hildegard e Richardis? Si cela anche un lato morboso dietro questo legame?
Margarethe Von Trotta: No, non credo che questa relazione abbia alcun retroscena morboso. Penso che si tratti di un legame molto più forte, dal momento che Hildegard in una sua lettera scrive a proposito di Richardis: “Io sono sua madre, ma anche sua figlia“. Penso che il suo affetto sia il surrogato di un desiderio di maternità. Ho cercato in tutti i modi di evitare di scadere nel melodramma e nella storia sentimentale dai sottotesti omoerotici, anche se probabilmente sarebbe stata una soluzione più commerciale.
Vision ha già un distributore italiano?
Margarethe Von Trotta: Per il momento no, è la prima volta che il film viene mostrato in Italia.
Ci può anticipare qualcosa del nuovo progetto voluto da Claudia Mori, che la coinvolgerà assieme ad altri registi per realizzare una serie di film contro la violenza sulle donne?
Margarethe Von Trotta: Si tratta di una serie di sei film – due affidati a Liliana Cavani, due a Marco Pontecorvo, e due a me – incentrati sugli abusi nei confronti delle donne. Io mi occuperò in particolare della violenza psicologica, che ritengo più subdola e sottile di quella fisica.
(movieplayer.it – 16 gennaio 2014)