9 Aprile 2024
RivistaStudio

Lavoratrici di tutto il mondo, ri-unitevi

di Davide Coppo


Nessun fenomeno sociale, negli ultimi anni, mi sta affascinando tanto quanto il mutamento del lavoro. Guardo con entusiasmo e speranza agli esperimenti di settimane lavorative di quattro giorni, osservo turbato le statistiche che hanno fatto poi parlare di “great resignation”, grandi dimissioni, e mi chiedo a cosa porteranno. Mi interesso a quell’altro fenomeno molto chiacchierato di questi anni, il “quiet quitting” [mantenere il proprio posto di lavoro facendo il minimo indispensabile e senza impegnarsi per avanzare], e per la prima volta nella mia vita sono riuscito a sperimentare qualcosa di simile a un’organizzazione, raccogliendo le opinioni e i desideri di molti colleghi e colleghe su come creare, al termine dell’emergenza sanitaria, un giusto bilanciamento del lavoro tra la casa e l’ufficio. Mentre mi adoperavo in quest’ultimo sforzo così nuovo mi accorgevo che tutti i fenomeni a cui guardavo con curiosità avevano una caratteristica comune: riguardavano la sfera dell’individuo, e mai quella del collettivo.

Negli anni in cui “attivismo” è diventata una parola per definire, nove volte su dieci, dei cialtroni che parlano di banalità arrabbiate davanti a un ringlight su Instagram, è appena uscito un libro che intende ribaltare la prospettiva, rimettere la parola in buona luce, e tornare a parlare di dimensione collettiva quando si parla di lavoro, senza self-help e altri automiglioramenti. Si chiama Lo statuto delle lavoratrici (Bompiani, 2024) e l’ha scritto Irene Soave, scrittrice e giornalista per il Corriere della Sera. Contiene uno spettro veramente ampio di argomenti trattati: vigilanza, felicità, Sud e Nord, salute mentale e fisica, discriminazioni, ascensore sociale, gravidanze. Sarebbe stupido pretendere di farne un riassunto esaustivo in un articolo, e quindi posso dire che quello che unisce meglio tutti i capitoli è, nelle intenzioni della scrittrice o nei miei occhi, la necessità di ritrovare uno spirito di comunità e organizzazione tra lavoratori – o lavoratrici. La mancanza di questo senso di collettività, mi sembra, sta in tutte queste reazioni disordinate all’infelicità lavorativa che abbiamo scoperto durante il Covid, e che ha dato origine ai fenomeni di cui sopra.

Se il problema del lavoro è collettivo, dice Soave, la risposta non può essere individuale. Un esempio recente: la nascita del MeToo è una delle poche e rare risposte collettive a un problema (anche) lavorativo che abbiamo visto negli ultimi anni. Ha coinvolto centinaia di migliaia di donne in tutto il mondo, ha spaventato chi deteneva e detiene il potere, ha anche dato il panico a centinaia di migliaia di uomini terrorizzati di perdere un privilegio che hanno sempre ritenuto diritto naturale. Soave traccia un filo rosso tra quell’hashtag e il Rapporto Hite, un celebre – appunto – rapporto sulla sessualità femminile pubblicato nel 1976. Era basato su oltre tremila interviste a donne americane, e ne veniva fuori, in breve, che il piacere sessuale non era una cosa che molte donne provavano, e che la figura dell’uomo non era una conditio sine qua non per il raggiungimento dell’orgasmo. Anzi. «Il Rapporto Hite (…) ai lettori maschi diceva: state sbagliando tutto. Alle lettrici diceva una cosa più potente ancora: no, non succede solo a te». Sentirsi comunità. Il 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano scrive su Twitter: «Se sei stata molestata o aggredita sessualmente scrivi “me too” nelle risposte a questo tweet». Nelle prime dodici ore arrivano più di cinquecentomila risposte.

Un momento: ma questo è un libro che parla solo di lavoratrici, quindi? No: con una mossa audace, Soave usa un “femminile sovraesteso”. È quello che da sempre, in molte lingue, si fa con il maschile. Quello per cui scriviamo cose che si chiamano “Statuto dei lavoratori”, per esempio, per intendere tutti gli spettri di genere, o ancora diciamo “i cittadini”, “i consumatori”, “i clienti”, e così via. Risolvendo i problemi che escludono le lavoratrici, si legge, starebbero meglio tutti i lavoratori. Il maschile di solito si sovraestende per abitudine e pigrizia, per poca cura del femminile. Il femminile di Soave si estende per solidarietà e protezione: è una mantella per ripararsi tutti – e tutte – insieme dalla pioggia. E la pioggia sono le sofferenze di noi, lavoratori e lavoratrici in diversi modi insoddisfatti e infelici, aspiranti quiet quitter.

C’è un bel fraintendimento, nel significato profondo di quiet quitting. Che significa? È stato tradotto come “dimissioni silenziose”, una grande presa di consapevolezza – finalmente! leggevamo sui soliti New Yorker e New York Times e Guardian e così via – del fatto che così non va bene. Eppure non vuol dire lasciarlo per davvero, questo lavoro, pur se in silenzio e di nascosto. «No», scrive Soave, «significa che fai solo quello che il tuo contratto ti dice di fare, per le ore in cui devi farlo. Non fai straordinari, non prendi progetti né responsabilità che escano dal tuo orario, non esegui mansioni che non siano indicate sul tuo contratto. Rivoluzionario, no? Be’, no. Intanto fare quello per cui sei pagato e negli orari pattuiti non significa “non lavorare” o “quasi licenziarsi”. Anche farlo malvolentieri significa lo stesso lavorare».

Si è visto che al quiet quitting le aziende rispondono spesso con un “quiet firing”: impedendo alla lavoratrice (sovraestendo pure io) di avanzare, riducendole i compensi o i bonus, rendendole la vita più complicata. Quindi, molte quiet quitter hanno rinunciato, e sono tornare a lavorare come prima, più di prima. Questo succede perché il quiet quitting è un atto solitario, e privo di protezione. «Come tale», scrive ancora Irene Soave, «i suoi ritorni ma anche i suoi costi si scaricano tutti e solo su chi lo mette in pratica. Se a farlo fossero tanti si chiamerebbe, in italiano, stato di agitazione, o sciopero bianco».

La colpa di questa infelicità è talvolta di quelli che il filosofo David Graeber chiamava bullshit jobs. Chi lavora in campo creativo li conosce bene: Graeber parla addirittura di «violenza spirituale» per questi compiti senza regione, che generano un tipo di insoddisfazione e alienazione più profonda perché privi di una apparente logica. Così alienati, appunto, che non riusciamo a immaginare come uscirne. Ancora Soave: «Il nostro quiet quitting non è collettivo, e più che rivendicare è un ritirarsi, se per rivendicazione e collettività non intendiamo la condivisione di stories Instagram con lo slogan I don’t dream of labor […]. E a scioperare da soli, comunque, come si fa?».

C’è molta rassegnazione e nostalgia, e poca rabbia e concretezza, nel modo in cui ci rapportiamo al lavoro. Piagnucoliamo, e pensiamo commossi a quando credevamo di poter guadagnare i soldi dei nostri genitori. O ci commuoviamo ancora di più se ci ricordiamo della fine che hanno fatto i sogni di madri che immaginavano per le figlie una parità ormai prossima, un’indipendenza totale, e invece. Un mio amico dice sempre che il lavoro è normale che faccia schifo, altrimenti non ci pagherebbero per farlo. Soave la mette giù un po’ più epica, e ricorda che è dalla Genesi 3:19 che il lavoro è assegnato all’uomo come punizione divina. Ma se fa così schifo, che dobbiamo fare? Organizzarci un po’ di più, dice in fondo Lo statuto delle lavoratrici. E questa organizzazione passa in primo luogo dal conoscere un po’ meglio i propri diritti, doveri e confini.

C’è poi da dire che questo saggio ha la forza narrativa che libri simili di solito non hanno: è arricchito da una scrittura vivace e brillante, e costellato di storie di amiche ed esempi e pioniere, lavoratrici fortunate e sfortunate e altri casi di donne che lottano e spesso perdono e talvolta vincono, che mi sembra si potrebbero pure leggere come modelli di storie per “bambine ribelli” più ispirazionali e reali di una Chiara Ferragni o una Margaret Thatcher.

Questo Statuto è soprattutto un libro intelligente, quasi rivoluzionario: mi ha ricordato che si possono dire cose radicali senza gridare su Instagram, e che si può farlo con competenza e preparazione. C’è in fondo la storia di un dissidente bielorusso che dice una frase che diventa la scintilla da cui parte tutta questa operazione. Lui dice: «Se non puoi parlare al mondo, parla al Paese. Se non puoi parlare al Paese, parla alla città. Se non ti lasciano, ai quartieri. Se non ti sentono, ai vicini. Se i vicini sono delatori, tieni un diario, e un giorno a cambiare le cose sarà proprio quel diario. Se non cambia niente, scrivilo lo stesso». Soave l’ha scritto. Io penso sia un’ottima idea consigliarlo e regalarlo.


(RivistaStudio, 9 aprile 2024)

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