25 Marzo 2023
Alias - Il manifesto

«Le Lazzarelle» e la ricetta di Ciccirinella

di Vincenzo Mattei


Natascia pesa diligentemente i chicchi di caffè verde nei secchi di plastica alimentari, con il misurino definisce il grammo, la tostatrice è già accesa da un’ora per ottenere il risultato migliore. Versa tutto con cura dentro gli ingranaggi che daranno l’aroma inconfondibile al caffè. Sebbene la macchina sia completamente automatizzata e scandisca tutto al secondo, di tanto in tanto Natascia segue il progredire della tostatura attraverso un piccolo oblò di vetro dal quale si vedono i chicchi cambiare colore e assumere il tipico marrone scuro della bevanda nazionale.

Natascia è di Ponticelli, ha quarantaquattro anni, non aveva mai fatto questo lavoro, per vent’anni ha spacciato cocaina e droghe minori sul territorio napoletano. Sono otto anni che è reclusa nel carcere femminile di Pozzuoli. Il tempo passa, l’aroma del caffè tostato si diffonde nell’ambiente, intanto prepara i contenitori per raccogliere i chicchi tostati e i silos dove verranno stipati.

«La maggior parte delle carcerate di Pozzuoli viene quasi tutta dalla periferia, ma se sono di Ponticelli (un rione di Napoli), dicono “Andiamo a Napoli”, la stessa cosa se vengono da Scampia. Molte che vivono nel quartiere Sanità, qui vicino, non hanno mai attraversato la strada, non sono mai state a piazza Dante che è qua dietro. Così ti accorgi che non escono dai propri quartieri, sembra impossibile ma è la realtà. Vivi là per tutta la tua vita senza mai uscire come se fosse un piccolo villaggio, con le sue regole, le sue leggi e il destino che ti riserva. In molte pensano nel proprio immaginario che l’attività criminale sia l’unica cosa che si può fare, che non c’è alternativa!», afferma Imma Carpiello che ha fondato la cooperativa delle Lazzarelle nel 2010 con lo scopo di cercare il recupero delle detenute attraverso il lavoro.

Quale mezzo migliore se non il caffè? «Lo abbiamo scelto perché è un prodotto tradizionale, a cui ci si affeziona, è tipico napoletano, ed è un prodotto che dà identità», afferma Paola Pizzo, socia delle Lazzarelle dal 2016. La Cooperativa ha adibito a torrefazione un’ala all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli di comune accordo con le autorità costituite e di cui Paola è responsabile. «È un’impresa tutta al femminile in un settore tipicamente maschile. Abbiamo immaginato qualcosa che fosse realmente qualificante per le donne che lavorano con noi, per andare incontro a un bisogno, non solo di un reddito, ma soprattutto qualcosa che desse delle vere skill e competenze da spendere eventualmente una volta finita la pena», continua Paola.

«Noi diamo uno stipendio normale alle carcerate, con tanto di contributi, questo permette di non pesare sull’economia familiare. Ci sono delle spese, come gli assorbenti e altre necessità, che sono a carico dei loro parenti. Così facendo s’innesca un meccanismo inverso in cui sono le detenute stesse ad aiutare la propria famiglia che spesso versa in condizioni indigenti. Inoltre hanno la possibilità di pagare il debito che hanno con lo stato, sì, perché stare in prigione è come pagare un canone che poi risulta un debito da pagare in piccole rate una volta uscite di galera. Invece le nostre Lazzarelle riescono a mettersi qualcosa da parte, non molto, qualche migliaio di euro, ma comunque una somma discreta per chi deve reinserirsi nella società. Può essere investita nell’affitto di un appartamento e provare a iniziare in maniera indipendente un lavoro invece di ritornare a casa da un marito-padrone dal quale si dipende economicamente», precisa Imma.

Le Lazzarelle sono una piccola realtà e non possono di certo competere con la produzione industriale ma hanno una discreta distribuzione del proprio caffè a livello nazionale. «Abbiamo fatto tanto in questi dodici anni, con le fiere ci siamo fatti conoscere, anche a Napoli eravamo ignorate prima di aprire il bistrot qui alla Galleria Principe Umberto perché ovviamente, stando chiuse in carcere non era facile accorgersi di noi. Facemmo una fiera a Milano e fortunatamente siamo esplosi in Lombardia e in tutto il nord Italia, poi abbiamo i GAS [gruppi di acquisto solidale, Ndr], che per noi sono molto importanti», afferma Imma.

Dal 2020 le Lazzarelle hanno aperto il loro bistrot a pochi passi dal Mann [Museo Archeologico Nazionale Napoli, Ndr], in pieno centro storico, Imma ne descrive l’idea: «Quando abbiamo proposto il progetto ce lo eravamo immaginate già con un punto esterno come sua normale evoluzione, per proseguire il lavoro che facevamo dentro avevamo bisogno di un punto fuori. È stata una coincidenza fortuita trovare questo posto perché ci permette di non essere un progetto periferico e di portare le detenute al centro della città in un posto unico come la Galleria Principe. Circa sei anni fa il Comune di Napoli fece un bando per affidare questi locali e presentammo un progetto, lo vincemmo e avviammo i lavori di ristrutturazione per i quali abbiamo acceso parzialmente un mutuo usufruendo anche dei finanziamenti di due fondazioni. Stare qui e essere all’interno della rete del Mann e avere quindi come interlocutore il museo archeologico, il suo direttore Giulierini che viene a prendere il caffè dove ci sono le detenute, è diventato un processo osmotico».

«Lavorare con le Lazzarelle mi ha aiutato tantissimo perché ero una persona molto depressa, tendevo sempre a stare a letto con psicofarmaci, invece stando qua mi sento di nuovo viva. Grazie a Paola e ai ragazzi del servizio civile e alla mia amica Nunzia ora sto molto meglio, davvero un grandissimo cambiamento, anche perché con le altre persone ero chiusa, adesso no», Natascia lavora alla torrefazione dal 1° febbraio del 2022, riesce a mandare ai suoi due figli ventenni circa 300 euro al mese, un piccolo contributo in una realtà non sempre facile nelle periferie delle grandi città. «I miei familiari mi hanno visto cambiata, mi hanno detto che sono la Natascia di una volta, proprio perché ero caduta in una brutta depressione per i troppi anni di carcere».

Infatti il carcere, visto come sola detenzione, diventa un mezzo punitivo che spesso porta le detenute, una volta terminata la pena, a ritornare sugli stessi passi, a meno che non si agisca sia all’interno della struttura detentiva sia nel territorio. «Le mura chiuse possono portare all’annullamento della persona. Sono originaria di Aversa, ho vissuto in una città in cui il manicomio giudiziario e quello civile erano limitrofi, si passava sotto quelle mura senza rendersi conto di quello che c’era all’interno. E si continua ancora a fare così, quando si cammina a Poggioreale, non ci si pone il problema di chi è all’interno, per questo faccio gli incontri nelle scuole, gli studenti pensano che dentro le prigioni ci siano tutti Totò Riina e invece la maggior parte è la povera gente. Poi insisto sulla stessa cosa da anni: ci vogliono politiche di welfare differenti per evitare la dispersione scolastica, perché molte delle donne che noi incrociamo hanno la quinta elementare e molte intorno ai quarant’anni sono già nonne. Quindi significa che ti trovi di fronte a dei meccanismi che si rigenerano. Se non si vanno a intaccare queste problematiche, se non se ne parla, non se ne uscirà mai», conclude Imma.

Uno dei problemi del Meridione è appunto la mancanza di servizi che possano evitare l’abbandono scolastico, ma non solo. Nel Sud, molto di più che in altre zone d’Italia, le donne sono relegate a un ruolo prettamente domestico, quando diventano madri il loro percorso è scritto, devono rimanere a casa e accudire i figli. In Campania sono poche le scuole pubbliche che hanno la possibilità di tenere i bambini a tempo pieno, il che impedisce alle madri di trovare un lavoro anche part-time che possa renderle indipendenti. «Spesso il marito o il figlio maschio costituiscono l’unica fonte di sostentamento della coppia/famiglia perché le detenute non hanno mai lavorato. Quando i mariti, compagni o figli vengono arrestati, l’unico modo per portare avanti la famiglia è prendere il loro posto. Lo fanno perché hanno bisogno di soldi e non hanno altra opportunità lavorativa», descrive le dinamiche Imma.

«Avevo il marito ergastolano con due figli da mantenere e mandare a scuola, un appartamento, l’avvocato… sono tante le spese, poi quando non c’è il marito che fai? Non c’era alternativa, almeno per me». Natascia ripercorre la sua vita, e continua: «Chiaramente non si può avere una prospettiva per sapere già quello che si farà una volta fuori dal carcere, perché sarà molto difficile prima recuperare la propria libertà, nel senso che esco dopo tanti anni, me metto paura pure de pija’ o purman (il bus). Prima devo riacquistare fiducia in me stessa stando fuori, non commettere più errori, lo devo fare per i miei figli che non devono assolutamente fare la nostra vita! Sono sicura che non mi succederà mai più, e se troverò un lavoro in una torrefazione sarò felice».

Natascia poi ricorda con piacere un evento con le Lazzarelle che l’ha segnata positivamente, con una vena di orgoglio e soddisfazione: «La prima volta che siamo andate con Paola a fare il mercatino, per me era una novità uscire con l’azienda anche solo per lavorare davanti a un supermercato e confrontarsi con altre persone, parlarci, cioè, io lavoro, dopo tanti anni io lavoro, sto uscendo con la mia titolare e vado a fare un mercato, per me era una cosa nuova e bella che non pensavo di poter fare».

Le detenute non hanno l’educazione o la forma mentis volta all’emancipazione imprenditoriale, quindi il lavoro delle Lazzarelle all’interno del carcere di Pozzuoli rappresenta un’alternativa, una diversa prospettiva della vita. «In Campania si riscontra un contesto socioeconomico complicato. In generale noi donne abbiamo difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e siamo doppiamente svantaggiate, per cui per una donna che ha scontato la pena non avere delle qualifiche è una tragedia. Abbiamo studiato i bisogni del contesto carcerario femminile e abbiamo immaginato le Lazzarelle come un’impresa femminile che fa caffè, dove il caffè non è lo scopo, ma è il mezzo, loro devono diventare in grado di fare qualsiasi cosa, o tornare a essere in grado di farla. Normalmente la detenzione reprime quelle che sono le loro capacità, quindi si lavora insieme per ricordarsi di quello che si sapeva e si può fare, ma soprattutto ciò che si può imparare a fare per il futuro nella speranza di non tornare più qui dentro ed essere grado di riprendersi la propria vita», precisa Paola.

«C’era questa realtà molto bella all’interno del carcere che dava la possibilità alle donne che sono recluse di poter imparare un lavoro ma anche acquisire delle competenze. Le Lazzarelle danno una speranza di poter ricostruire il proprio futuro nonostante ciò che è successo e gli errori commessi, avere una seconda possibilità, inserirsi nel mondo del lavoro, ti assumono con contratto regolare per un sostegno economico, quando uscirò da questo posto avrò accumulato una piccola somma che mi permetterà di ricominciare la mia vita», ad affermarlo è Anna, che attualmente lavora al bistrot nella Galleria Umberto grazie all’articolo 21, cioè in semilibertà in un contesto lavorativo esterno, dopo aver lavorato nella torrefazione nella casa circondariale.

«Il bistrot per me è stata l’opportunità per tornare in qualche modo a essere libera, sebbene la sera debba rientrare in istituto. Ho imparato nuove cose perché all’interno della torrefazione ci si dedica alla produzione, quindi si scopre come si tosta il caffè e tutta la catena produttiva/industriale, mentre al bistrot ho acquisito un’altra competenza come il contatto con il pubblico, lavorare al bar, servire i tavoli, fare i catering. Con le Lazzarelle ho scoperto il lavoro manuale e di possedere delle abilità che non credevo di avere. All’inizio, devo ammettere, mi sono sentita un po’ in difficoltà e in imbarazzo. Arrivati a una certa età si pensa che non sia possibile fare determinate cose, invece non è così, si scoprono altre capacità, altre situazioni… riscopri te stessa in un percorso di crescita», continua Anna.

Anna non solo lavora al bistrot, ma conta di laurearsi per luglio del 2023 in Economia e Commercio, ha ripreso ad andare a casa dai genitori e a frequentare di nuovo i suoi amici. «Quando entri in un contesto come quello carcerario, pensi che i tuoi amici abbiano cambiato idea su di te, esiste un pregiudizio che porta a farsi una serie di domande. Invece, quando sono tornata a casa, loro sono stati contenti di rivedermi e mi vengono a trovare anche qui al bistrot, questo è stato un ulteriore punto di forza che mi ha fatto capire che sì, è vero, è successo quello che è successo, evidentemente non era poi tutto sbagliato, c’è stata solo una fase molto deleteria nella mia vita e sono anche quello che mi è accaduto, ma c’è anche un tutto prima e un tutto dopo», precisa Anna.

A differenza di molte altre detenute Anna era diplomata in ragioneria e lavorava in amministrazione presso una succursale Fiat di Napoli. Anna non vuole scendere nei particolari, ma «…Uno lotta, si riprende, vuole riprendersi la propria vita, però c’è sempre quella parte che ci divide. Ho fatto sicuramente pace con me stessa, ma non so se l’ho fatta con il mio reato. Penso di avere piena responsabilità del mio crimine, però mi sento in colpa. Ho sempre pensato e continuerò a pensarlo che non sono una persona ignorante, avevo tutti gli strumenti per chiedere aiuto, perché mi sarebbe bastato chiederlo a qualcuno e dire che ero in una situazione psicologica che non riuscivo ad affrontare, ma non l’ho chiesto. Quindi mi assumo appieno la responsabilità del mio errore e ciò mi fa sentire meglio piuttosto che giustificarmi».

Anna esce alle 7.00 del mattino e deve rientrare in carcere alle 10.00 di sera, e su questo punto è non poco contrariata perché aveva ottenuto la semilibertà in periodo di emergenza covid, quindi invece di rientrare in prigione poteva dormire a casa dei suoi genitori e lo ha fatto da fine estate 2022 fino al 7 gennaio 2023. «Già da due anni che con l’articolo 21 faccio lavoro esterno, poi mi è stata data la semilibertà che ho rispettato per cinque mesi senza dare noie con nessuna infrazione o segnalazione. Ora questo passo indietro non ha un senso, è una pugnalata, ci sono dei premi, il premio dovrebbe essere proprio questo di darci una possibilità di rimanere a casa. Il giudice dovrebbe valutare il percorso formativo di reinserimento che la persona sta facendo e potrebbe premiarla confermando la libertà vigilata», afferma sconsolata Anna. È cosciente che esiste un limite edittale della pena che il giudice è tenuto a tenere in considerazione, ma in un contesto di sovraffollamento delle carceri, come è il caso italiano, forse potrebbero essere applicate le norme in maniera più contestuale.

Non aiuta di certo la cosiddetta legge anti-rave approvata dall’attuale governo che «… Ha comportato una serie di restrizioni per le persone con reati ostativi», afferma Paola Pizzo, «Sostanzialmente nessuna di loro due, Natascia e Nunzia, è andata più in permesso premio, quindi hanno perso dei benefici di legge a causa di questo nuovo decreto. Così a Natale non sono andate a casa e stare con i figli come gli altri anni, per una detenuta è la cosa peggiore che possa accadere. Abbiamo avuto dei momenti complicatissimi che sul lavoro si gestiscono ma dal lato emotivo non ci siamo ancora riprese. E poi non abbiamo capito se questa cosa inficia la possibilità di una misura alternativa come la semilibertà o un lavoro esterno come il caso di Anna, stiamo ancora capendo».

Le Lazzarelle hanno presentato il progetto al dipartimento di politiche sociali e giovanili campano per ospitare il servizio civile (SC) che è in auge da circa un anno. «I ragazzi si sono trovati in questo momento di tempesta natalizia, abbiamo sofferto tutti insieme, abbiamo pianto, un pianto collettivo… Sono stati molto bravi a cogliere la sensibilità, a stare vicino a Nunzia e Natascia. Si sono interessati alla legge stessa per cercare di capire e di aiutarle, perché alla fine le vedono per quello che sono, delle donne, che hanno sbagliato sì, ma sono esseri umani. Quindi il SC può aiutare i giovani a comprendere il carcere e quanto possa essere duro, la limitazione della propria libertà è la cosa più orribile che possa capitare, e può creare un po’ di dissuasione nel commettere reati», continua Paola.

Maria Cristina ha ventisette anni e fa il servizio civile alla torrefazione delle Lazzarelle, racconta la sua esperienza: «Non avevo mai messo piede in un centro detentivo, quindi mi ero interrogata a lungo su come potevo reagire dopo l’ingresso in un carcere. Ero cosciente che non avrei saputo dei reati commessi dalle detenute e mi ero posta il problema di come sarebbe stato lavorare con loro nel momento stesso in cui avrei saputo di più delle loro vite. Devo ammettere che poi si è risolto nella maniera più naturale possibile. Bisogna capire come effettivamente funziona il sistema penitenziario italiano con tutte le sue asperità e durezze, ma anche con i piccoli spiragli di speranza. Si capisce come si svolge la vita in una prigione, come loro trascorrono le giornate, il senso del tempo e dello spazio, perché nel carcere è diverso e quindi anche il lavoro assume delle sfumature diverse da quello che ha fuori».

Nunzia, trentaquattro anni e due figli di diciassette e sedici anni, collabora con le Lazzarelle da circa cinque mesi ed è in carcere per lo stesso reato di Natascia. Spiega meglio l’importanza del SC: «Ritorniamo parzialmente al mondo di prima: non abbiamo possibilità di contatto con persone all’esterno, invece stando con loro abbiamo notizie da fuori, se ci dimentichiamo di qualcosa, qualche dinamica, loro ce lo ricordano, sembra una sciocchezza ma è molto importante. Sono ragazzi ed è bello stare con i giovani», conclude Nunzia, poi descrive l’ambiente da cui proviene: «Lo spaccio era un mondo facile, facile per un guadagno economico, facile non fare niente dalla mattina alla sera… Poi magari ci siamo trovati in una situazione più grande di noi ma abbiamo capito che quello è un mondo che oggi non ci appartiene. L’ho capito proprio con le Lazzarelle, perché abbiamo la possibilità di fare per la prima volta un lavoro vero, entriamo in un mondo che noi neanche conosciamo, ci fanno capire che il lavoro è dignitoso e che dobbiamo andare avanti».

«Le Lazzarelle mi hanno anche appoggiato quando mi sono iscritta all’università, Imma mi dà la possibilità di collegarmi per le lezioni qui al bistrot. Sono contente nel seguirti, stai facendo un percorso di crescita e loro ti accompagnano, ti danno tutte le armi e tutti gli strumenti per poter affrontare la tua vita in modo diverso», conclude Anna.

Dal 2010 più di ottanta detenute hanno fatto il percorso lavorativo con le Lazzarelle, e quasi il 90% dei casi non è rientrato in prigione ed è riuscito a reinserirsi nella società. Una goccia nel mare, «Le detenute che vengono a lavorare con noi certo hanno un cambiamento, anche all’interno del carcere, però 3-6 detenute su 180 è un numero irrisorio anche se importante. Posso dire solo una cosa: a livello personale ognuna di loro mi lascia un pezzo, o si porta via un pezzo di me», conclude Imma. Il lavoro intenso delle Lazzarelle è stato riconosciuto a livello nazionale tanto da ricevere l’onorificenza al Merito della Repubblica Italiana dal Capo dello Stato Mattarella il 23 febbraio 2023 (https://caffelazzarelle.jimdofree.com/).


(Alias – Il manifesto, 25 marzo 2023)

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