Paola Piva consigliera comunale di Roma
L’inchiesta di Roberta Tatafiore (Via Dogana n. 3 e 4) racconta di donne che sperimentano il lavoro di cura non come ripiegamento su compiti tanto necessari quanto modesti, bensí come scoperta di sé e un modo per dare spessore ai rapporti familiari. “Un’opera ben ,fatta”, “un castello di solidarietà”, energie ritrovate che permettono allefiglie di accudire il padre negli ultimi anni di vita. Tra le intervistate circola un clima di euforia che proviene dalle difficoltà superate e vinte. Lo può ben capire qualunque donna abbia accolto in casa un’anziana o anziano senza autonomia o un bambino difficile, chi sappia accompagnare allafine un amico o un’amica morente o cerchi difare questo senza sconvolgere altri equilibri, senza rinunciare a se stessa. Oggi sono tante le donne che possono trarre vanto di queste imprese e anche di altre piú limitate, quotidiane, per le quali – scherzando – a volte diciamo: “Il Comune dovrebbe passarmi uno stipendio per il lavoro sociale gratuito chefaccio giornalmente”. Ma questo è il punto: come dare valore al lavoro di cura? Chi può riconoscerlo? Come premiarlo?
Ho davanti agli occhi due situazioni che ancora non comunicano, ma che in futuro potrebbero convergere.
Prima situazione: la nostra generazione di donne e di uomini non può permettersi di ignorare il prezzo del lavoro di cura. Per la prima volta nella storia sta diventando a tutti evidente che chi lo fa – non importa se informa gratuita o retribuita – assume una veste preziosa. Chi offre aiuto alle nostrefragilità, chifa giocare il nostro bambino, chi veglia di notte i nostri vecchi, chi ci solleva dai pesanti sensi di colpa per le inadempienze inevitabili, merita tutta la nostra consìderazione. Certo non tutti i lavori di cura sono ben pagati ma poti-ebbero diventarlo, a fronte di una domanda di mercato sicuramente in crescita.
Seconda situazione le donne che lavorano professionalmente nei servizi alle persone (sanità, servizi sociali, servizi psico-educativi, ecc.) stanno scoprendo, solo di recente, le attività di (*ara come un contenuto pregiato. Per almeno vent’anni (questo è l’arco storico in cui si sono diffusi in Italia questi sei-vizi) le “opera trici sociali” hanno cercato di valorizzarsi inseguendo un modello maschile: appropriandosi di tecnologie terapeutiche piú sofisticate, adottando uno stile di lavoro piú neutro (chi ha inventato il termine “utente” per distinguerlo dal “paziente” dei medici, evitando in ogni caso di personalizzarlo?), assumendo ruoli gestionali (la programmazione, il coordinamento, la verifica, la supervisione). Tutti modi per stare dietro le quinte, distanziare, sopprimere il rapporto di aiuto minuto e quotidiano che sembrava deprimente, banale, senza valore.
Oggi le cose stanno cambiando. Ci sono stati degli incontri, uno l’ho organizzato io stessa con il Labos (un istituto di ricerca e formazione per le politiche sociali) a Roma nel novembre scorso, sono stati scritti dei libri (cfr. C. Capello, M.T. Fenoglio, Perché mai mi curo di te?, Rosenberg & Sellier, Torino, 1992) in cui alcune donne si sono dette orgogliose di svolgere proprio quel lavoro che la cultura professionale dominante tendeva a sottovalutare.
Una psichiatra di Torino, Clara Battaglino, che sta seguendo una .cooperativa di assistenza quotidiana ai malati dimessi dagli ospedali psichiatrici, si è accorta come la “nuova ” psichiatria si sia dimenticata -fin dalle impostazioni della riforma – di prevedere tanti lavori, piccoli ma indispensabili, senza i quali un malato non può vivere fuori dalle mura manicomiali.
Una sociologa di Milano, Grazia Colombo, riflettendo con le donne che in ospedale lavorano nei reparti Il nascita”, ha visto i pregi di un aiuto passivo, empatico, “dolce”, offerto dall’ostetrica quando riesce a non farsi condizionare dal prqfessionismo spinto del ginecologo.
Sono piccoli segnali di crescita verso un’autonomia culturale tanto piú apprezzabile se si tiene conto che il lavoro professionale di cura è stato a lungo colonizzato da paradigmi maschili. Da un lato, dunque, può aumentare il “prezzo” socialmente riconosciuto (e, forse, retribuito) del lavoro di aiuto, dall’altro le donne che lo svolgono (come professioniste o volontarie) cominciano a valutarlo.
Per molto tempo ho pensato che la vera ricompensa è quella che ci riconosciamo da sole; ora lo penso un po’ meno. Ci vuole un agire politico che faciliti l’apprendimento collettivo. Mi colpisce il fatto che cambiamo prospettiva sul lavoro di cura solo quando ci capita un evento personale che ce lo rende prezioso. Solo in questo caso esso perde i connotati di un prodotto Il naturale e noi siamo in grado di dargli senso. Prima di quel momento (fatidico, illuminante), ne parliamo in modo inconsapevole. Apprendimento collettivo vuol dire sapere la cosa anche quando non la sisperimenta in proprio. Solo un vero cambiamento culturale può trasformare anche l’agire istituzionale, le politiche pubbliche dei servizi, i modelli amministrativi. E questo è un altro passo in piú, complicato ma essenziale.