1 Settembre 1992
Via Dogana n. 6

Dopo l’accordo sul costo del lavoro: quale pratica?

Lia Cigarini

C’è una politica della rappresentanza e c’è una politica della contrattazione. Fra loro non si escludono. Non possono escludersi, se non altro perché la contrattazione, nella politica come in tutte le relazioni umane, viene prima, a un livello piú elementare. Però adesso c’è come una tendenza, da parte della politica-rappresentanza, a mettere in ombra la contrattazione, e perfino ad eliminarla. Questa rivalità fra rappresentanza e contrattazione è familiare al movimento delle donne. Molte e molti vollero interpretarlo come una richiesta di rappresentanza. Dal primo momento, pensiamo agli scritti polemici di Carla Lonzi, si è dovuto combattere contro questa interpretazione che copriva la caratteristica originale del movimento, nato da una presa di coscienza e dal cambiamento dei rapporti tra donne. Nella politica la contrattazione ha un valore insostituìbile. Le viene dalla sua conformità con il linguaggio. Parlare è una forma dì contrattazione, la piú elementare. La lingua non è una creazione individuale, ma nasce dallo scambio fra parlanti, e non diventa mai dominio esclusivo di qualcuno, ma resta sempre, per restare viva, comune. Per me, una politica senza contrattazione è una politica finta che copre appena i rapporti di potere, e che esclude di fatto tutti quelli e quelle che non sanno (o non vogliono) parlare per finta. Perciò ho trovato terribile quello che è successo il 31 luglio scorso. L’ho visto come un tentativo di sottrarre competenza simbolica a quelli, donne e uomini, che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro. Il 31 luglio scorso i tre segretari delle maggiori organizzazioni sìndacali hanno firmato un accordo con il governo per contenere il costo del lavoro. Due le misure prese: la soppressione della scala mobile (che tutelava le buste paga dall’inflazione) e il blocco della contrattazione articolata, che dava la possibilità, ai lavoratori e lavoratrici di una determinata azienda, di ottenere un salario superiore a quello stabilito dal contratto collettivo, se favoriti dai rapporti di forza e dalla loro capacità di lotta. L’accordo ha suscitato molte critiche e, per fortuna, anche molta sorpresa. Tutti, compresi quelli che lo considerano necessario, lo hanno giudicato ingiusto. Se l’inflazione è un problema d’interesse generale, perché le misure colpiscono soltanto il lavoro dipendente? La risposta, purtroppo, è facile: perché era piú facile colpire in quella direzione. Dunque, un accordo oltre che ingiusto, vile. Stipulato, non a caso, nel momento in cui fabbriche e uffici chiudevano perle ferie annuali, così da evitare una pronta risposta collettiva da parte delle persone più colpite e piú ingiustamente colpite. I loro rappresentanti, però, lo hanno fischiato. Da qui la sorpresa, piú grande delle critiche. Negli stadi, a questo punto, il pubblico griderebbe “arbitro venduto”. Ma è difficile o, forse, impossibile gridarlo quando si tratta non di un arbitro ma del tuo rappresentante e quando l’avere rappresentanza equivale ad avere parola, come sempre piú tende ad essere. E come anche questo accordo, io dico, tende a fare che sia, nella maniera piú esplicita. Mi riferisco al blocco della contrattazione libera, che è un fatto insieme economico e simbolico. La contrattazione, infatti, è la pratica politica, che dà esistenza simbolica a chi, per vivere, dipende dal mercato del lavoro. C’è la possibilità di organizzarsi in sindacato o in partito, è vero. Ma l’organizzazione viene sentita ormai come una forma scissa dalle persone in came ed ossa. La contrattazione è anche l’unica politica delle donne nel mondo del lavoro. Voglio dire che è l’unica pratica che, nei rapporti di lavoro, può far valere il di piú che le donne sono, pensano e vogliono per sé per gli altri. E si capisce perché, considerando che l’essere in relazione è la nostra originale forma politica. Nell’organizzazione, invece, la presenza femminile tende a diventare una questione di quote e di posti, subordinata alla logica del potere. Ho parlato di un fatto insieme simbolico ed economico. Nell’informatica si parla di interfaccia tra uomo e macchina. Ecco, la contrattazione realizza l’interfaccia tra economico e simbolico, fra soldi e parole: le due cose si toccano senza confondersi. E lo stesso può dirsi dell’intera faccenda in discussione. Cosí, il segretario della Cgil (non parliamo degli altri due, troppo filogovernativi) non è in nessun modo un venduto. Però ha firmato. Non solo ha firmato contro gli interessi che rappresenta. Ha firmato anche contro gli impegni da lui stesso presi nell’ultimo congresso, che erano di difendere la contrattazione come un diritto di cui possono disporre solo le persone che lavorano. Dopo la firma, come si sa, egli ha dato le dimissioni. Ma dopo. E’ stato ricattato con la doppia minaccia della crisi di governo e della rottura dell’unità sindacale, è la spiegazione data da alcuni. E’ lui che ci ha ricattati e continua a ricattarci, hanno replicato altri, della base. Nella sua lettera di dimissioni, il segretario della Cgil ha scritto: non c’erano le condizioni per un accordo più favorevole ai lavoratori dipendenti. Nell’intervista con cui poi ha cercato di chiarire il suo agire, ha detto: ho firmato per senso di responsabilità verso il paese. Sono spiegazioni fra loro diverse ma non contraddittorie. Là dove la forza insieme vincolante e liberante, della contrattazione non si è imposta, è subentrato un senso esorbitante della propria responsabilità. Il capo del sindacato ha parlato come se fosse il capo del governo. Forse vuole diventarlo ma non lo è ancora. (E se mai lo diventerà, ci sarà da temere, perché egli uno che preferisce immaginarsi i suoi impegni invece di stare a quelli effettivamente presi.)
Tuttavia, il problema non è questo o quell’uomo, questa o quella donna, ma il tipo di rapporti che la politica degli uomini tende a far trionfare, troppo sbilanciati nel senso dell’organizzazione, della raprresentanza, del far capo a pochi. Se questa politica resterà l’unica, non ci sarà piú neanche un paese verso cui sentirsi responsabili. Annullato il rapporto contrattuale con altri, perduto il senso della sua necessità, infatti, il paese diventa una fantasia piegabilealla logica del piú forte e del dominio. A queste considerazioni, rivolte piú agli uomini che alle donne, devo aggiungerne altre che ci riguardano (e mi pesano) di più.
Io non faccio parte di sindacati né di partiti. Quello che ho scritto sopra, lo so per il legame che ho con donne che ne fanno parte. Con loro, in questi ultimi anni e perfino mesi, ho analizzato fatti, ho discusso idee, ho indagato dentro e fuori me stessa, aiutandole a fare lo stesso per quello che le riguarda. Queste donne, non meno di me, sanno il valore della pratica della contrattazione e come questa si leghi alla politica della libertà femminile. Ebbene, subito dopo il 31 luglio, nella fase più drammatica del dibattito io mi aspettavo che esse intervenissero per spiegare quello che ho cercato di dire qui. Che lo spiegassero loro con la maggiore forza e precisione che gli viene dal contesto in cui, diversamente da me, sono inserite, per scelta o per necessità.
Questo però non è capitato. Nessuna di loro ha voluto misurarsi con una contingenza storica che non sono la sola a giudicare difficile e importante, specialmente per la politica delle donne nel lavoro. A me pareva che dovessero farlo, per il sapere femminile sulla contrattazione da loro posseduto e perché il divieto della contrattazione polverizza lo strumento da esse scelto per agire la differenza.
Il
loro silenzio non è imputabile a un’estraneità femminile. Qui si dovrebbe, semmai, parlare di un’estraneità maschile, nel senso che ho detto: piú facilmente della donna, l’uomo può immaginarsi di poter trascendere la relazione. Si tratta di un’altra cosa. E cioè che il sapere femminile della contrattazione manca di radici. In questo siamo simili al segretario della Cgil: neanche noi conosciamo effettivamente la fecondità di avere un vincolo e di saperci fare i conti. Manca di radici, secondo me, per la scarsità delle relazioni contrattuali fin qui realizzate fra donne. Non ci mancano relazioni fervide e strettissime quando sono in gioco progetti che riguardano luoghi, riviste, iniziative fra donne che si sono scelte. O quando sentiamo il bisogno dell’alimento simbolico di un sapere femminile. Ma allorché la scena cambia ed è in gioco l’agire nella politica mista, allora queste relazioni passano in secondo piano: diventano gratuite, oppure si restringono al contesto particolare di una città, di una categoria, di un partito. In ogni caso, riprendono il sopravvento geografie non disegnate dalla politica autonoma delle donne.
Ciò ha diverse conseguenze. In primo luogo, ci ritroviamo consegnate al separatismo per cui ci sono come due scene, quella delle donne e quella della politica. Da qui viene la troppo facile emarginazione di ogni contributo femminile. Ma, soprattutto, appare chiaro che le relazioni fra donne non sono vincolanti per le stesse che le nominano, per cui non producono, fiori possono produrre autorità femminile. Né danno, quindi, la forza di testa e di volontà per intervenire in un dibattito come questo, che vede coinvolti i massimi poteri del sindacato e dello stato. A pensarci bene, la mancanza di autorità non è una conseguenza, bensí l’origine del silenzio e della debolezza femminile: il contributo è debole o assente perchè non ci si è misurate veramente con niente.
In questi ultimi anni, ho seguito il congresso della Cgil e i due congressi del Pci-Pds, in stretta relazione con alcune donne lí attive in prima persona. L’ho fatto perché sono convinta che quei congressi facevano parte della politica delle donne. Ho sempre pensato che il mondo è uno, e ho sempre ragionato e agito perché le donne vi possarlo vivere da signore, come in casa propria. Nel caso di quei congressi, non era piú questione, come tante volte in passato, di lottare contro la cancellazione o l’emarginazione. Non piú questa la questione. La politica delle donne si trova al centro. Si tratta che ne prendiamo coscienza e che sappiamo starei. Se ciò non avviene – e non può avvenire, lo vedo, se ci viene a mancare la forza delle relazioni – io ho una smentita delle mie pretese personali e tutte ne abbiamo un rimando di miseria. Forse a suo tempo non fui chiara nel dire quali erano le mie pretese e le mie condizioni. Adesso l’ho fatto.

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