1 Dicembre 1998
Via Dogana n. 40/41

Intervento su: “Libertà nel lavoro”

Un intervento di Francesco Garibaldo

Il numero di “Via Dogana” sul lavoro e le donne solleva alcune questioni quali il ruolo della soggettività e della produzione simbolica nei processi di cambiamento ed il tema della libertà nel lavoro. Questioni sulle quali non si può che convenire. Non esistono infatti processi di cambiamento reali, anche quando la mediazione fondamentale dell’azione è collettiva, che non nascano da un “sentimento di irriducibilità rispetto allo stato di cose presenti, una costellazione di bisogni insoddisfatti. Un sentimento materialisticamente determinato ma non risolvibile nella struttura della realtà data; una impossibilità ad adeguarsi”. Mi verrà perdonata questa autocitazione ma così scrivevo, a proposito del sindacato, nel 1986 e non ho cambiato idea. Conseguentemente tali sentimenti di irriducibilità per farsi azione, anche nel senso di un sistema di relazioni tra individui, hanno bisogno di rappresentarsi come un mondo simbolico, che struttura la comunicazione e l’empatia tra diversi soggetti, ed anche come un orizzonte simbolico, cioè come progetto che coniuga il piano di vita quotidiana ed i bisogni (che sono qualcosa di più dei desideri). Ed infine non vi è dubbio che nella tradizione del movimento sindacale italiano, ma il discorso potrebbe estendersi a livello internazionale, questo secolo è stato marcato da una lunga fase di tutela del lavoro contro un capitalismo spesso socialmente darwinista piuttosto che nella possibilità di conquistare per il lavoro, nel lavoro un orizzonte di senso ed uno spazio di autodeterminazione. Presenti ed autorevoli sono infine le voci singole e collettive, dentro il movimento sindacale italiano, che ne hanno messo in evidenza i limiti profondi sia sul piano dell’efficacia dell’azione che della capacità di reale coinvolgimento dei singoli, in particolare modo nel corso degli anni ’80.
Se quindi la cifra culturale dello sforzo compiuto mi trova in sintonia non posso evitare di notare begli articoli e nel dibattito che ne è seguito il profilarsi di due diverse sensibilità: l’una tesa a cogliere segnali anche deboli di attività che vadano oltre le debolezze denunciate, l’altra pronta a cogliere nel quindicennio appena trascorso il formarsi di una spinta liberatrice data dal processo di destrutturazione sociale ed istituzionale noto come “liberismo”. La riduzione del peso e del ruolo del movimento sindacale, l’allentarsi delle norme di tutela del lavoro, la caduta di credibilità di pratiche collettive di solidarietà, quali il contratto nazionale ad esempio, tutto ciò visto e vissuto come liberazione da vecchi vincoli, confesso che mi pare un’enormità e mi spaventa. È indubbio che in ogni processo di istituzionalizzazione, nel senso che i sociologi attribuiscono alla parola, è insito il momento della burocratizzazione e quindi della compressione, quando non liquidazione, della soggettività e quindi della creatività e della libertà, ma ciò non implica che la istituzionalizzazione va evitata ma che essa è solo una faccia di un processo, quindi non uno stato stabile. D’altronde i rimedi indicati, la solidarietà di gruppo basata su una qualche forma empatica rappresentata da un simbolico condiviso, scivolano rapidamente verso forme neo-feudali, una società civile cioè frammentata in gruppi che, non disponendo più di un ordine trascendente quale quello medioevale, inevitabilmente sono in lotta continua per espandere “i propri confini”. Dal punto di vista del diritto del lavoro vale quanto affermato da un gruppo di esperti europei: “a fronte di queste trasformazioni, il gruppo di esperti sottolinea la necessità di una duplice scelta: 1. Affermare il principio fondamentale secondo cui le parti in una relazione di lavoro non sono padrone della sua qualificazione giuridica; 2. Estendere con determinazione il campo di applicazione del diritto sociale per comprendervi tutte le forme di contratto di lavoro e non solo quello di stretta subordinazione del lavoratore”.
Fuori da questo quadro ed in particolare da quanto definito dal punto 1, il rischio di una deriva neo feudale è elevatissimo. D’altronde se questo secolo ha costruito una civiltà giuridica ed istituzionale sul lavoro, dove ciò è avvenuto, basata sulla uniformità e prescrittività della norma giuridica e della configurazione istituzionale, non è forse maturo il tempo per pensare a diritto azionabili dai titolari in relazione a condizioni e circostanze mutevoli? Non è forse questo un orizzonte simbolico che attiene alla libertà? Di qui potrebbe iniziare una nuova discussione.

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