28 Gennaio 1994
Via Dogana n. 14/15

Lavorare bene, lavorare tutte

Giovanna Giorgetti della Segreteria regionale Filtea Lombardia

Le donne sono portate a mettere tanta cura e qualità nel lavoro che svolgono, anche in quello costrittivo delle fabbriche; lo osserviamo nella nostra pratica quotidiana di relazione con lavoratrici e delegate. Risulta anche dallo scritto di Nedda Bonaretti su Via Dogana n. 13 (“Ritratto di operaie con psicologa”): le lavoratrici desiderano fare bene il lavoro perché lo sentono parte della propria vita di donne.
Ciò è molto evidente a chi di noi opera nel settore tessile, dove la volontà delle lavoratrici di dare qualità significa anche farsi carico dei bisogni e desideri di altre donne, le consumatrici, che non solo potranno esprimere attraverso il bene prodotto parte della propria soggettività di donne, ma si occuperanno anche della sua cura e manutenzione. Non si tratta dunque di identificazione con gli obiettivi aziendali di vendita, ma di attenzione alla relazione con le destinatarie del prodotto del proprio lavoro, che sono consumatrici o consumatori piú che clienti. E’ interesse per il consumo, non per il consumismo.
Quasi sempre questo desiderio – di “far bene” è vissuto con grande sofferenza nei confronti di norme e gerarchie. La sofferenza che le lavoratrici ci comunicano, riguarda, oltre al non riconoscimento della loro qualità nella scala parametrale e salariale (quasi tutte sono inqua-
drate ai livelli piú bassi), anche il rapporto con una organizzazione del lavoro che impone carichi e ritmi crescenti, rigidi, in cui l’obiettivo della quantità cozza con quello della qualità che comunque le aziende pretendono.
La ricerca della produttività, oltre ad aumentare i carichi e le forme di standarizzazione, ha portato spesso le aziende a regolamentare in modo restrittivo il lavoro, riducendo spazi di libertà delle lavoratrici. In una indagine fatta nelle fabbriche del lecchese, ci ha impressionato l’elenco di divieti espressi con norme e anche fisicamente con cartelli come VIETATO CHIACCHIERARE, turni rigidi per il caffè, divieti di allontanarsi dalla macchina … ; cosí il ruolo dei capi diviene sempre piú quello di controllo del rispetto dei divieti. Anche le esperienze di qualità totale hanno cercato piú di coinvolgere le lavoratrici sugli obiettivi aziendali che di occuparsi del loro benessere e quindi della qualità del loro lavoro.
Eppure anche dentro le norme e i controlli le donne hanno spesso ricercato e trovato spazi di libertà e di cura del proprio lavoro, attraverso una serie di azioni informali, di comunicazione con altre lavoratrici, di superamento delle prescrizioni, di adattamenti, di “farsi carico” al di là delle regole e del mansionario contrattuale. Questa pratica l’abbiamo verificata nella ricerca fatta a Brescia con una delegata, Mafi Acerbis (v. “Giacca fallata” su questo numero di Via Dogana).
Lavorare bene, esprimersi nella relazione con altre donne – lavoratrici e consumatrici – preservando cosí la propria interezza, è un valore molto forte che opera al di là di riconoscimenti monetari o di potere, che le donne non chiedono (ma questo rimane nella società un fattore di debolezza). Certo le lavoratrici rivendicano anche un diverso inquadramento salariale, ma ciò che vogliono mettere in campo non è il riconoscimento di ruolo, è molto di piú.
Lo possiamo verificare nel rapporto con i ruoli gerarchici aziendali, in genere rifiutati dalle donne, in particolare come esercizio di potere, disprezzati fortemente se ricoperti da altre donne (le maestre-ruffiane), accettati solo se esercitati con autorevolezza professionale nel saper fare o nel saper risolvere i problemi. Abbastanza forte è il rimpianto delle lavoratrici piú anziane per i vecchi capi che conoscevano il lavoro, e il rifiuto e disprezzo per i moderni capi-controllori.
Per questo sentiamo il bisogno di non andare avanti con slogans sulla valorizzazione del lavoro delle donne o peggio ancora con la pratica delle azioni positive, ma di fare ordine, di comprendere questa qualità del lavoro delle donne, anche per capire perché non produce norma nell’azione sindacale dominata ancora dall’ordine simbolico maschile.
Possiamo tentare di porre tre questioni, su cui riflettere per la nostra pratica sindacale: 1) la cura, la voglia di qualità delle lavoratrici è desiderio di riconoscimento di autorità che si esprime nella relazione con altre donne nel luogo di lavoro; 2) la ricerca di autorità e relazione si esprime anche attraverso il bene che si produce, oggetto della relazione con donne consumatrici e della propria interezza di donne. Le donne vogliono produrre per il consumo-relazione e non per il consumismo; 3) la ricerca di qualità è anche pratica di libertà, in cui le donne agiscono spesso informalmente, senza scontro apparente, ma con un processo di “riadattare su di sé”, anche nelle organizzazioni aziendali piú rigide e nel rapporto con le sue forme di controllo.
Stiamo, e alcune lavoratrici stanno, prendendo consapevolezza di questo nuovo ordine e della sua forza per donne e uomini; c’è bisogno di dargli voce pubblica. Anche per dare piú corpo e concretezza a elaborazioni che stanno emergendo su cosa produrre, sull’utilità sociale, sull’ambiente.

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