31 Maggio 1995
Via Dogana n. 10/11

Le pioniere della condizione umana

Anna Del Bo Boffino

Il lavoro di cura torna e ritorna nel pensiero politico delle donne, via via che la loro esistenza le induce ad affrontarne tutti gli aspetti. Verrebbe da dire “tutte le specialità”, perché nel giro di pochi decenni si è visto quanto sia vario e di diverse competenze. Si volesse anche solo guardare al piú minuto lavoro domestico”, ci si imbatterebbe subito in due attività di alto valore simbolico come il “nutrire” e il “pulire”. Nutrire attraverso la preparazione dei cibi ha significato profondamente emotivo nel rapporto che si stabilisce fra chi nutre e chi è nutrito (e tutti i disturbi che attualmente si rilevano nel rapporto con il cibo la dicono lunga sullo spessore di questa attività). La preparazione dei cibi è oggi in discussione perché è uscita dalla tradizione locale e familiare, ha assunto toni dietetici ed ecologici che hanno messo a dura prova la capacità di scelta delle donne. Allo stesso modo il “pulire” che adombra pure sempre questioni di coscienza (sporca o pulita?) si è arricchito degli strumenti offerti dalle nuove tecnologie e dei prodotti offerti con tanta insistenza pubblicitaria dal mercato dei consumi, che hanno fatto del “pulito” un’ossessiva rappresentazione d’immagine.
Se il “nutrire” e “pulire” sono tanto mutati e pongono non pochi problemi, che dire della maternità, del vivere in coppia? Una categoria compatta come 1-amore materno” si è disaggregata nelle sue valenze specifiche: gravidanza, rifiuto o accettazione della gravidanza, parto, cura neonatale, rapporto con il figlio maschio, con la figlia femmina, con il bambino, l’adolescente, l’adolescente ritardato che non esce mai di casa, e via ad elencare. Tutti passaggi che una donna deve affrontare con qualche cognizione ‘ almeno, di causa, a scanso di farsi venire i sensi di colpa di fronte agli scarsì risultati di figli inferiori alle aspettative.
Via via che le femministe (o semplicemente le donne con un minimo di autocoscienza) raggiungevano l’età di sposarsi, fare figli, crescerli, il lavoro di cura è stato messo in discussione, esaminato nei suoi aspetti, nelle sue contraddizioni. Mancava un’ulteriore tranche de vie alla parabola dell’accudimento: l’assistenza agli anzia i, rimasta nella nebulosa del rispet o per i vecchi e della cura delle ìnfermità, da palleggiare tra pubblico e privato, e che ora sta emergendo in tutta la sua drammatica urgenza. La vita si è allungata. Genitori 80/90enni sono sempre più numerosi, e donne di 50/60 anni e oltre, ancora in piena attività lavorativa o culturale, o appena alle soglie di un pensionamento che si presenta ricco di promesse di libertà (finalmente poter seguire le proprie inclinazioni, coltivare talenti mai germogliati!), si ritrovano a dover assistere un uomo, o piú spesso una donna di tarda età, nel suo inevitabile declino, nella progressiva perdita di facoltà fisiche e mentali, verso la completa dipendenza da chi li assiste.
Il rapporto madre/figlia, in particolare, conosce in questa fase una sua estrema intimità corporea e affettiva che risucchia la figlia in una sorta di “quarta dimensione” dove la simbiosi è pur sempre in agguato con effetti devastanti per chi, nonostante tutto, è destinata a sopravvivere.
La solitudine in cui si svolge questo lavoro di cura, e l’incertezza nel condurlo secondo coscienza sono certamente il risvolto della novità di questa condizione. Ma, come sempre, tocca alle donne affrontare da pioniere ed esploratrici nuove condizioni umane in tutta la loro difficoltà. Perciò quando si leggono invocazioni come quelle contenute nel testo “Costruiamo il bene comune”, a cura della Commissione diocesana di Milano “Giustizia e pace”, ci si chiede se mai ciò che riguarda da vicino le donne sarà visto e accolto dalle gerarchie cattoliche. “… non può avere basi morali autentiche una società che, mentre afferma valori quali la salute, la giustizia e la pace, si contraddice e rende piú poveri i poveri, si chiude alla solidarietà, nega aiuto e sostegno anche economico ai più bisognosi, quali gli handicappati, gli emarginati, gli immigrati, emargina gli anziani, favorisce la morte di chi soffre di una malattia inguaribile, manipola gli embrioni, strumentalizza la donna, inganna e delude i giovani, trascura e non rispetta i bambini e i ragazzi, accetta passivamente l’aborto”, dice un passo del messaggio. Un messaggio prodotto da una cultura tutta maschile, che ha sempre avuto il privilegio di appellarsi ai valori “alti” dell’etica ignorando la quotidianità della cura ai malati, agli handicappati, agli anziani, agli infermi, e anche ai bambini e agli adolescenti in crisi: questo immenso “pacchetto” di ore di vita riguardava solo le donne, figlie, madri, mogli, suore. Gli uomini ne usufruivano, se ne allontanavano appena non ne avessero bisogno, davano per scontato che non li riguardava, e che comunque quei compiti ‘venivano assolti dalle donne. Ora tutto è stato nominato: ed è lí, a invadere il mondo del potere, sottraendo pensieri, parole, opere a chi se ne riteneva, per cultura di genere, esente.
Nominare è stato il primo passo.
C’è ora da provvedere.

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