1 Marzo 1998
Via Dogana n. 37

Pratiche politiche per creare libertà

Lia Cigarini e Maria Marangelli

Per storia personale siamo sempre state attente alla riflessione e alle lotte del lavoro.
Negli ultimi anni molte donne sono state coinvolte in questa riflessione, convinte che conosce il lavoro chi ha esperienza del lavoro e rompendo con l’idea che esso sia materia di esperti e sindacalisti/e.
È iniziata così la narrazione del lavoro a partire dall’esperienza femminile.
Siamo dunque partite dal ripensare il senso del lavoro, più precisamente la ricerca di senso delle donne e degli uomini nel lavoro, alla luce dell’esperienza femminile, ma per parlare del lavoro di donne e uomini. Il pensiero della differenza parte, infatti, dalla differenza femminile per mostrare che la realtà è fatta di donne e uomini. Mentre prima si faceva un discorso universale, ma si trattava soprattutto di uomini.
Si è parlato, a fronte della crescente e qualificata presenza femminile nel lavoro, di nascita collettiva nel fare mondo, non per dire che il fatto di lavorare sia, in sé, positivo per le donne (il lavoro in sé non è né buono né cattivo). Fondamentale è, invece, il senso che viene dato al lavoro dall’insieme dei rapporti umani e non meno fondamentale per quanto in sé esigua, è la risposta della singola/o, senza la quale l’opera simbolica non approda a nulla.
Se non si considera questo aspetto del senso, cioè la realtà umana implicata nel lavoro, se non la si considera con la necessaria attenzione, il lavoro diventa un’entità astratta, misurabile solo quantitativamente.
Al contrario, con l’interrogazione di senso, si vuole far venire fuori il significato del lavoro per chi lavora e far venir fuori da qui che cosa è il lavoro prima che si sovrappongano le definizioni di economisti, giuristi, sindacalisti, ecc. (la cui intelligenza teorica a pratica è preziosa se viene seconda rispetto alla ricerca di significato delle persone in carne e ossa).
La prima cosa da dire è che la femminilizzazione del lavoro non è prodotta dal mercato, ma viene da un’autonoma volontà femminile che ha saputo sfruttare le modificazioni del lavoro in corso: le donne sono infatti aumentate nel terziario avanzato, nel lavoro autonomo, nei cosiddetti “nuovi lavori”, ecc. Si è scoperto poi che, almeno in Lombardia e nel Veneto, nelle grandi imprese le donne tendono a collocarsi nei settori di ricerca o là dove è richiesta competenza professionale più che nei posti di alta competitività, meglio remunerati ma più logoranti. Oppure si tratta di lavoratrici autonome che tendono ad associarsi in microimprese, in cooperative sociali, in studi professionali di sole donne, ecc. Oppure nella scuola, nei servizi sociali, nell’assistenza. Probabilmente per poter lavorare secondo una propria misura.
Statisticamente considerata, tuttavia, la situazione sembra configurare più che il libero gioco della differenza una nuova e più qualificata divisione sessuata del lavoro.
Non ci basta. C’è qui un nodo di contraddizioni, di conflitto tra i sessi, c’è un evitamento dello schiacciamento maschile ottenuto rifugiandosi nella competenza delle relazioni e nella misura piccola.
La presa di coscienza deve partire da questa contraddizione. Allora, di tutta la ricerca del nostro gruppo ci interessa, in questo testo, sottolineare la critica ad una politica che ha come oggetto solo il lavoro subordinato e basata sulla riduzione per legge dell’orario di lavoro. Sul risarcimento in soldi per un lavoro inevitabilmente eterodiretto.
Secondo tale politica il lavoro alienato ed eterodiretto sarebbe ineliminabile.
Sembra, invece, di poter affermare che le donne non si consegnano interamente alla misura del denaro, né a quella della carriera, ma portano al mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità dell’impegno di lavoro con le esigenze affettive.
Risulta centrale, quindi, la qualità dei legami e delle relazione per una soddisfacente qualità del lavoro, la qualità delle relazione come barriera all’alienazione.
Se tutto questo resta una caratteristica diffusa, ma inespressa, se non diventa base per una teoria del lavoro di uomini e donne, il modo di lavorare femminile diventa attitudine femminile alle relazioni, fatto caratteriale. Capita, così, lo “scippo” del di più femminile, che è sapere delle relazioni, da parte dell’impresa.
Su questo terreno ci troviamo in conflitto frontale con quegli interpreti del lavoro che leggono la differenza portata dalle donne in termini di eccesso di arrendevolezza e di flessibilità, di poca propensione a premere per gli aumenti salariali. L’accusa, poi che certi sindacalisti/e fanno alle donne di essere poco conflittuali sul lavoro e di peggiorarne quindi le condizioni in realtà è una accusa fatta alle donne stesse di non volere spogliare della loro differenza per piegarsi ai tradizionali schemi di lotta e di organizzazione, pensati da uomini per gli uomini.
Anche nel lavoro, infatti, lo abbiamo detto, c’è il conflitto tra i sessi.
La presenza irreversibile delle donne nel lavoro, tra l’altro, è un sintomo della modificazione del rapporto tra i sessi.
Da quello che a noi risulta, le lavoratrici ma anche i giovani adottano una conflittualità a livello di scambi quotidiani. C’è una valutazione continua su quali sono le cose in gioco, per cui valga la pena di far saltare la mediazione, su quali no. C’è molta contrattazione individuale o di gruppo sui tempi di lavoro, mobilità, ecc. Vi è una forte difficoltà a riconoscersi nelle piattaforme generali e da qui la tendenza diffusa a sottrarvisi. Da qui il fatto che si sciopera sempre meno e chi sciopera la fa più in virtù di una memoria storica che per un reale convincimento sull’efficacia dello strumento di lotta.
Si tratta, quindi, di dare spazio ad una contrattazione decentrata e differenziata dove si possono esprimere i nuovi bisogni e nuove forme associative, se necessario, invece che demonizzare la flessibilità femminile.
Non ci soddisfa neppure la posizione di chi afferma che la libertà del lavoro si possa assicurare con la proclamazione di un corrispondente diritto civile universale.
A parte la nostra convinzione che la libertà non è riducibile al sistema dei diritti, per quanto riguarda in particolare la libertà nel lavoro, pensiamo che la messa in campo dei diritti tenda a coprire la mancanza di una pratica politica per affrontare i problemi che si presentano.
Dunque, occorre trovare pratiche politiche per creare libertà. C’è la strada della presa di coscienza che è efficace perché dà forza personale, lucidità e rende capaci di relazioni. La relazione è, a sua volta, modificatrice della realtà in senso sia soggettivo che oggettivo. È l’invenzione di regole elastiche, trovate dalle persone nei contesti di lavoro, pensate in contesto e quindi rispondenti alle esigenze degli interessati. Non c’è libertà se le sue garanzie sono fissate dall’esterno.
La libertà nasce da invenzioni, da aperture che sciolgono vincoli non indispensabili. Il mondo del lavoro è un mondo con molte costrizioni dovute alla natura stessa del lavoro e quindi è impossibile che vi si introduca libertà dall’esterno.
Vorremmo con questo testo aprire una discussione su quale sia la pratica che può rispondere ai problemi della libertà del lavoro.

Nota: sul tema della libertà nel lavoro e dello sconvolgimento che l’espandersi del lavoro autonomo comporta nella percezione del tempo e dello spazio, ci sono stati utili Bruno Trentin, La città del lavoro (Feltrinelli, 1997) e Il lavoro autonomo di seconda generazione, a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli (Feltrinelli, 1997).

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