Manuela Cartosio
L’Università di Torino ha riconosciuto alla sua tesi di laurea la “dignità di stampa”. Ma l’infermiera professionale Aziza Berdaoui, 24 anni, da 16 in Italia con la famiglia immigrata dal Marocco, non può essere assunta in un ospedale pubblico. Non ha la cittadinanza italiana, requisito indispensabile per entrare nei ranghi della pubblica amministrazione. Il suo rapporto di lavoro con la sanità pubblica deve essere “mediato” da un soggetto terzo. Scartate le cooperative – Aziza è sufficientemente scafata per tenersene alla larga – la nostra infermiera ha lavorato qualche mese come interinale in una casa di riposo per anziani. “Prendevo meno di mio padre che fa l’operaio”. Ragion per cui è passata a uno studio associato, pool di liberi professionisti con partita Iva collettiva che si offrono sul mercato. “Con quelli dello studio ho messo subito in chiaro che non intendo girare come una trottola da un ospedale all’altro”. L’hanno piazzata al Mauriziano di Torino, reparto cardiochirurgia, e lì sta. Aziza non ha ancora ben capito quanto dovrà “lasciar giù” allo studio. Ha capito al volo che rispetto ai colleghi dipendenti diretti dell’ospedale ci “smena” parecchio: lo stipendio è dignitoso, ma mutua, contributi e ferie deve pagarseli di tasca sua. Soldi a parte, per lei il vero problema è la scarsa considerazione umana e professionale. “I colleghi mi considerano un’intrusa di passaggio, non posso prendere decisioni impegnative, devo sempre chiedere a qualcuno che è assunto in pianta stabile”. Anche i medici hanno i loro bei pregiudizi, “devo lottare per farmi valere”.
Nel reparto di cardiochirurgia del Mauriziano attualmente le infermiere straniere sono tre, da aprile a oggi ne sono transitate sette. “La nostra presenza scatena fobie tra i colleghi italiani, sono stufi. Se mi metto nei loro panni, qualche ragione ce l’hanno. Ne ho incontrate tante che non sanno una parola d’italiano, non sono in grado di passare le consegne. Vengono usate per qualche settimana come tappabuchi, poi le mandano nei reparti di medicina generale dove le mansioni sono più semplici e di routine”.Aziza ha la pelle un po’ scura e porta il foulard. “Ce le ho tutte”, dice ridendo. “Di pazienti che non vogliono essere toccati da me non ne ho mai trovati. Il bisogno crea relazione. Sono contenta che mi chiedano perché porto il velo. Meglio le domande dirette che i bisbigli dietro le spalle. In compenso, quando entro in mensa con la divisa e il foulard bianco mi guardano come se avessi un terzo occhio. I parenti sono pazzeschi, sono loro la peggior malattia. Pur di non rivolgersi a me per avere notizie sulle condizioni del ricoverato, fermano il primo che passa in corridoio spingendo un carrello o con uno spazzolone in mano”.
Queste piccole difficoltà quotidiane non incrinano la gioia di Aziza di fare un lavoro che l’appassiona e che “riempie d’orgoglio” la famiglia Berdaoui. “Sono la prima laureata in famiglia, mia sorella è iscritta a scienze politiche”. Il “piccolo particolare” che occorre la cittadinanza italiana per essere assunti in un ospedale pubblico Aziza l’ha scoperto “dopo”, alla vigilia della laurea. La brutta sorpresa, comunque, non le ha fatto rimpiangere la scelta. Qualche mese fa è andata in direzione sanitaria per chiedere d’essere assunta, almeno con un contratto a tempo determinato rinnovabile. “Gira voce che è possibile in base a nuove circolari e disposizioni. Al Mauriziano negano”. In attesa che in alto loco si mettano d’accordo su come “interpretare” le circolari, Aziza ha avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza italiana. “Per averla, mio padre ci ha messo tre anni e mezzo”.