10 Novembre 2007

La rivoluzione? Va rimessa in forma

Come ripensare il concetto e la pratica della trasformazione nel pieno della “rivoluzione passiva” del capitalismo globale. Con lo sguardo rivolto non a Lenin ma a Gramsci. Un seminario internazionale organizzato dalla rete “Transform”
Ida Dominijanni

“La globalizzazione è la possente rivoluzione passiva del capitale della nostra epoca, capace di inglobare elementi di socialità, di mondo simbolico e di valori. A questa trasformazione non è sufficiente opporsi solo sul terreno del controllo dello Stato e della gestione del potere. Il riformismo si propone come una forma temperata di questo processo. La riforma della rivoluzione aspira a trascendere questo orizzonte”. Concisa ma chiara “piattaforma” del convegno su “la riforma della rivoluzione” che si chiude oggi a Roma, organizzato da Transform, una rete europea di gruppi di movimento, associazioni culturali, riviste, intellettuali, prossima a (ma non coincidente con) la Sinistra europea. Il punto è rimettere a fuoco “cosa è per il nostro tempo la questione della trasformazione”, passando però obbligatoriamente attraverso la riformulazione del concetto e della pratica di quella parola, “rivoluzione”, tanto cruciale per la sinistra di ogni tempo e paese quanto carica della zavorra di esperienze fallimentari. E non inganni la coincidenza delle date del convegno con il novantesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre: se indietro guarda Transform, non è a Lenin ma semmai a Gramsci. Non solo perché, genericamente, si tratta oggi di pensare la forma della rivoluzione nel capitalismo globale come Gramsci pensò ai suoi tempi la forma della rivoluzione in Occidente. Ma anche, specificamente, perché di Gramsci può tornare oggi attuale la contrapposizione della “riforma morale e intellettuale” alla “rivoluzione passiva” di cui il capitalismo si avvale per rinverdire continuamente i propri consensi.
Questa almeno è l’ipotesi, in apertura del convegno, di Giuseppe Prestipino, che di Gramsci enfatizza “la concezione ‘revisionista’ della rivoluzione”, ovvero il passaggio da una visione della trsformazione incentrata sulla presa del potere (pur da Gramsci non disdegnata) a un’altra incentrata sulla lotta per l’egemonia: “tras-formare il mondo è meglio che ri-voltarlo, mettendolo sottosopra per lasciarlo, nella sostanza, qual era prima”, sintetizza Prestipino. Che legge la globalizzazione nella chiave di una rivoluzione passiva particolarmente efficace, in quanto fa leva su una spoliticizzazione delle masse aiutata e supportata dai grandi apparati massmediatici, il che rende la “riforma intellettuale e morale” più che mai prioritaria. Non solo. Tornare a Gramsci è cruciale, secondo Prestipino, anche per affrontare la questione del rapporto fra “il conflitto originario” capitale-lavoro e i conflitti che oggi si danno attorno all’ambiente, al sesso, all’identità culturale: l’antitesi gramsciana fra dominio e subalternità è in grado di comprenderli tutti (da cui la fortuna odierna di Gramsci nei cultural e post-colonial studies), sì da “congiungere”, e non semplicemente sommare o giustapporre, diverse soggettività nel progetto comunista.
Il che però non si dà nella pratica, com’è noto dalla cronaca che non smette di mostrarci le contraddizioni, più che i congiungimenti, fra soggetti e soggettività differenti. Ne offre una prova del resto la sezione del convegno dedicata all’analisi del lavoro, anzi del rapporto fra lavoro e vita. Qui la fenomologia di partenza è la stessa, ma la sua interpretazione diverge considerevolmente non appena entra all’opera un’ottica sessuata. Per Mimmo Porcaro, l’intreccio sempre più compenetrato di lavoro e vita nel capitalismo di oggi va tutto e solo a detrimento della vita: il lavoro la invade e tende a “formalizzare” tutto ciò che in essa alla formalizzazione resiste; in particolare, “quando la vita ‘entra’ nel lavoro, non sono le capacità relazionali a trasformare positivamente il lavoro, ma è quest’ultimo a imporre le sue logiche alle prime”. A tutt’altre conclusione arriva però Lia Cigarini, a partire dall’analisi del lavoro femminile. “Il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e il lavoro di cura”, sottolinea Cigarini, e questo legame, e relative capacità relazionali, le donne lo portano nel lavoro, modificandolo. Di più, le donne non si consegnano in toto alla misura dei soldi e della competizione, e questo può fare barriera contro l’alienazione. Non più segmento marginale ma ormai protagoniste centrali nel mondo del lavoro (ma Antonella Picchio dà a sua volta una lettura diversa e meno ottimista del mercato del lavoro femminile), le donne obbligano a ripensare l’organizzazione del lavoro per tutti, e la pratica femminista del partire da sé può funzionare da precedente per la necessità oggi pressante di incoraggiare la narrazione dell’esperienza di lavoro, passaggio ineludibile – ma complicato, secondo Marco Berlinguer, dalla difficoltà di mettere in contatto narrazioni diverse – per una nuova stagione di conflitto.
La cui immaginazione continua a dover fare i conti con l’osso duro della crisi delle forme politiche moderne, la rappresentanza in particolare, e con l’impermeabilità delle sedi politiche tradizionali al portato dei movimenti e delle culture di movimento: Hilary Wainwright chiude oggi il convegno ragionando di questo. Potere, autonomia, conoscenza, network sono le parole chiave elaborate, o rideclinate, dai movimenti nell’arco lungo di tempo che va dagli anni Sessanta del Novecento a oggi. Scollare il potere dal dominio e abbandonare la tradizionale visione di un’azione politica che cala dall’alto della leadership su una società oggettivata e passiva a favore di una pratica della trasformazione in cui il soggetto del cambiamento mette in gioco e cambia se stesso nel cambiare la realtà, resta “il” punto su cui la “riforma della rivoluzione” deve misurarsi. Pena il capovolgersi della rivoluzione nel suo contrario, di cui la storia ci fornisce troppi esempi.

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