Intervista a Dorothée Ramaut, medico del lavoro in un ipermercato di Parigi
Anna Maria Merlo – Parigi
Quando Engels ha scritto sulla situazione della classe operaia in Inghilterra, nel 1848, c’erano più domestici che lavoratori delle manifatture, ma aveva capito che la novità era qui. Così oggi, anche se i dipendenti degli ipermercati o dei call center non sono maggioranza, è in questi luoghi che si configurano le condizioni di lavoro che il nuovo capitalismo vorrebbe generalizzare. Pressione delle gerarchie, sui lavoratori precari e su se stesse, solitudine del lavoratore a causa della progressiva debolezza sindacale, paura di perdere il posto: questa situazione viene interiorizzata, si ripercuote sulla salute. Per questo lo sguardo di un medico del lavoro può oggi aiutare a capire come si configurano le nuove sofferenze sul lavoro.
Dorothée Ramaut da vent’anni è medico del lavoro in un ipermercato della periferia parigina. Ha appena pubblicato un diario della sua esperienza, Journal d’un médecin du travail. Témoignage (Le Cherche Midi, 174 pagine, 10 euro), dal giugno 2000 al marzo 2006, che sta sollevando in Francia grande interesse.
Come si è resa conto che i lavoratori, anche i quadri, vivevano la sofferenza che lei descrive?
Non me ne sono resa conto subito. L’azienda, quando qualcuno non stava bene, aveva sempre la stessa giustificazione: è un cattivo elemento. Ma quando ho avuto di fronte a me uno di questi cattivi elementi, che lavorava nel supermercato da più di 15 anni, mi sono interrogata, mi sono detta : ma qui c’è qualcosa che non va. Il problema è che i quadri sono inseriti in un sistema dove sono contemporaneamente protagonisti e vittime.
Lei sottolinea la solitudine dei lavoratori.
Non c’è più solidarietà, ma regna la paura. I sindacati sono paralizzati, perché sono costituiti da esseri umani, che vivono nella paura. Tutti sanno cosa succede quando qualcuno sta male, lo sanno i quadri dirigenti, lo sanno i clienti dell’ipermercato, che osservano la situazione, lo sanno le istanze esterne, come l’ispettorato del lavoro, i controllori della Sécurité sociale, i comitati di igiene e sicurezza. Ma nessuno dice niente. La gente accetta il sistema perché non può fare altrimenti. Nelle imprese della grande distribuzione c’è molto precariato, molto subappalto e molti sono alla ricerca di un posto. Le persone si sentono rivali tra loro, le solidarietà non funzionano più, le strategie professionali e di difesa non funzionano più. I più deboli diventano vittime, ma la mia esprienza mi ha mostrato molti casi in cui uno che si credeva forte, che era un capo, da un giorno all’altro si ritrova debole a sua volta, senza capire perché.
Le malattie che queste persone sviluppano sono soprattutto psichiche o anche fisiche?
Ci sono malattie fisiche, mal di schiena, mal di testa, ipertensioni arteriose, eczemi, psoriasi, fino all’infarto, con la morte come conclusione, ulcere, diarree. E’ difficile quantificare. Poi ci sono le malattie mentali, depressione, incubi, persone che si svalorizzano, che perdono la stima di sé, cosa che può arrivare fino al suicidio. E’ l’identità dell’individuo che viene toccata e questo lascia sempre delle tracce. Queste persone dall’identità demolita, demoliscono a loro volta quella degli altri. La sera, a casa, si sfogano sulla famiglia. C’è da chiedersi come fanno a trasmettere dei valori ai figli, quale valore del lavoro possano tramandare. Ma ogni volta che ho osservato un caso di malattia del genere, la direzione mi ha sempre risposto: non è il lavoro, è perché il dipendente ha dei problemi privati. Questa risposta evita così di fare un’analisi del lavoro. Anche stamattina, la stessa cosa: un’impiegata con problemi di salute, “è la menopausa” mi ha detto il capo. Tutto viene addebitato all’individuo, evitando così di rimettere in causa il lavoro. Mentre tutti gli studi dicono che quando il lavoro non va ci sono ripercussioni sulla vita privata, mentre il contrario non è vero, anzi. Almeno c’è il lavoro, si dice quando ci sono problemi privati. Un tempo i lavoratori erano fisicamente stanchi. Ma c’era lo spazio per recuperare. Oggi non è più possibile, quando il lavoratore è ferito nell’identità personale. Nel mio supermercato i dipendenti non vengono criticati per sbagli fatti sul lavoro, cosa che può essere compresa, ma toccati nell’identità : a chi ha più di 35 anni, chiamati “italiano”, “portoghese”, invece che per nome, “di gente come te sono piene le pattumiere”, ecc. E’ destabilizzante.
Lei scrive che i medici del lavoro hanno oggi la responsabilità di denunciare la situazione, per non farsi accusare, come è stato con l’amianto, di aver chiuso gli occhi?
E’ la stessa cosa. Noi sappiamo, ma poi non riusciamo a farci ascoltare. Mai viene chiesto il parere a un medico del lavoro nello spazio pubblico. Per questo ho scritto questo libro. Ma non pensavo che avesse un impatto del genere: la situazione è quindi più grave di quello che pensassi.
Eppure le leggi di protezione dei lavoratori esistono, come mai non funzionano?
Certo, l’arsenale giuridico esiste. Ma quando un lavoratore denuncia un caso di molestia sul lavoro, è molto difficile trovare delle testimonianze. Siamo sempre di fronte alla stessa questione: domina la paura, le solidarietà sono scomparse, conta solo la redditività, i profitti a breve. La riscossa deve partire a livello di ogni impresa, secondo me, per ritroavre il rispetto reciproco, per ristabilire il dialogo. Anche le imprese devono capire che l’essere umano deve essere rimesso al centro. Oggi in Francia si parla molto di rimettere al lavoro le persone di più di 50 anni. Ma se le trattano così, nessuno accetterà. Io sono costretta a consigliare a qualcuno che soffre di andarsene, di licenziarsi. Quando c’è stata la rivolta delle banlieues, l’anno scorso, è stato detto: è colpa del fatto che non hanno lavoro. Ma se poi, sul lavoro, c’è un’estrema violenza, come se ne esce?