Maria Pierdicchi* e Rosanna D’Antona**
L’Italia è un grande Paese produttore di creatività, talento e flessibilità, ma queste risorse non riescono a essere coltivate e incanalate nella direzione auspicabile e utile a creare vantaggi competitivi sostenibili e per il bene collettivo. Tuttavia, quando si analizzano queste carenze, si tende a ignorare una dimensione molto importante: il ruolo ancora marginale che le donne hanno nell’economia e nella leadership del Paese. Il tasso di occupazione femminile italiano è tra i più bassi al mondo. Meno del 40% (36,8%) della popolazione femminile in età lavorativa si presenta sul mercato del lavoro, cioè partecipa alla produzione di beni e servizi. Si tratta del 32° posto al mondo. La media europea di occupazione femminile è il 55,6%, in Svezia è il 72,2%, in Inghilterra il 65,3%, in Francia il 56,7 per cento.
Negli Stati Uniti la situazione è diversa alla base, ma analoga al vertice. In altre parole, mentre la forza lavoro femminile complessiva è pari al 49%, scende drasticamente al 15,7 a livello di corporate officer per ridursi ulteriormente al 7,9% e 5,2%, rispettivamente, per le posizioni di senior management e quelle di leadership tra le principali aziende americane.
In Italia non solo le donne lavorano poco, ma quando lo fanno non riescono a raggiungere posizioni di rilievo: la percentuale delle dirigenti d’impresa non raggiunge il 5%, le donne che siedono nei Cda delle società quotate si contano su due mani. Le lavoratrici italiane percepiscono in media un reddito stimato inferiore, tra il 10% e il 30%, a quello dei lavoratori, per lo più dovuto -al minor livello di qualificazione delle posizioni occupate.
Se passiamo alla politica il quadro è ancora peggiore: le donne in Parlamento non superano il 13%, contro il 42% della Svezia e il 30% dell’India. Ci si potrebbe domandare se le donne italiane preferiscano fare le casalinghe e non investire nella propria educazione e formazione professionale per scelta deliberata. Le cose non stanno così.
L’Italia mantiene da anni un tasso di natalità tra i più bassi al mondo: 1,24 figli per donna contro i 2,06 degli Usa e l’1,47 dell’Europa. Non è quindi la scelta di dedizione alla famiglia e alla cura dei figli che può spiegare la scarsa partecipazione al mondo del lavoro.
Tra le cinque barriere all’avanzamento di carriera rilevate negli Usa vi sono nell’ordine: gli stereotipi e i preconcetti sulle capacità e i ruoli delle donne, l’assenza di modelli femminili di successo di riferimento, la scarsa esperienza in ruoli di leadership di linea, l’impegno familiare, le responsabilità personali e, infine, l’assenza di “mentoring”.
Ma vediamo la formazione scolastica: le donne italiane da anni hanno superato per istruzione e performance scolastica gli uomini. Su mille donne con licenza media 694 conseguono la maturità, mentre fra gli uomini solo 566.
All’università le donne non solo rappresentano il 56% del totale ma, soprattutto, conseguono risultati migliori. E il 55% dei laureati con votazioni superiori al 106/110 sono donne. Le donne che si laureano con 110 e lode sono il 26,9%, gli uomini il 17,7 per cento. E il fenomeno non riguarda solo le facoltà tradizionalmente considerate più “femminili”: tra i laureati in ingegneria che conseguono 110 e lode il 24,8% sono donne, contro il 13,6% degli uomini.
I dati sembrano quindi indicarci che risorse femminili eccellenti si formano nelle nostre scuole, anche in facoltà scientifiche cruciali per il sistema economico, ma non si canalizzano in occupazione produttiva che salga man mano nella gerarchia e nella qualificazione aziendale.
Che cosa significa questa perdita per il Paese? Qui le osservazioni possono essere di due tipi. Dal punto di vista sociale e politico è evidente che le pari opportunità sono lontane dall’essere state raggiunte.
Ma per restare su un piano puramente economico, la perdita, non è da meno: le risorse femminili rappresentano un pool di competenze che potrebbe fare una differenza per molte aziende e istituzioni. Questo lo hanno già capito molte società multinazionali che hanno attivato da anni veri e propri programmi di qualità per le proprie risorse umane e soprattutto per i cosiddetti high potentials. Si tratta però di aziende straniere, che adattano in Italia programmi legati alla consapevolezza del valore della leadership al femminile su input delle sedi centrali che hanno maturato esperienze simili all’estero. In Italia, invece, solo pochissime aziende stanno timidamente iniziando i primi passi in questa direzione. Negli Usa la valorizzazione delle diversità, in particolare quella di genere, rappresenta da anni una leva competitiva che le aziende promuovono attivamente con una serie di iniziative mirate ad aumentare la presenza femminile nel management e a valorizzarne la leadership.
In un contesto competitivo in cui l’eccellenza e il capitale umano rappresentano fattori cruciali di innovazione e crescita, la diversità viene vista come un fattore fondamentale di successo.
Autorevoli ricerche americane hanno dimostrato che le società con la più alta percentuale di donne al vertice hanno prodotto risultati finanziari migliori del 35% sul return on equity (Roe) e del 34% sul return to shareholders (Trs), per non contare i benefici intangibili per tutti gli stakeholders.
Purtroppo, di tutto ciò in Italia si parla molto poco e per lo più in ristretti circoli frequentati da aziende multinazionali e da poche donne manager che vivono sulla loro pelle la difficoltà di emergere.
Forse un motivo della nostra disattenzione per le eccellenze femminili risiede nella scarsa cultura del merito del Paese? La logica della cooptazione, il permanere di strutture fortemente gerarchiche, la responsabilità gestita come occupazione ed esercizio di potere mal si combinano con la competenza, il merito e il desiderio di crescere e mettersi in gioco.
Forse una maggiore presenza di donne nelle nostre organizzazioni e nel loro management potrebbe favorire la rimozione di queste consolidate sclerosi e iniettare una cultura del fare più innovativa e orientata ai risultati, contribuendo in tal modo a quel cambiamento di cui tutti avvertiamo un impellente bisogno.
Anche molti Governi hanno fatto della maggior partecipazione femminile al lavoro e alla politica un obiettivo nazionale. In Europa l’attenzione al tema è molto più viva e infatti l’agenda di Lisbona prevede tra gli obiettivi dell’Italia il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60 per cento.
Si tratta di un traguardo già perso, ma che dovrebbe spingere i nostri leader quanto meno ad affrontare con sistematicità le sfide che tale obiettivo richiama.
*Direttore generale Standard&Poor’s
**Presidente D’Antona&Partners