3 Febbraio 2005
l'Unità

Lavoro, una vittoria delle donne

Donata Gottardi

Il Governo o, meglio, il Ministero del lavoro ha ritirato il decreto sul contratto di inserimento che avrebbe sancito l’inserimento delle donne italiane tra le categorie di svantaggio sociale.
La ragione ha prevalso. La ragione intesa come rispetto delle regole fondamentali dell’ordinamento giuridico.
Certo il modo in cui si è venuti a conoscenza del decreto – pubblicato sul sito Internet del Ministero senza nemmeno avvertire che doveva ancora essere completato l’iter della sua approvazione – e in cui si è comunicato il ritiro – un articolo di Tiraboschi sul Sole 24 ore del 5 gennaio – dichiarano in pieno una tecnica di comunicazione che, formalmente adottata per essere più vicina agli utenti, porta il segno dell’insofferenza verso le procedure di approvazione delle norme.
Il ritiro del decreto, stando alle dichiarazioni di Tiraboschi, è avvenuto per “ragioni di opportunità «politica», più che vere e proprie considerazioni di merito sulla reale portata del decreto”.
Possiamo essere soddisfatti – e ancora più soddisfatte – del risultato. Abbiamo evitato una ferita profonda al principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori e un danno alle imprese, su cui sarebbero ricadute le conseguenze delle pronunce di incostituzionalità della Corte nazionale e quelle della Corte di giustizia europea.
E non importa nemmeno se tutto questo viene attribuito ai condizionamenti di “un astratto formalismo e alle ambigue logiche del politicamente corretto”. È sempre difficile ammettere le sconfitte ed è diventato normale reagire con roboanti dichiarazioni di incomprensione.
Ci si potrebbe fermare qui se non fosse per il richiamo a “tabù da spezzare” e se non fosse per il rischio di manipolazione e di esautorazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, che sono diventati tali anche per l’ordinamento europeo. Preoccupa anche che il Sole 24 ore non ospiti il diverso punto di vista soprattutto di chi ha sollevato da subito la questione.
Purtroppo oggi appare chiaro dall’intera vicenda del contratto di inserimento per le donne che si sta perdendo coscienza della linea di demarcazione che separa il regime degli aiuti all’occupazione (e quindi degli aiuti di Stato) dalla tutela della parità tra donna e uomo. Eppure la vicenda dei contratti di formazione e lavoro, precedente diretto dei contratti di inserimento, avrebbe dovuto consigliare qualcosa di meglio di un fallace contratto a termine stipulabile con ogni donna in Italia con relativo sottoinquadramento – certamente non obbligatorio, ci mancherebbe altro – fino a due livelli retributivi.
Gli “interessi delle donne in carne ed ossa” non vengono sacrificati dal principio di parità. È l’opposto. Vengono difesi dal rispetto del principio di parità, che nel corso degli ultimi quindici anni si è evoluto nel principio di parità di opportunità.
Non ci si difende con la competizione al ribasso. Tutti ormai siamo consapevoli che la concorrenza dei paesi emergenti non si batte risparmiando sui costi. Nessun ribasso potrebbe mai bastare. Per essere competitivi occorre qualità e innovazione e un modello sociale fondato sull’equilibrio di diritti e doveri. E le donne possono portare vantaggi enormi al sistema se si progetta un’organizzazione del lavoro inclusiva e compatibile, se si attuano politiche di conciliazione tra vita professionale e vita familiare, compresi gli strumenti di redistribuzione dei ruoli.
Il diritto del lavoro ha sempre saputo evolversi, magari con lentezza; ma non si risolvono i problemi cercando di cancellarne principi e fondamenti, erigendo totem propiziatori all’incremento del tasso di occupazione, di qualsiasi occupazione si tratti (basta un’ora alla settimana per essere occupati).
Per cambiare bisogna conoscere. Ignorare principi fondamentali come quello della parità tra donne e uomini e le tecniche normative per la sua attuazione non aiuta. Le forzature e le inversioni di marcia ancora non pagano.
Non è scoperta recente quella del divario occupazionale. Ed è anche per questo che sono state adottate leggi che prevedono organismi e strumenti di azione positiva. La soluzione non sta nel cancellarli o sterilizzarli, ma, al contrario, nel renderli finalmente efficaci. Bisogna prendere sul serio la questione femminile.

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