Alberto Leiss
E se il conflitto prossimo venturo, nell’universo del lavoro, fosse quello tra donne e uomini, più che il tradizionale – peraltro assopito, rimosso, o apertamente negato – tra dipendenti e “padroni”, insomma tra le classi? A sostenerlo, sulla base di un lavoro di riflessione, ricerca e discussione aperto da quasi otto anni in un gruppo “ad hoc” è Lia Cigarini, esponente storica della Libreria delle donne di Milano, quindi di un filone determinante del -femminismo italiano. In un breve saggio che apparirà sul prossimo numero della rivista “Democrazia e diritto” (interamente dedicato al lavoro), Cigarini parte dall’avvenuta femminilizzazione del mercato del lavoro nei punti più alti dello sviluppo in occidente. Se in America due terzi delle nuove imprese sociali sono prevalentemente femminili, in Europa sono quasi la metà. Anche nella più “arretrata” Italia le nuove occasioni di lavoro – sia autonomo, sia dipendente sono a prevalenza o a forte presenza femminile, soprattutto nelle aree del Nord. Ma non si tratta di un dato solo quantitativo.
Molti racconti dal mondo delle donne che lavorano, e alcune ricerche, dicono che dopo la presa di coscienza femminile nel rapporto “privato” con l’altro sesso, una rivoluzione di portata simile a quella che ha sconvolto coppie e famiglie, stia covando nelle fabbriche e negli uffici.
Le donne rifiuterebbero la “misura” dominante e maschile del lavoro: maggior guadagno, carriera, competizione sfrenata. Cercano invece più agio, qualità e senso del lavoro, relazioni interpersonali più soddisfacenti, tempi più elastici. La predilezione per il part-time, la ricerca di mediazioni per tenere insieme tempo di vita e tempo di lavoro, la scelta di fare meno figli, sono altrettanti indizi di questa “differenza”.
“Non sto negando la fatica, lo sfruttamento e la sofferenza delle donne al lavoro”, avverte l’autrice, già bersaglio di critiche da parte di chi sottolinea gli aspetti di subalternità delle donne che cercano di accedere al mercato. “Ma chi applica meccanicamente le categorie della discriminazione, della marginalità, della disoccupazione”, non vede e non capisce che “questo è il cambiamento centrale della nostra società”.
La sofferenza delle donne, semmai, è dovuta al modo di lavorare dominato dal modello “maschile”, alienato, gerarchizzato e competitivo. Si spiega così il proliferare di piccole aziende, cooperative, associazioni di professioniste (avvocate, architette, consulenti ecc.) oppure di operatrici nei servizi di cura di maestre, comunque formate da sole donne o da qualche uomo che accetta l’avventura di un mondo per lui un po’ “alla rovescia”. Questa connotazione di un grande che cercano di reinserirsi nel mercato mutamento – chiamato post-fordismo o più recentemente “new economy” – fatto anche di grandi sofferenze, e di una crisi profonda degli strumenti sindacali della contrattazione collettiva, e di gran parte dell’armatura normativa del mercato del lavoro, è stato al centro di un convegno organizzato l’altro ieri a Verona. Per iniziativa, non a caso, di una cooperativa gestita da donne, la Mag (Società Mutua per l’Autogestione) nata nel ’78 e “erede” di una storia che risale alle prime società di mutuo soccorso della seconda metà dell’800. Attorno alla Mag sono cresciute in questi anni 250 altre imprese “non a scopo di lucro” nel campo dei servizi, dell’agricoltura, e anche in qualche caso industriale. Ragazze molto giovani di associazioni “Onlus” come “Le fate” o “Stanze diverse”, che si occupano di bambini bisognosi di assistenza educativa, in gran parte figli di immigrati. Donne mature – è il caso, della “Davas” di Verona – che cercano di reinserirsi nel mercato offrendo servizi alle famiglie (“E’ stato un boom.. “). Ma anche cooperative come la “8 marzo”: dalla fine degli anni ’70 impegnata in un difficile recupero di terre incolte, oggi tenta la strada dell’agriturismo (qui metà sono donne, metà, uomini), o come quella coop metalmeccanica che ha aumentato da 20 a 64 i propri soci lavoratori grazie all’autoinvestimento iniziale e al coraggio di separarsi da un “padroncino” con cui non si andava d’accordo (qui le donne sono solo 7). C’è anche una signora nigeriana – molto applaudita – che parla della cooperativa “Extra-donna”: alcune immigrate che si sono messe insieme per offrire “pulizie e facchinaggio”, poi si sono accorte di essere state anche insegnanti nella loro Africa e sono riuscite ad avere dal comune una stanza (che sicuramente sarà tenuta “pulita”…). Dove insegnare ai figli di africani nati in Italia qual è la loro cultura di origine.
Tutte storie sorrette da una forte “ricerca di senso” nel lavoro, fatte di sacrifici economici, di soddisfazione, ma anche di difficoltà e fallimenti. Sorprende – anche qui – una generale richiesta di “flessibilità”.
Ecco la scommessa di questo discorso: che la femminilizzazione e l’autonomizzazione del lavoro producano una nuova leva per la ricerca di libertà e di minore alienazione, anche attraverso nuove forme di autorganizzazione e di autotutela. “Se il tempo di lavoro è tempo di vita – dice Loredana Aldegheri, della Mag, riprendendo l’analisi di Lia Cigarini gli affetti le relazioni, la loro qualità, entrano decisamente nell’ambito del lavoro. Allora la qualità del lavoro dipende dalla qualità delle relazioni”. Relazioni anche conflittuali, ma secondo quel modello di conflitto che si attribuisce alle donne, non “distruittivo” nei confronti dell’altro. Una possibile via di reazione “molecolare”, qui e ora, agli effetti negativi di quella “necessità” capitalistica globale che sarebbe illusorio negare, o pensare di sovvertire – come ha dimostrato la storia – per via “statale”.