Rosanna Santonocito
In Italia solo il 45,2% delle donne lavora. Nell’Europa dei 15 le occupate sono il 56,7%, un tasso inferiore dii5 punti a quello maschile. In Svezia il tasso è del 71%, in Germania circa il 60, mentre la Francia tiene il passo dell’Europa con il 56,6% di lavoratrici. Secondo i più recenti dati dell’Ocse (relativi al 2004) anche la Spagna ci supera di quattro punti percentuali. Allo scarto del dato italiano rispetto a tutti i Paesi Uè – eccettuata la Grecia – si aggiunge anche la distanza rispetto all’obiettivo del 60% di donne italiane con un lavoro dettato da Lisbona, da raggiungere entro il 2010.
Le ragioni di un ritardo che non si recupera stanno nella scarsa “accoglienza sociale” – è la definizione della sociologa Marina Piazza di Gender – che il lavoro delle donne trova nel nostro Paese. Difficile è conquistarlo e più difficile ancora mantenerlo. Pesano culture aziendali, orari e tempi che, dentro e fuori dalle organizzazioni, non tengono conto del doppio impegno impiego-famiglia, carriera ardua e retribuzioni più basse. E se non c’è un solo fattore responsabile non ci può essere nemmeno una soluzione unica. “È necessaria – suggerisce Marina Piazza – una trasversalità delle analisi e delle politiche”. Significa che, per far crescere il tasso delle italiane occupate e farcela a tagliare il traguardo del 60% servono più risposte e su più campi d’azione: la formazione, i tempi dentro e fuori al lavoro, le politiche, il modo in cui ruoli e compiti sono vissuti da donne e uomini.
Poche donne lavorano? Nemmeno questo è vero: le italiane attive sono molte di più dei quelle che le statistiche registrano. Il lavoro delle donne è ancora, in molti casi, nascosto o irregolare. “Gli studi sul sommerso di- cono che gran parte di esso riguarda manodopera femminile” commenta la sociologa.
Le donne sono più presenti nei lavori atipici (come le co.co.co), che riguardano la fascia delle più giovani. La flessibilità delle forme contrattuali si scontra invece con una rigidità persistente dell’organizzazione delle città e dei servizi. Anche la flessibilità “amica” del part time è scarsamente praticata: “se ne fa poco, riguarda solo il 12% di cui il 25% sono le donne, mentre l’alta percentuale di lavoro a tempo parziale è l’elemento che fa alzare i tassi altrove: un esempio è il 25% dell’Olanda”, aggiunge Marina Piazza. L’accoglienza sociale verso la volontà di lavorare delle donne interferisce soprattutto sul- la quota di madri attive. Entro il primo anno di vita del figlio, esaurite le possibilità dei congedi di legge, con difficoltà ad accedere al part time, senza la disponibilità di asili nido o in mancanza di nonni collaborativi “il 29% delle madri, abbandona il lavoro, e questo accade soprat- tutto nelle basse qualifiche. Al contrario, i Paesi europei dove nascono più bambini hanno anche tassi più alti di occupazione femminile”. Il paradosso “meno lavoro uguale meno figli” appare confermato anche dall’ultimo dato Istat secondo cui anche regioni del sud come Campania e in Sardegna evidenziano tassi di natalità in discesa. Ai livelli professionali alti, sul lavoro femminile pesa la mancata gratificazione della carriera e della retribuzione. Più si avanza nella scala aziendale, più la differenza tra le retribuzioni di uomini e donne (che in media è del 20%) aumenta, a scapito, naturalmente, delle seconde. “Se ai livelli bassi i con- tratti proteggono – spiega l’esperta – avanzando nella gerarchia, scelte come quella del part time o del congedo parentale rallentano la carriera. Chi investe sulla professione deve farlo “bilanciando” sulla famiglia, perché in Italia il lavoro di cura pesa molto di più che negli altri Paesi europei e c’è l’idea che, in fondo, i figli siano un problema solo nostro”. E una questione di cultura che rischia di perpe- tuarsi senza interventi appro- priati: siamo l’unico Paese, suggerisce la sociologa, dove non si fanno campagne di opinione sulla condivisione del lavoro in casa e l’identità di genere. Uomini e donnne restano schiacciati sui propri ruoli tradi- zionali, anche se qualcosa si è mosso almeno dal punto di vista dell’identità e della formazione. L’occupazione femminile si alza in relazione all’istruzione: più le donne sono istruite e qualificate più facilmente trovano lavoro. Solo nella fascia oltre i 40 anni le donne sono leg- germente inferiori agli uomini per scolarizzazione, non tra i diplomati e i laureati. “Nelle fasce di età più giovani, quella tra i 25 e i 40 anni, la partecipazione al lavoro – nota Marina Piazza – è molto più rilevante rispetto alle generazioni precedenti, e non siamo inferiori alla media europea. La precentuale del 42,5% è data in realtà dalle donne oltre i 45-50 anni che scontano il fatto di essere meno scolarizzate e di avere radicata una cultura della “casalinghità”. Ma, in generale le italiane han- no identità personali ben stabi- lizzate sui due pilastri lavoro e vita familiare, ed è una via sen- za ritorno”.