26 Novembre 2015

Se Marx avesse capito

Contributo al convegno “I ritorni di Marx”, Alessandria 22-24 ottobre 2015

info: www.fondazioneluigilongo.it

di Lia Cigarini

 

Il mio personale ritorno a Marx mai rinnegato ma non più frequentato da decenni, è stato mediato da alcuni testi della filosofa francese Simone Weil, quelli che ha scritto nel periodo 1933/1943, su Marx, il marxismo e i paesi e i movimenti comunisti internazionali, recentemente pubblicati dall’Editore Orthotes di Napoli con il titolo Oppressione e libertà, con una breve introduzione di Luisa Muraro e mia.

Dico subito che per me la priorità è l’agire politico al tempo presente. E quindi guardare a Marx con questa urgenza e questa passione, la stessa urgenza che mi ha portato a leggere gli scritti marxisti di S.W., scoprendo l’attualità della sua figura.

Fra Gramsci e S.W. esistono affinità che qui non possiamo tacere. Questo libro, infatti, raccoglie gli scritti di S.W. militante nel movimento operaio e commentatrice critica di Marx e del marxismo, titoli che lei ha in comune con lui. Entrambi sono morti piuttosto giovani, senza avere notizia l’uno dell’altra, lui all’età di quarantasei anni, dopo undici di carcere fascista, inclusi i quattro della malattia che mise fine alla sua esistenza nel 1937; lei morì nel 1943, all’età di trentaquattro anni, dopo una breve malattia senza nome. Erano corpi fragili, abitati da un’intelligenza superlativa e dalla passione politica. Che hanno investito nella lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione, entrambi mettendosi dalla parte di masse cui mancava la voce e spesso anche la consapevolezza delle proprie ragioni. Il loro intento non fu soltanto di dare voce e argomenti all’umanità perdente nei rapporti di forza ma anche di orientarla nella sua interezza di oppressori e oppressi, con l’amore della giustizia e lo spirito della verità. Hanno praticato il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà. Sono autori di opere in parte postume che, nel titolo con cui le conosciamo, Quaderni, ricordano le circostanze della loro origine di pensieri annotati su quaderni in vista di opere future. Infatti furono attivamente presenti nelle contingenze del loro tempo. L’uno e l’altra non hanno mai rinunciato ad abitare il futuro.

Per Simone Weil Marx è stato il primo «ad avere il duplice pensiero di considerare la società come fatto umano fondamentale e di studiarvi, come il fisico fa per la materia, i rapporti di forza». È il primo a intuire che lo Stato “macchina annientatrice” di esseri umani non può cessare di annientare finché è in funzione, «in qualsiasi mani esso sia».

Gli riconosce, inoltre, il merito filosofico di avere posto correttamente la questione del rapporto tra soggetto ed oggetto. Infatti nelle tesi su Feuerbach e nell’Ideologia tedesca, sottolinea Simone Weil, Marx sostiene che nel capitalismo avviene la totale subordinazione del soggetto all’oggetto, vale a dire del lavoratore alle condizioni materiali del lavoro.

Queste affermazioni, sostiene Simone Weil, non possono avere altro senso che quello di restituire al soggetto pensante il vero rapporto che ha o dovrebbe avere con la materia. E aggiunge: «non è affatto sorprendente che il partito bolscevico, la cui organizzazione stessa ha sempre poggiato sulla subordinazione dell’individuo, una volta al potere, doveva finire per asservire il lavoratore alla macchina tanto quanto il capitalismo».

Che i lavoratori siano soggetti attivi e parlanti in prima persona, infatti, è il senso ultimo dell’impegno militante di Weil e secondo Weil, dovrebbe essere quello del socialismo.

Tra i punti di disaccordo con Marx e con il marxismo, mi interessa presentarne due.

Alla dottrina di Marx Weil imputa ripetutamente una contraddizione che inficia la previsione “scientifica” di un esito rivoluzionario. Avendo teorizzato il primato della forza e avendo fatto del capitalismo un sistema che opprime senza scampo, Marx pretendeva che un proletariato senza forze fosse destinato a rivoluzionare l’intero sistema e ad assumere il comando. Un sogno. Voleva essere scientifico, ma, vinto forse dalla sua stessa ansia di giustizia sociale, suppone Weil, diventa un idealista utopico.

Un’altra critica che muove a Marx come ai marxisti è l’aver scelto l’economia come chiave dell’enigma sociale della sottomissione del numero più grande ai pochi detentori del potere.

La si trova nel testo Meditazione sull’obbedienza e sulla libertà dove Weil cita anche La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria. Weil scrive «colui che obbedisce, colui i cui movimenti, le cui pene, i cui piaceri, sono determinati dalla parola altrui si sente inferiore non per caso ma per natura» ed è da questa acuta constatazione di ordine simbolico, la «parola altrui», che viene l’apertura: è sovversivo tutto ciò che contribuisce a dare agli oppressi «il sentimento del proprio valore».

Questa considerazione di S.W. è estremamente attuale perché su questo fa leva efficacemente il neo-liberalismo, la valorizzazione dell’individuo assoluto, il mito dell’autosufficienza dell’individuo, l’autoimprenditorialità, il consumo come promessa di perpetuo godimento, eccetera. Penso si debba ripartire da questo nodo che era vero nel ’500, nel ’900 e oggi in maniera inedita, cioè, l’intreccio di oppressione, asservimento, libertà.

In Weil c’è anche la profonda intuizione sulla potenza del simbolico (“la parola altrui”) che ritroviamo al principio della seconda ondata femminista che parte proprio dall’enigma secolare della sottomissione delle donne.

Mi riferisco al femminismo non adulterato a differenza di quello che corre nei media, in parte dell’opinione pubblica e purtroppo anche nel pensiero di uomini intellettuali e politici. Vale a dire rivendicazione di parità, quote negli organismi istituzionali. Insomma il cosiddetto femminismo di Stato.

Nel femminismo concepito negli anni ’60 e attivo negli anni ’70 ma vivo fino ai nostri giorni, veniva e viene al primo posto la necessità di costituire un senso libero dell’“essere donna”. Le donne nel patriarcato erano disperse, prese in considerazione una per una, definite e rappresentate dal pensiero e dall’immaginario maschile, complementari alla sessualità maschile. Si trattava quindi di opporsi a una miseria simbolica. Non come atto mentale ma come una pratica di incontri, racconti da cui affiorava un “non detto” della cultura patriarcale ancora viva e presentissima in piena modernità e in piena rivoluzione giovanile. La via d’uscita non ce l’ha data il controllo attraverso l’organizzazione dell’insieme dei problemi delle donne, ma il formarsi di un linguaggio comune.

Perciò per importanza e riconoscibilità veniva al primo posto la pratica del partire da sé. Significa che la parola si usa e la politica si fa per cambiare il rapporto tra sé e sé e tra sé e l’altro da sé. In altre parole, la pratica del partire da sé impone di mettere bene in chiaro quello che lì si gioca dalla parte del soggetto. Per liberare le sue energie, spesso frenate da progetti sforzati. In questo modo è possibile tenersi disponibili alla realtà che cambia.

 

Oggi, per noi qui riuniti penso siano interessanti quelle interpretazioni di Marx, Gramsci, S.W., che possono aprire strade per quanto strette per l’agire politico. E quindi pensare a nuove forme politiche, quelle che auspicava Simone Weil nei suoi scritti, raccolti in traduzione italiana sotto il titolo Una Costituente per l’Europa.

Indico due strade, per imboccare le quali non si può non tenere conto del fatto che il mondo dopo 4000 anni di storia incomincia ad essere un mondo di donne e uomini.

La prima riguarda il concetto di libertà, la seconda il lavoro.

Riflettiamo per primo sul concetto di libertà che rimane l’impensato della sinistra, mentre e non per caso, il femminismo italiano ne fa un territorio privilegiato sia in teoria che in politica. Cioè sono le donne in lotta per la loro libertà che hanno elaborato pratiche di presa di coscienza di sé e capacità di avere relazioni con le proprie simili per avere una misura di sé così spezzando la “servitù volontaria del domestico”. Quindi si pongono e manifestano già come soggetti politici complessi. Questo, a mio giudizio, è il problema che abbiamo di fronte. Pensare una politica di soggetti complessi. Ritornerò meglio su questo punto parlando del lavoro.

S.W. lo aveva intuito senza mettersi davanti l’oppressione femminile. E si sforza di vedere anche in Marx la priorità del soggetto. Io integro e esplicito W.: il soggetto nella sua singolarità, irriducibile.

Non si tratta della concezione di libertà borghese, cioè una serie di diritti in capo ad un individuo, e neppure di quella del neo-liberalismo, bensì di libertà relazionale, perché le donne vivono un’esperienza di libertà che si basa sul riconoscimento della dipendenza tra i soggetti, vale a dire libertà che non è data una volta per tutte ma che si struttura nella interdipendenza tra gli esseri umani. Quando parliamo di interdipendenza tra gli esseri umani noi sappiamo che l’essere umano da quando nasce a quando muore, vive gradi diversi di libertà.

Perciò il desiderio individuale di libertà che l’ideologia marxista vede con sospetto è trasmigrato nel campo della destra e, paradossalmente, ha fatto sì che sia passato senza rivolta tra le più giovani generazioni l’imperativo del neo-liberalismo: diventa imprenditore di te stesso/a. Tale imperativo è stato sentito come una valorizzazione della soggettività personale. E questo nonostante il fatto che, come sappiamo, le nuove generazioni che si sono presentate negli ultimi due decenni nel mercato del lavoro siano nate e cresciute con i contratti da CO.CO.CO, tempo determinato, temporali, da interinale, da occasionale, con partite I.V.A. tanto che, e qui cito Sergio Bologna, «dall’orizzonte mentale di queste generazioni è scomparsa la parola “negoziato”, per loro il lavoro è quello che ti viene offerto, se ti va bene ok, se non ti va bene c’è un altro pronto a prendere il tuo posto, anche a condizioni peggiori. Non sono analfabeti, sono le generazioni più scolarizzate della storia italiana». Tuttavia, dice ancora Bologna: «lo sfruttamento del lavoro intellettuale e delle professioni tecniche sta superando i limiti di tollerabilità nel silenzio prima di tutto dei diretti interessati, ormai intimoriti e rassegnati, convinti che accettare qualunque condizione sia l’unico modo per entrare nel mercato del lavoro, convinti che la protesta sul luogo di lavoro sia sinonimo di uscita dal mercato».

 

Lavoro

I guadagni fatti dal movimento femminista e anticipati da Weil sulla produzione di libertà a partire da sé ma in chiave relazionale non individualistica, si rilevano essere una possibile risposta agli interrogativi dell’estrema sofferenza del mondo del lavoro.

S.W. è molto attuale quando dice che «bisogna costruire una filosofia del lavoro andando oltre Marx» che l’aveva abbozzata. Essa infatti scrive: «I padroni non concepiscono che due maniere di rendere felici i loro operai: o elevarne il salario o dir loro che sono felici e allontanare quei cattivi dei comunisti che assicurano loro il contrario. Essi non possono comprendere che, da una parte, la felicità di un operaio consiste soprattutto in una certa disposizione di spirito nei confronti del suo lavoro; e che, dall’altra, questa disposizione di spirito può comparire solo quando si sono realizzate certe condizioni oggettive, impossibili da conoscere senza un serio studio. Questa duplice verità convenientemente trasportata, è la chiave di tutti i problemi pratici della vita umana».

Questa è una condizione su cui S.W. insiste molto e su cui ha da dire per esperienza in prima persona (il lavoro in fabbrica). Dice per esempio di non separare mai pensiero e azione (il sapere di chi lavora sul proprio lavoro) e che «bisognerebbe far nascere un’università accanto ad ogni fabbrica…».

Tutto ciò è molto attuale perché i giovani, soprattutto le giovani donne, misurano il lavoro oltre che sul denaro, sul tempo e sul senso.

Oggi questo discorso è molto più radicale e complesso perché le donne hanno messo in discussione la divisione sessuale del lavoro. Qui cito Giordana Masotto che nel libro Femminile e maschile nel lavoro e nel diritto. Una narrazione differente, EDS 2015, scrive: «Perché nel 2009 abbiamo scritto il Manifesto Immagina che il lavoro? per mettere in discussione alla radice l’organizzazione del lavoro e le regole del mercato portando alla luce un punto di vista di donne sull’economia e sul lavoro. E per trovar un agire politico adeguato a tali scopi. Per portare dunque all’ordine del giorno un tema: il rapporto tra ordine (simbolico e patriarcale) e divisione sessuale del lavoro.

In Occidente la specifica forma che la divisione del lavoro tra i sessi ha assunto e confermato questa impostazione simbolica, istituendo la sfera del lavoro salariato “produttivo” come sfera maschile e quella domestica “non produttiva” come sfera femminile. E ha anche ordinato simbolicamente i lavori maschili e femminili nel mercato secondo un simile ordine gerarchico (segregazione verticale e orizzontale). Da qui alla messa in discussione della divisione sessuale del lavoro il processo di cambiamento è più lungo e complesso e tuttora in corso. Dopo mezzo secolo di aumento della partecipazione femminile al lavoro retribuito […] il tema più generale della divisione sessuale del lavoro continua a riproporsi come campo di confronto aperto tra uomini e donne, fino a rimettere in questione alla radice la separazione simbolica, istituzionale e normativa tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra lavoro per il mercato e lavoro domestico di cura […]. Sosteniamo che la regolazione dell’uno non può avvenire senza ridiscussione dell’altro: affermiamo che non vogliamo più sentire parlare di lavoro, tempi e organizzazione del lavoro, welfare e crescita – e nemmeno di lotte di lavoratori – senza riconoscere che il lavoro di cura è componente strutturale di tutto il lavoro necessario per vivere». Questo è un concetto teorico nuovo che proponiamo all’attenzione dell’economia e della filosofia. Attualmente fuori dai calcoli statistici, il lavoro domestico e di manutenzione della esistenza umana resta una mole enorme di lavoro: in tutte le economie avanzate, compresi i paesi nordici, occupa un numero di ore superiore a quelle dedicate al lavoro pagato.

Questo tipo di lavoro non è eliminabile, anzi aumenterà.

A partire da questo punto di vista, e sollecitate anche da una crisi che svela sempre di più l’insensatezza oltre che l’ingiustizia dei discorsi e delle politiche ricorrenti, possiamo delineare una prospettiva inedita: quella di liberare tutto il lavoro di tutte e tutti ridefinendone priorità, tempi, modi, oggetti, valore/reddito e rimettendo al centro le persone, nella loro vitale, necessaria variabile interdipendenza lungo tutto l’arco dell’esistenza e avendo a cuore, con il pianeta, le persone che verranno.

S.W. a questo proposito scrive: «È necessario mettere al centro il lavoro concepito come attività suprema dell’essere umano».

Giorgio Lunghini, inoltre, in un articolo pubblicato sul Manifesto (15/6/2013) si avvicina al punto di vista delle donne sul lavoro quando afferma: «Non si tratta di uscire dal capitalismo ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non si pagano […], una terra abitata dalle tante attività che non sono mosse dall’obbiettivo del profitto […], la terra del lavoro concreto, del valore d’uso […], principalmente lavori di cura in senso lato delle persone e della natura».

Apprezzo il testo di Lunghini non solo per quello che dice sui lavori concreti, ma anche perché inserisce il lavoro di riproduzione e manutenzione dell’esistenza umana e della natura in un quadro economico più generale. Infatti sottolinea: «I valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici […], poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto».

Sottolineo però, un po’ polemicamente, che la terra di nessuno di cui parla Lunghini è in realtà una terra che le donne conoscono bene per averla percorsa palmo a palmo, coltivata e arricchita da secoli.

Invece, anche i più acuti osservatori delle dinamiche sociali, economiche e politiche, come Lunghini, si ostinano a non registrare a livello di paradigmi cognitivi l’esperienza umana delle donne che viene sussunta nel maschile: la sussunzione delle intere vite non è evidentemente appannaggio solo del neoliberismo.

È vero che le disuguaglianze sono aumentate e continueranno ad aumentare ma non possiamo affrontare il tema delle disuguaglianze e, quindi, della lotta politica per eliminarle, facendo finta che i soggetti politici siano quelli del secolo scorso. In realtà sono molto più complessi. In essi infatti si intrecciano radicalmente vita e lavoro. Ed essi, come abbiamo visto, tendono a non delegare a un partito né a un sindacato, ma sono forse disponibili a partecipare in misura mobile e variabile alle lotte del lavoro e soprattutto a dire la loro su che cosa sono oggi un buon lavoro e una buona vita. Non si tratta più dunque di ripensare il soggetto politico solo come soggetto collettivo in senso classico. Si tratta di ripensare una conflittualità a misura dei nuovi soggetti nella consapevolezza che sono vite di singoli tra loro in relazione e che i segmenti della vita del singolo o singola sono tra loro connessi.

L’Agorà del lavoro di Milano era ed è un tentativo di pensare il lavoro in questo senso.

Se la libertà non è quella liberale ma quella relazionale, vuol dire che è una libertà complessa. Mentre il paradigma dell’uguaglianza ci proietta in un mondo in sostanza già pensato (giustizia, socialismo, comunismo), la libertà che le donne mettono in campo non è conclusa ma in divenire: il conflitto tra i due sessi è dinamico.

Noi ci stiamo pensando ma se gli uomini a loro volta non lo fanno, in specifico, se non pensano al rapporto tra produzione e riproduzione, continuano a mancarci mediazioni necessarie.

Che cosa intendo dicendo che devono fare la loro parte? Prendere consapevolezza della parzialità di tanti punti di vista che però tutti esprimono l’esperienza e il sapere di uomini più che di donne. Darci una risposta sul concetto di tutto il lavoro necessario per vivere, cioè prestare attenzione al pensiero delle donne. E mettere fine ad una storia che non sta andando niente bene con riferimento alla politica e all’economia.

(www.libreriadelledonne.it 26/11/2015)

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