5 Giugno 2015
www.lavoroculturale.org

Ripartire da casa

di Anna Simone

 

Se si potessero usare i testi sul lavoro come fonte documentale di una ricerca sociologica l’esito qualitativo sarebbe scontato: v’è un abisso narrativo tra il “modo” femminile di raccontare il lavoro come fatto sociale e come esperienza individuale oggi e il “modo” maschile. La prima cosa da dire sul volume di Sandra Burchi Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico è proprio questa. La sua è una narrazione posizionata sull’empirismo dell’esperienza di dieci donne che prima intervista e poi trasforma in storie, biografie, che si incistano con il processo di de-standardizzazione del lavoro e con le variabili del fenomeno – lo spazio, il tempo – senza mai scinderle. Corpo, esperienza e grandi mutamenti di scala, ovvero una sola narrazione complessa e caleidoscopica. E un fenomeno ancora poco analizzato e studiato: quello del lavoro da casa. La casa, come fa presente anche l’autrice, è stato il primo spazio da cui fuggire per tutte quelle donne che durante il momento clou dell’emancipazionismo rifiutavano la “natura” come destino e mezzo del lavoro domestico, la famosa condizione di “casalinga”.

Ma cosa accade quando la scomposizione del lavoro, dei processi produttivi e di una forma di organizzazione sociale come quella nata dal fordismo si sfaldano progressivamente “riportandoti” a lavorare da casa e non solo a casa come prevedeva il solo orizzonte basato sul nesso casa, dunque lavoro domestico, dunque “casalinga”? La casa, in questo libro, torna a essere quasi un orizzonte di libertà risignificata, uno spazio che sancisce una nuova partitura del dentro/fuori, del lavoro, della costituzione delle soggettività all’interno di un gioco continuo di rimandi che prevede una nuova organizzazione dello spazio, una nuova postura del corpo, una ricerca continua di strumenti di misurazione del tempo dedicato al lavoro da casa e quello da dedicare alla casa, a sé, alle relazioni. In altre parole un vero e proprio “rovescio” della narrazione classica della casa del primo patriarcato.

Le definizioni di questi nuovi lavori, soprattutto determinati dal proliferare del “lavoro autonomo” di seconda e terza generazione sono in sé evocative. Burchi parla di «lavoro agile», di un «lavorare diversamente», di «reti» di relazioni e, riferendosi allo spazio che ospita tali messe al lavoro del corpo femminile, di «nomadismo casalingo» ovvero di quel rapporto costante che intercorre tra lavoro propriamente domestico e lavoro fatto per sé e per altri che sono “fuori” da quello stesso spazio, ma anche nomadismo nel senso di costruzione di spazi piccoli dediti al lavoro, nello spazio più grande della propria casa. Le dieci storie che Burchi riporta sono tutte molto interessanti e possono funzionare bene come specchio per tutte quelle altre donne che vivono esperienze simili. Anzi potremmo dire che costituiscono una vera e propria bussola di limiti, espansioni, contraddizioni, misure e dismisure, forme varie di un equilibrio possibile. Ci sono lavoratrici più prossime all’arcipelago classico del lavoro autonomo “prestazionale” come giornaliste, grafiche, progettiste, cooperanti, e lavoratrici più propriamente legate al lavoro manuale e materiale come chi si fa una serra nel proprio podere e poi commercializza le erbe, chi restaura mobili, sino a lavoratrici altamente creative come le interior designer. La costante è che lo spazio terzo, oltre a quello della casa e delle reti di relazioni, è rappresentato dalla dimensione virtuale del web. Uno spazio fondamentale che ridisegna la vita quotidiana di ciascuna.

Ciò che colpisce è che quasi tutte le storie ricostruite e risignificate con gli strumenti concettuali propri della letteratura femminista contemporanea non vivono questa condizione con grande disagio, ma provano ogni giorno a studiare e capire che nesso possa esservi tra “prestazione” e desiderio di fare il lavoro che si è scelto, nello spazio che si è scelto. Tuttavia, al di là di questa risignificazione dello spazio e del tempo a partire da queste forme di lavoro autonomo, ciò che balza agli occhi come vero elemento di interesse per chi legge questo libro è il superamento della dicotomia lavoro materiale/lavoro immateriale. Gran parte della letteratura sul lavoro scritta da uomini negli ultimi decenni tende a porre sempre l’accento su questa dicotomia considerando il lavoro immateriale, il knowledge worker, la vera nuova frontiera del postfordismo e del cosiddetto capitalismo cognitivo. Burchi, scegliendo di dare rilievo a entrambe le forme di lavoro, scombina questo finto gioco “avanguardista” e dimostra – senza entrare nella polemica – che se prendiamo in considerazione le storie, la materialità delle esperienze, i fatti si complicano al punto tale da non potersi trasformare in una teoria astratta. E a ragione, perché se c’è un elemento di riflessione che scaturisce oggi da un tipo di economia prevalentemente basata sulla riproduzione (economia della conoscenza e dei servizi), anziché solo sulla mera produzione è proprio la fine di questa dicotomia. La religione del multitasking, infatti, prevede che si sappia fare “tutto”, che vi sia uno spirito di adattamento tale da rompere definitivamente ogni tipo di categoria. Così come oggi potrebbe apparire desueto interrogarci su quanto c’è di concettuale – come si diceva un tempo –, di materiale e di immateriale in una forma di lavoro autonomo che parte dalla serra e finisce su internet. Nessuna partizione è possibile, ogni pezzo è dentro il caleidoscopio.

Un testo interessante, quindi, che sicuramente centra un tema e un elemento nuovo del lavoro contemporaneo assai poco battuto, che a sua volta, però, lascia qualche dubbio. Almeno a me. Burchi attraversa il discorso critico della cosiddetta “femminilizzazione” del lavoro, così come si intravede qui e là una tensione sulla dimensione dei diritti mancati o della fatica da “equilibriste” del dover sempre tenere assieme tutto, però il tema dello sfruttamento, velato da una finta libertà e autonomia di cui si nutre la dimensione prestazionale del lavoro nell’era del neoliberismo, viene scandagliato assai poco oppure in molti casi viene rovesciato a proprio vantaggio. Sicuramente la forza dell’autrice e di queste donne sta proprio nella capacità di risignificare, rovesciare, ritessere, però io credo che il femminismo contemporaneo, pur partendo da lì, dovrebbe anche dotarsi di strumenti concettuali più grandi, critici, radicali, in grado di rovesciare le strategie di adattamento per pensare, invece, una nuova idea di economia e di lavoro. Qualcosa che stia definitivamente fuori dal “mercato”, dalla prestazione, dal “capitale umano e sociale” e da un desiderio che rischia sempre più di essere predeterminato da altri. Lo scacco vero, l’apparato di cattura per donne e uomini al fondo è proprio lì: nel modo in cui ci determinano il neoliberismo e la sua dimensione performativa di ordine prestazionale. E dunque come si fa a rovesciare quell’economia della riproduzione che ci rende tutte, come scriveva Nina Power, “donne-curriculum”, dentro e fuori casa?

 

(www.lavoroculturale.org, 20 febbraio 2015)

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