di Elisabetta Ambrosi
Ho trentanove anni, sono una giornalista, ho un figlio di quattro e sono una guerriera. Ogni giorno – e pure di notte – provo a tenere insieme un lavoro da inventare e difendere, un bambino da lavare-nutrire-vestire-educare- amare, la mia libertà e le mie passioni. Il tutto mentre la crisi morde e il welfare si sgretola.
Per anni ho pensato di essere scarsamente capace di lottare per il lavoro che desideravo senza dover rinunciare al resto. E ancor di più, dopo l’arrivo di un figlio-che-ti-cambia-la-vita, mi sono sentita a lungo in conflitto tra l’occupazione vigile e permanente sul fronte lavorativo – fare la giornalista in tempi di editoria in crisi e stravolgimenti tecnologici – e l’occupazione altrettanto vigile e permanente sul fronte bambino, con tutto il suo carico di bisogni: fisici (provate voi a tagliare le unghie a un piccolo maschio scatenato), emotivi (provate voi a cercare un ritmo il più possibile armonico tra la vostra presenza e assenza con lui sgusciando fuori casa al momento giusto e precipitandovi per tornare all’ora promessa), infine sociali (provate voi a scegliere la scuola giusta per un bambino, tra edifici cadenti e didattica prebellica).
Non ho mai rinunciato alla convinzione di poter fare un lavoro impegnativo con precisione, determinazione e persino allegria, e nel frattempo spupazzarmi uno o più bambini senza accettare compromessi al ribasso, nella felicità mia e altrui. Continuo a credere che tutto questo sia possibile, ma a prezzo – qui, nell’Italia di oggi – di una fatica doppia e di un logoramento direttamente proporzionale, oltre che al paese, anche alla città in cui si abita («Dimmi in che regione vivi e ti dirò che madre sarai»).
Ma è un’altra rivoluzione che questo libro vorrebbe raccontare: a un certo punto ho preso atto che tutta la fatica,il malessere e pure la frustrazione che io, e insieme a me un mucchio di donne là fuori, spesso proviamo, poco c’entrano con un fantomatico nostro problema interno, caratteriale, psicologico e tanti altri impalpabili aggettivi. Né c’entrano col fatto che siamo fatte male, sbagliate o tanto meno incapaci.
Così, per esempio, dovremmo capire che quando stiamo male dentro, o non sappiamo quali pesci prendere, non sempre serve chiamare lo psichiatra che prescriva un ansiolitico o un antidepressivo: basterebbe non perdere il lavoro nel momento in cui entriamo in ospedale a partorire o trovare un asilo colorato in cui viene proposta una didattica intelligente che accolga tuo figlio. O anche (incredibile quanto conti, si scopre solo dopo che un figlio è arrivato) avere un parco curato sotto casa, magari con gli alberi sani, i cui rami non ti cadano in testa. E quindi è là fuori – e non solo tra le pareti domestiche – che si combatte la nostra battaglia. Far sentire la propria voce, insomma, per farla sentire soprattutto a se stesse.
«Quanto guadagni? Come vorresti cambiare il tuo lavoro? Hai avuto i figli che desideravi o ne vorresti altri? Com’è la loro scuola? Sei libera? Sei felice?»: queste le domande che ho rivolto ad amiche e conoscenti, mamme e donne di ogni parte d’Italia. Dopo aver letto le loro risposte, ancor più mi sono convinta che noi – giovani madri della generazione co.co.co-partite Iva e del debito che si mangia quei servizi che dovrebbero aiutarci – siamo delle guerriere, delle combattenti, lottatrici in difesa dei nostri desideri di fecondità e di vita contro i molti ostacoli disseminati lungo il percorso. Per questo inciampiamo spesso, e a volte ci facciamo pure male, per poi rialzarci, magari con l’aiuto di una mano amica.
«Se molli fai vincere loro, non esiste» mi ripete sempre la mia amica Silvia, che ha tre figli ed è una sorta di Virgilio al femminile che mi accompagna nel libro con un compito specialissimo: evitare di cadere nel vittimismo o nello scoraggiamento. «Mollare? Mai» le rispondo. «Ma siccome crescere figli è un fatto politico, altro che privato, almeno mettiamola in piazza la nostra trincea quotidiana». «Non vorrei, Elisabetta, che poi ci considerassero eroine, e si lavassero ulteriormente le mani». «No, non siamo eroine né vogliamo medaglie, che quelle le danno ai morti e noi siamo vive e creative, ma almeno che il mondo sappia». «Che il mondo sappia. Ma la rabbia non serve, anzi paralizza. Meglio l’ironia». «Ma anche calme, sai, di quella calma saggia e solenne». «Potremmo dire un po’ ieratiche?» . «Cosa ne dici di ironico-ieratiche? Mamme ironico-ieratiche». «Potremmo farci una canzone rap». «Ma io so scrivere solo libri». «Va bene lo stesso» . «Allora eccomi qua. Cominciamo?».
(Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2014)