30 Aprile 2005

Work-life balance e relazioni di lavoro

Seminario “Il lavoro nella quotidianità. La quotidianità nel lavoro”
Venezia, 18-19 aprile 2005

Anna M. Ponzellini (Università di Bergamo)

VERSIONE PROVVISORIA

Tuttavia, quando abbandoniamo il (consolante) approccio descrittivo delle “buone prassi”, il panorama che, soprattutto in Italia, ci offre la rilevazione quantitativa di tali esperienze appare estremamente preoccupante. Sono infatti pochissime – non oltre il 3%, secondo una stima avanzata da una indagine sulla contrattazione aziendale – le aziende dove negli ultimi anni sono state introdotte norme sul lavoro classificabili, anche in senso lato, come misure favorevoli alla conciliazione.
Nel paper si propone di trovare spiegazioni al mancato, o comunque insufficiente, riscontro nella esperienza contrattuale – e, più in generale, nella esperienza delle relazioni tra organizzazioni sindacali ed imprese – di bisogni sociali che pure, dal momento dell’ingresso di massa delle donne nel mercato del lavoro, sono diventati evidenti ed urgenti. Una carenza che potrebbe addirittura costituire la ragione della scarsa propensione delle lavoratrici italiane – in controtendenza rispetto al resto d’Europa – ad iscriversi al sindacato.
Per fare questo, si fa un’analisi delle oggettive difficoltà delle parti sociali – in particolare, del sindacato – a regolare contrattualmente e estendere all’insieme del mondo del lavoro esigenze differenziate, mutevoli nel tempo e “costose”, come quelle di cui sono portatori e portatrici i dipendenti con responsabilità familiari e di cura. Ipotizza però anche la possibilità che le relazioni industriali che conosciamo siano – per tradizione, cultura e struttura – inadatte a recepire e a tradurre in regole contrattuali questi nuovi bisogni, al di fuori di un percorso di reale innovazione.

Tra vita e lavoro: strategie differenziate ed equilibri mutevoli
Lo specifico equilibrio tra lavoro e vita che ciascuno immagina per sé è molto diverso tra persona a persona: dipende dal carico delle responsabilità familiari, dall’età dei figli, dalla distribuzione dei ruoli in famiglia, dal grado di investimento nella realizzazione professionale, dalla situazione dei servizi sul territorio, dalle reti familiari e di vicinato ma anche da aspetti meno razionali e meno facili da analizzare – eppure con potenti influenze sulle scelte esistenziali – come il sistema di valori di riferimento. Per le donne in particolare, nella scelta della modalità con cui partecipare (o non partecipare) al mercato del lavoro, oltre alle consuete variabili socio-economiche, sembra avere un grande peso l’ideologia della maternità.
Una ricerca empirica americana ha recentemente tentato di ricostruire le diverse strategie delle donne nell'”equilibrare e intrecciare” (balancing and weaving) il lavoro con la famiglia anche alla luce della variabile “ideologia” e non solo ha evidenziato quanto siano diversificate le combinazioni possibili dei diversi fattori che sono coinvolti nelle scelte – reddito, ore lavorate, ore dedicate personalmente alla cura, ore di cura condivise col partner, ore di cura acquistate sul mercato o ottenute dai servizi pubblici, etc. – ma anche quanto poco l’equilibrio raggiunto risponda ad un razionale calcolo costi-benefici: per esempio, molte donne decidono di non lavorare o di lavorare solo poche ore anche in presenza di un reddito familiare basso mentre, all’opposto, redditi anche molto elevati dei mariti non sono una ragione per molte donne per rinunciare ad un impiego a tempo pieno…. Tali strategie si rivelano anche poco prevedibili soprattutto perché, come argomenta la stessa ricerca, l’equilibrio è il risultato più che di una scelta decisa una volta per tutte di un “processo decisionale” che si confronta contemporaneamente con aspetti soggettivi, ideologici ed emotivi – l’idea della maternità, il grado di fiducia nella capacità educativa del servizio pubblico o della baby-sitter, la percezione dei propri bisogni economici – ma anche con aspetti oggettivi e pratici – la possibilità di ottenere un lavoro ad orario ridotto, di lavorare da casa, di pagare una baby sitter, di suddividere con il partner il lavoro di cura – che possono cambiare nel tempo (Hattery 2001).
L’evidenza della grande varietà degli equilibri di conciliazione mette in guardia nei confronti dei tentativi di ridurre gli atteggiamenti e le aspettative delle donne con famiglia a modelli sociali preconfezionati e stabili (seppure di straordinario potere esplicativo), come quello che suddivide le donne che lavorano in due semplicistiche macro-categorie, quella delle “self-made women” che vogliono soprattutto realizzarsi nel lavoro e quindi non rinunceranno al tempo pieno e alla carriera e quella delle “grateful slaves” che si sentono soprattutto realizzate nella famiglia e che quindi opteranno per il part time e non si cureranno di fare carriera (Hakim 1996).
L’esistenza di una larga gamma di opzioni negli equilibri tra vita e lavoro può spiegare la scarsa tenuta di modelli di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e anche, almeno in parte, la difficoltà ad interpretare con certezza la domanda di riferimento per le politiche di welfare o per le misure aziendali. Più in generale, evidenzia la dubbia efficacia di risposte troppo standardizzate, come sono ad esempio gli orari rigidi degli asili-nido, il part time inteso come “lavoro a metà tempo per le donne”.

Scarse risposte dall’organizzazione del lavoro tradizionale: alcune evidenze empiriche
La domanda di innovazione dei modi di lavorare espressa dalle donne viene spesso descritta genericamente come richiesta di “flessibilità”, ma questa definizione non rappresenta la complessità e la varietà delle esigenze avanzate dalle lavoratrici né, ove ve ne siano, le linee di preferenza su cui si dirige il cambiamento. Molta ricerca empirica condotta negli ultimi anni ci dice che piuttosto che verso specifiche misure flessibili, la domanda di cambiamento si orienta in generale verso il raggiungimento di una maggiore autonomia personale, di una più ampia possibilità di scelta rispetto al “dove”, al “quanto” e al “quando” lavorare (AA.VV.1999). L’obiettivo di fondo di chi ha responsabilità familiari sembrerebbe quello, a partire dalle proprie differenziate preferenze ideologiche, di allargare la gamma delle opzioni organizzative per poter meglio costruire la propria specifica “combinazione di conciliazione”. Non a caso, gli equilibri vita-lavoro che Hattery nel suo lavoro definisce “innovativi” includono una molteplicità di intrecci – personalizzati ed autogestiti – di reddito-spazio-tempo: lavorare molte ore e pagarsi un aiuto in casa, lavorare fuori casa durante il tempo che i figli sono affidati ad un servizio educativo o ad una baby sitter e in casa per il restante tempo, lavorare full time ma in turno diverso dal partner, intraprendere una attività di cura di bambini presso la propria abitazione, etc. (Hattery 2001). In tutti i casi in cui, invece, l’autogestione del tempo resta impensabile, le preferenze delle lavoratrici e i lavoratori con carichi familiari si orientano ricorrentemente verso alcune ben individuate caratteristiche dell’orario di lavoro: orari meno lunghi, possibilmente compatti (senza intervalli) e prevedibili con certezza (Ponzellini, Tempia 2003).
Sfortunatamente, i tentativi di conciliare la famiglia con il lavoro si confrontano ancora oggi in molti luoghi di lavoro con una one-best-way dell’organizzazione della prestazione lavorativa che, com’è noto, ha a suo tempo esteso il modello efficiente della concentrazione spaziale e temporale del lavoro – ovvero il modello della fabbrica – a molti impieghi dove ciò non era affatto necessario (ad esempio, alla gran parte degli impieghi amministrativi, tecnici e creativi). Va un po’ meglio nei settori non raggiunti dal fordismo come quelli dei servizi, dove la grande modularità degli orari di lavoro offre significative opportunità per chi è alla ricerca di un proprio specifico equilibrio vita-lavoro ma dove spesso, al contempo, l’elevata variabilità dei flussi di clientela viene trasferita tout court sul lavoro, attraverso richieste di veloci adattamenti degli orari (straordinari, cambio turni) che entrano in contrasto con i bisogni di conciliazione…
Le poche indagini quantitative sulla introduzione nelle aziende di normative e condizioni di lavoro favorevoli ad un miglior equilibrio tra lavoro e vita confermano questa insoddisfacente situazione generale in termini sia di scarsità delle misure, sia persino di rallentamento del processo di innovazione. Due ricerche attuate congiuntamente da Fondazione Seveso e da Gender sulle misure di conciliazione in azienda – la prima riferita al periodo 1990-96 e la seconda al periodo 1996-2001 – mostrano una incidenza molto bassa delle norme di conciliazione nella contrattazione aziendale. Nella seconda indagine – che ha vagliato ben 1300 accordi aziendali stipulati in tutti i settori produttivi e in tutto il territorio nazionale e raccolti nell’Archivio nazionale del Cnel e in altri archivi locali e settoriali sulla contrattazione aziendale – norme sul lavoro classificabili, anche in senso lato, come misure favorevoli alla conciliazione risultano introdotte solo in 180 aziende. Anche se una manciata di queste misure, quelle più innovative, può essere considerata nel novero delle “buone prassi”, la stragrande maggioranza risulta costituita da norme banali, come l’introduzione di qualche tipo di permesso (in genere, non retribuito) o dell’elasticità in entrata ed uscita per gli impiegati… Quasi assente il telelavoro, pochissime le norme di specifici supporti alle carriere dei caregiver.. Se poi ci riferiamo all’unica raccolta sicuramente completa, quella degli accordi firmati nel settore metalmeccanico in Lombardia tra il 1995-e il 2001, su 480 accordi solo 17 (il 3%) contengono norme o provvedimenti classificabili come misure di conciliazione. Per giunta, nel corso della seconda indagine, il riesame di alcune buone prassi analizzate in precedenza ha mostrato come in molte aziende, nei cinque anni tra le due indagini, tali misure erano state abbandonate a causa dei motivi più vari: difficoltà applicative, problemi economici, turn over dei responsabili aziendali o delle RSU (Ponzellini, Tempia 2003).
Allo stato attuale, dunque, sembra che le aziende non siano in grado di dare risposte efficaci ai bisogni di conciliazione. Da un punto di vista prettamente organizzativo, sono soprattutto due le ragioni ipotizzabili. La prima è che consegnare ai dipendenti una più ampia autonomia nella organizzazione del loro lavoro significa introdurre strumenti per il controllo e la valutazione della prestazione più sofisticati e costosi di quelli attuali, ancora sostanzialmente basati sul tempo di presenza al lavoro. La seconda è che per tutti i lavori che restano “vincolati” (al contatto col cliente, alla macchina, alla presenza di altre persone), allargare le opzioni di presenza attraverso una più o meno spinta modularizzazione degli orari – operazione in via di principio non impossibile – significherebbe rendere il sistema organizzativo molti più complesso da gestire e quindi costoso. Per converso, i vantaggi del poter contare su dipendenti più equilibrati e soddisfatti della propria vita personale non sono ancora entrati nella contabilità dei bilanci aziendali…
Tuttavia, le insufficienze della razionalità organizzativa non spiegano del tutto la persistente “invisibilità” che nei luoghi di lavoro hanno i bisogni dell’altra faccia della quotidianità. Si rende necessario un punto di osservazione meno schematico, che analizzi tutte le fasi del processo di espressione, rappresentanza e negoziazione di questi nuovi bisogni.

Poca “voice” e molta “exit” nella rappresentanza dei bisogni di conciliazione?
Nell’arena delle relazioni di lavoro, il processo attraverso cui un’istanza del lavoratore ottiene una riposta dall’impresa passa per almeno tre stadi: il momento in cui il bisogno si esprime, quello in cui acquista una voce collettiva e viene rappresentato da parte di un sindacato, quello in cui viene negoziato ed ottiene una risposta dal datore di lavoro. Nel caso dei bisogni di conciliazione, finora è stato dato molto risalto alle difficoltà e ai cattivi risultati dell’ultima fase, quella della contrattazione collettiva, ma forse sarebbe utile prestare qualche maggiore attenzione anche alle altre due.
Innanzitutto, la domanda di conciliazione richiede di essere segnalata, resa visibile. In pratica, questo avviene molto raramente nei luoghi di lavoro: perché? E’ stato spesso detto che le donne fanno fatica a rendersi visibili nella società, ad incidere nel contesto politico e anche a “negoziare una cittadinanza nel lavoro” (Gherardi 1995). Forse questa difficoltà non deriva dal fatto che le donne sono disavvezze, o disinteressate, al discorso politico bensì dal fatto che “tutte le domande che riguardano i bisogni personali, la vita affettiva, il benessere psicofisico fanno fatica ad essere ammesse nel discorso politico” (Melucci 1994).
L’esempio di ciò che succede nelle relazioni di lavoro può essere illuminante anche per altri contesti. Quel che si può osservare è che le donne che lavorano – e i maschi a maggior ragione – hanno spesso difficoltà ad esprimere nei luoghi di lavoro i bisogni che riguardano la loro vita personale e familiare. Un effetto di scoraggiamento viene direttamente dalla cultura delle imprese: è noto, per esempio, che le donne che occupano posizioni professionalmente importanti o che comunque hanno ambizioni di carriera parlano pochissimo della loro vita personale e famigliare, in quanto hanno capito che è controproducente per il loro successo professionale mostrare una immagine di sé che non sia del tutto committed al lavoro. Ma ci sono anche altri effetti di scoraggiamento più ambigui, che fanno sì che la domanda di conciliazione sia difficile da esprimere anche tra lavoratori e al sindacato. Come abbiamo visto sopra, l’equilibrio vita-lavoro che ciascuno vuole raggiungere fa riferimento a scelte basate anche su opinioni e assunti ideologici personali, che riguardano il valore che si dà alla maternità e alla paternità, l’interpretazione dei ruoli familiari e della condivisione del lavoro di cura ma anche, per converso, il significato che si da’ all’esperienza lavorativa e il grado di committment al lavoro che si è scelto… Questi aspetti del privato si intravedono inevitabilmente quando si avanzano richieste che attengono l’equilibrio lavoro-famiglia e non sempre si è in grado o si vuole metterli in discussione. In questo senso certamente, l’assemblea sindacale – che costituisce il luogo deve tradizionalmente i lavoratori fanno sentire la voce delle proprie opinioni e delle proprie esigenze e ne chiedono la rappresentanza, dove si discute delle rivendicazioni collettive, dove si stendono le piattaforme contrattuali – non appare lo spazio adatto a far emergere esigenze così più specifiche, frammentate e personali. Per di più, il sindacato non agisce esclusivamente come tramite neutrale dei bisogni dei lavoratori e negoziatore di questi nei confronti delle aziende ma li filtra alla luce della sua strategia politica, spesso legata a rappresentazioni stereotipate di quelli che “dovrebbero essere” i bisogni dei lavoratori. Insomma, il sindacato ha una sua ideologia attraverso cui legittima – o non legittima – i bisogni. Pensiamo per esempio al part time, che per molti anni il sindacato ha osteggiato, considerandolo (in parte anche a ragione, ma comunque del tutto indipendentemente dalla domanda crescente da parte delle lavoratrici) una forma di lavoro “insufficiente a garantire alle donne indipendenza economica e quindi emancipazione sociale”. Pensiamo anche al telelavoro rispetto al quale, almeno inizialmente, la risposta del sindacato è stata ugualmente ostile, perché “ricacciava le donne dentro le pareti domestiche”.
Oltre agli effetti di scoraggiamento culturale ed ideologico, vi sono motivi di ordine più strutturale che ostacolano il processo di rappresentanza della domanda di conciliazione all’interno delle tradizionali istituzioni delle relazioni industriali. Come abbiamo visto, si tratta di bisogni molto differenziati e mutevoli, quindi difficili da portare a sintesi e ricondurre all’interno della contrattazione collettiva. Non esiste infatti una flessibilità-che-va-bene-per-tutti da sostituire alla vecchia routine-standard-maschile del mondo fordista…ma molte esigenze diverse che chiedono di avere risposte, a volte anche personalizzate e, in questo senso, l’emergere della domanda di conciliazione si collega alla spinta verso una maggiore autonomia nel lavoro e alla parallela crescente individualizzazione delle relazioni di lavoro che caratterizza in generale il lavoro nella cosiddetta “società della conoscenza”: nuove soggettività, lavori non-standard, lavoratori di alta qualificazione.
Questa difficoltà per le istanze delle donne e in generale per i bisogni personali ad emergere, essere legittimati, acquistare una dimensione collettiva – per dirla alla Hirschman (1970), ad utilizzare l’opzione “voice” – potrebbe essere una delle ragioni per cui questi soggetti scelgono spesso la via dell'”exit”. Il fatto che il tasso di sindacalizzazione femminile sia più basso di quello maschile, soprattutto in Italia (Ebbinghaus, Visser 1999; Feltrin 1999) potrebbe essere un segnale di disaffezione da parte delle donne nei confronti di una rappresentanza che non risponde adeguatamente alle loro attese. Anche il fatto che – come denuncia lo stesso sindacato – spesso i dipendenti che hanno qualche problema familiare si rivolgano direttamente alle direzioni del personale, può essere considerata una opzione “exit”..
Nelle relazioni industriali, la discussione su quale risposta dare alla frammentazione delle domande dei lavoratori è aperta da tempo e già interroga il diritto del lavoro e gli attori sociali su come sia possibile rendere tra loro compatibili libertà individuale e sicurezza sociale (Muckenberger 1982), su quali nuove forme di solidarietà siano percorribili per il lavoro non-standard (Volkenburg 1995, Cella 1999), su come aumentare lo spazio di autonomia dei lavoratori (Accornero 2001). Il compito futuro del sindacato potrebbe essere quello di contrattare l’allargamento delle opzioni professionali e/o di intreccio vita-lavoro possibili o anche quello di stabilire soltanto una cornice normativa generale entro cui i singoli individui possano negoziare le proprie condizioni di lavoro o infine – quando i bisogni, come quelli di conciliazione si intrecciano ad altri aspetti del sociale – quello di spostarne la rappresentanza al di fuori dei luoghi di lavoro su tavoli di governance territoriale.

Bibliografia
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