17 Giugno 2006

Selezione degli interventi da “Come raccontare vite infinitamente oscure?”

a cura di Silvia Marastoni, Luciana Tavernini e Marina Santini


Milano, Circolo della Rosa – Libreria delle Donne, 17 giugno 2006

All’interno degli incontri promossi dalla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica, alcuni interventi ci hanno permesso di elaborare la pratica della storia vivente.

La storica Maria Milagros Rivera Garretas discute con Marirì Martinengo, a partire dall’ipotesi contenuta nel libro di Marirì La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna ‘sottratta’. Ricordi immagini documenti (ECIG, Genova 2005).

Laura Minguzzi

Ho preparato un piccolo testo che mi rende più agevole dire quello che penso. Mi collego a varie cose che sono state già dette, in modo da procedere. Dopo la lettura di questo libro di Marirì, a caldo, non sono riuscita a dire niente. Ci ho pensato, perché mi ha fatto molta impressione. Le sensazioni sono state immediatamente e profondamente liberatorie. Mi sono detta: “Finalmente Marirì l’ha scritto ed è riuscita a scriverlo in modo eccellente”. L’inghippo, il segreto, il mistero, la macchia sul muro di cui parla Virginia Woof in un famoso racconto è venuto fuori, e io ho sentito questo movimento come un fatto empatico verso Marirì, a cui sono legata da una profonda amicizia politica. Questa amicizia politica è stata un ‘mezzo di trasporto’ simbolico che mi ha portata da Parma a Milano. Finalmente lei ha avuto il coraggio di portare alla luce questo mistero, spinta dall’amore per la storia vivente, che le ha permesso di far emergere il lato oscuro, opaco, da nascondere, di infrangere il muro degli affetti familiari e del conformismo borghese (che non si annida solo in quella classe, ma è molto presente anche nelle classi popolari dove può essere perfino più crudele, più feroce), che può togliere la parola e far diventare muta chi sopravvive. Il partire da sé è appunto uno dei criteri e la chiamata dal cielo, o da sottoterra, sono stati motori conoscitivi introdotti nella politica e nella storia dal femminismo. Però la differenza è che non tutte hanno il talento, il dono della scrittura che ha Marirì, oltre al suo coraggio, alla sua tenacia nel forgiare questa storia, bellissima anche da leggere. Secondo me, anche se può essere un po’ esagerato, si è creato un precedente. Lo dico per rispondere a modo mio a uno degli interrogativi posti prima: se questo libro è un fatto isolato, come modo di fare storia, o se può essere un precedente per una storia che fa entrare l’inconscio nelle sue trame. Per esempio, a proposito degli oggetti che fanno la memoria delle persona che ci sono care e che sono scomparse, Marirì mi ha sostenuto nel conservare mobili di mia madre degli inizi del ‘900 che tutti mi dicevano di gettare. Al Circolo abbiamo conservato il tavolo e l’armadio di Bibi Tomasi, che è una nostra ‘predecessora’, oltre che amica e sostenitrice politica. Questa tenacia ha aiutato anche me a non gettare pezzi del mio passato, della mia memoria. Non per questo ognuna/o deve mettersi a raccontare le proprie storie.

Riguardo alla questione della malattia, come diceva molto bene Bonansea, nel libro non si parla della casa di cura, non si portano elementi che potrebbero essere piattamente oggettivi, o strappalacrime. L’empatia che ho sentito è per qualcosa di simile che è successo a mia madre, che era depressa e ha vissuto questa malattia nella totale incomprensione, nel totale silenzio, perché si pensava che fosse una ‘malattia da ricchi’, e quindi che chi non era ricco non poteva avere una malattia dell’anima, una malattia femminile. Mio padre diceva che bastava la forza di volontà, che non era necessario curarsi. In questa incomprensione totale la solitudine di mia madre immagino fosse immensa e inenarrabile. Il suo ricordo è di totale silenzio, di un mutismo insormontabile come una muraglia cinese, che neanche i medici sono riusciti a decifrare, a capire. Negli anni ’60 era molto più difficile decifrare la sofferenza femminile… Per lungo tempo neanch’io sono riuscita a perdonare (ma forse è meglio dire assolvere, come propone Milagros) mio padre e mio fratello per questa incomprensione. Ho nutrito propositi di vendetta e risentimenti, che per fortuna sono riuscita a spostare interrogando la vita di mia madre, le sue relazioni, la sua malattia, il suo rapporto con me e la sua morte. Così le uova del risentimento si sono trasformate nell’uovo d’oro di una libera lettura della storia. E mi sono chiesta, ritornando al presente: perché oggi ricomincia a parlare questo nostro passato più profondo? Perché oggi questa cosa è possibile? Cosa ha reso praticabile questa possibilità? La risposta che mi sono data è che il nostro praticarci quotidiano nei luoghi che abbiamo creato fa emergere, nelle relazioni ravvicinate che abbiamo, anche il nostro essere lontane: io infatti mi sento una donna comune, mentre non sento così Marirì. Questa distanza abissale, che può esserci fra noi che viviamo, pratichiamo questi luoghi politici che abbiamo creato (la Libreria, il Circolo della Rosa e altri), se cerchiamo di non colmarla, appiattirla, eliminarla, crea scambio e permette di poter fare storia, risolvere i conflitti, darci una parola e una lingua.

Graziella Bernabò

Il libro di Marirì (che, grazie a lei, ho potuto leggere immediatamente prima della pubblicazione) mi è molto piaciuto fin dal primo momento, per quello che lei ha scritto e per il modo in cui l’ha scritto. Prima di tutto, ho apprezzato il nesso strettissimo fra la serietà, il rigore (ma forse questa parola è troppo aspra…) nel metodo di lavoro e l’empatia, l’affettività (che tante hanno notato prima di me) di Marirì verso il soggetto/oggetto della sua ricerca. Verso quella nonna negata sia da un sistema familiare, purtroppo tristemente tipico, sia da una psichiatria dissennata, che ha fatto vittime, soprattutto tra le donne, per molto tempo, fino a oltre il secondo dopoguerra, in tutti i ceti sociali. Può essere però (se ne parlava anche con Marirì) che in ambienti sociali borghesi si sentisse maggiormente la vergogna, si cancellasse di più la memoria dei fatti. Nel mondo popolare da cui provengo le cose dissennate avvenivano ugualmente, però non venivano nascoste. Nel libro il rigore e l’empatia sono elementi che si compenetrano e che traggono valore l’uno dall’altro. È proprio il moto di amore di Marirì verso la nonna, il desiderio di riconoscerla e di riscattarla dall’oblio cui è stata condannata, che diventa il punto di partenza per la sua ricerca appassionata: una ricerca seria ma non asettica, perciò tanto più efficace. Nulla di sé Marirì ha negato alla figura di Maria Massone in termini di tempo, energia, sacrificio in questo suo lavoro, durato molti anni e diventato per lei un fatto esistenziale importantissimo, che le consentiva di ritrovare le proprie radici più profonde. Marirì aveva pochi elementi a disposizione (ritratti, monili, un’epigrafe funeraria, qualche certificato); ma li ha studiati tutti con una cura estrema, li ha fatti parlare e li ha integrati con ulteriori ricerche, e quindi con nuovi documenti e con visite attente e molto empatiche ai luoghi in cui si è svolta, e soprattutto conclusa, la vicenda: penso ad esempio alla Villa di salute delle Ancelle della carità che si trova a Mompiano di Brescia. Certo, le tracce erano esili e su di esse Marirì ha messo in moto l’immaginazione. Ha potuto farlo perché, come lei stessa scrive e come ha sottolineato opportunamente María Milagros Rivera Garretas, la storia in gioco in questo libro non è la storiografia positivistica “oggettiva”, ma una storia vivente dentro di lei, una storia più profonda che non respinge le ragioni dell’amore nel suo processo conoscitivo. Però è opportuno rilevare che non si tratta di un’immaginazione astratta, arbitraria, proprio perché essa affonda le sue radici nell’esperienza personale. La biografia della nonna che ne deriva è certamente molto connotata in senso soggettivo, come ovviamente qualunque biografia, a maggior ragione se i documenti sono scarsi. Ma le pietre con cui essa è costruita sono vere. E, a questo proposito, riprendo le parole di Yourcenar citate nel suo testo, a p. 94, dalla stessa Marirì: “Qualunque cosa si faccia, si ricostruisce sempre il monumento a proprio modo, ma è già molto adoperare pietre autentiche” (Margherite Yourcenar, Memorie di Adriano. Taccuini di appunti, a cura di Lidia Storoni Mazzolani, Einaudi, Torino 2002, p. 287). Dunque Marirì usa materiali seri, e li tratta seriamente; infatti risulta persuasivo anche il modo in cui tali pietre sono state da lei cementate, dato che, dietro al suo lavoro, ci sono l’attenzione, l’amore, la cura nel ricostruire una vita dimenticata. Questi elementi (amore, attenzione, cura) producono verità e fanno storia nel senso più completo e profondo del termine, non romanzo, non biografia romanzata. E lo dico con tutto il rispetto possibile per queste diverse forme di scrittura, che però non sono da confondere con la storia. Nel contempo l’ascolto dell'”altra”, della nonna, diventa per Marirì anche un modo per dar voce a parti di sé negate dal sistema familiare in cui era inserita. Riscattando la nonna, lei riscatta anche queste sue parti e si riprende in mano la vita con maggiore consapevolezza. E questo genera libertà per lei e, più ampiamente, libertà per le donne, acquistando un significato politico non indifferente. Tutto ciò (e altro), come ho scritto nell’introduzione, mi è piaciuto del libro di Marirì.

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Sandra De Perini

Ho fatto venire Marirì a Mestre ed è stato un bellissimo incontro: le donne hanno tutte letto questo libro e alcune sono rimaste un po’ deluse, perché avrebbero voluto sapere di più della storia della nonna. Ritorno a quella domanda: può una storia privata diventare simbolica, emblematica? Ho avuto l’intuizione che si può fare questo tanti anni fa, quando ho letto il libro di Luisa Muraro La signora del gioco (ripubblicato quest’anno La signora del gioco. La caccia alle streghe interpretata dalle sue vittime, La tartaruga-Baldini&Castoldi, Milano 2006). Alla fine di quel libro si parla di restituire senso a queste migliaia di donne che sono state processate e messe al rogo come streghe, e quella è una delle immagini terribili della storia che chiede riscatto. Muraro nel libro dice che si sentiva chiamata da queste donne per restituire loro un senso. Lì c’è stata per me una riflessione: chi fa ricerca storica torna indietro nel tempo perché vorrebbe che le cose potessero essere andate diversamente, quindi come per cambiare il corso della storia e inventare nuove possibilità, anche se il passato ha nel senso comune una condanna di irreversibilità… Mentre noi sappiamo che il passato può essere reversibile: si può ritornare indietro, raccogliere un messaggio che le donne del passato ci hanno lasciato nascosto negli oggetti, nei mobili, se non avevano parola. Quelle venute prima della ricerca delle scrittrici del ‘900, dell’800 sono state molto spesso donne senza parola, ma noi in questi anni abbiamo fatto ricerca storica e abbiamo ricollegato le donne trovatore, le preziose, le donne dei salotti, le donne dell’800, le rivoluzionarie, le socialiste… tante figure di donne che hanno parlato nella storia, che hanno detto, preso posizione, che si sono anche schierate. A me è piaciuto molto il discorso di Milagros, quando diceva che in fondo nelle ricostruzioni riguardo al nazismo, all’Olocausto c’era sempre, implicitamente, l’odio verso il tedesco, il popolo tedesco. Anch’io sono sempre stata sospettosa di una storia delle donne in cui c’era sempre, sullo sfondo, il simbolico maschile – l’uomo che fa ingiustizia, violento – e che quindi alimenta quasi un odio nei confronti del sesso maschile, quasi un bisogno di risarcimento e di riscatto verso quest’uomo che non ha saputo amare le donne. Io non ho visto altri libri come questo di Marirì. È unico… Non c’è nessun risentimento nei confronti ad esempio del marito della nonna, o rispetto alla famiglia. Sarei molto curiosa di sapere come poi è stato accolto questo libro, nella famiglia, perché Marirì anni fa aveva raccontato che c’era stato un conflitto. E io so che ogni volta che si vuole raccontare la versione dei fatti in famiglia nascono un sacco di problemi, di conflitti… Però questo libro è tenuto in maniera talmente delicata, sul filo… Non è mai solo storia personale… Per me c’è riscatto, e c’è la figura simbolica di tutte quelle donne che avremmo potuto essere anche noi, se non avessimo fatto un percorso che ci ha dato la forza di resistere alla follia. Perché la follia è dentro di noi, è accanto a noi, ci è stata sempre presente nella storia, nel nostro passato, e anche oggi ogni tanto si manifesta nelle notizie di cronaca (ad esempio, le donne che si suicidano, o che ammazzano i loro figli, e che mi interrogano sempre). A me sembra che in questa figura emblematica della nonna, che non è solo la nonna di Marirì e basta, ci sia il riscatto di tutte quelle donne che stanno prima di noi, un passo più indietro di noi, e che attraverso questa figura di nonna sono entrate in contatto con noi. Perché non è che da lì lei prenda spunto per fare un libro di metodo storico: può sembrare anche così, ma per me non è così.

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María-Milagros Rivera Garretas

Mi sembra che la cosa più importante che porta fuori in questo libro Marirì è il guadagno di libertà che la storia può portare all’autrice, alla storica. Penso che la redenzione, il riscatto è di me, di me come storica, di questa storia che si annida in me e che mi fa stare nella vita in un certo modo, a volte anche ideologico, perché non trovo il simbolico per farlo venir fuori. In questo senso è un libro unico. Io le chiederei: “Qual è stato il tuo guadagno di libertà?”. Quando traducevo Duoda pensavo: “Lei ha potuto scrivere il libro quando si è sciolta, assolta dal delitto degli altri, del marito: quando non era più attaccata a questa necessità di rivincita”. Penso che fra le storiche (fra le donne soltanto, non dico fra gli uomini, in questo caso), nella mia generazione e anche in quelle successive di storiche universitarie, c’è molto bisogno di libertà. Siamo molto libere in tante cose, ma non abbiamo un guadagno di libertà che venga dalla storia che scriviamo. Non troviamo redenzione alle nostre storie personali, genealogiche… Ad esempio, la guerra civile spagnola è sempre studiata, anche dalle donne (e donne bravissime, come storiche, tradizionali ma bravissime), con uno sfondo ideologico: la destra e la sinistra… Ma la realtà femminile è un’altra… Quello è il sociale… Noi siamo lì, ma siamo anche in un altro luogo, oltre il sociale… E lì il guadagno di libertà non viene, con quella storia ideologica. È vero che vogliamo riscattare le donne del passato perché sono quelle che vogliamo conoscere. Però penso – e insisto – che questo riscatto, questa redenzione è dentro di me, come storica., una volta libera da queste cose pesanti del passato. Penso che Duoda abbia potuto creare il suo libro (che si legge ancora oggi, dopo più di mille anni) quando si è liberata, sciolta da questo ostacolo del grandissimo e terribile crimine compiuto dal marito. Duoda ha iniziato il libro nell’841 (quando il marito ha portato via anche il figlio più piccolo, che non era stato ancora battezzato) e l’ha finito nell’843. Nell’844, poi, Carlo il Calvo ha fatto ammazzare il marito. Quella del marito di Duoda, come storia di vita, non è stata una storia grande; non è arrivato molto in là. Invece lei, con questo rapporto, questa amica, ha trovato la libertà sufficiente per scrivere, per creare quello che doveva essere fatto da lei.

Laura Minguzzi

Mi sembra che questa ricerca sulle donne famose del passato (la ricerca di Marirì sulle Trovatore, o quella che abbiamo fatto insieme in Libere di esistere – http://www.url.it/donnestoria/testi/libere/apertura.htm) sia ritornata dentro, come un boomerang: ed è qualcosa che non avevamo previsto, che non avevamo messo in conto. L’imprevisto della storia, quindi, l’abbiamo fatto accadere noi. Ci è ritornata dentro questa libertà che abbiamo visto nel passato in queste donne (Ildegarda, Marina, Eufrosina, le Trovatore), e abbiamo cominciato a dare corpo alla nostra storia irrisolta, a quello che non avevamo elaborato di noi stesse, della nostra storia italiana degli anni ’50… Ognuna si è trovata a dover fare i conti con queste “viscere” che sono venute fuori: per fortuna avevamo creato degli strumenti politici, simbolici per poterne parlare, perché poteva anche essere una cosa distruttiva…

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Traudel Sattler

Anche per me il nesso che Milagros fa con la Shoah è importante, perché è una cosa che io naturalmente mi porto sempre dietro (Traudel è tedesca, n.d.t.), e non c’è mai stato un modo per uscire da questa cosa… Mi ricorda anche la storia della mia famiglia: delle persone rinchiuse nei campi di sterminio fino all’annientamento si parla, in famiglia, soprattutto con allusioni. Gli uomini tendono un po’ a giustificare, a dire “ma noi pensavamo che fosse il socialismo…”; le donne ne testimoniano un po’ con vergogna, e con molto dolore; quando mia madre racconta di come ha assistito alla deportazione di ebrei a me viene da piangere… Nel movimento delle donne in Germania ci sono stati due momenti: un primo momento in cui le donne si assolvevano in nome dell’estraneità e per l’impossibilità (a causa dell’amore per la madre) di colpevolizzare queste persone, fra cui c’erano le mamme, le nonne, le zie… Poi, anche a causa di un libro sulla connivenza femminile con il nazismo (Christina Thürmer-Rohr, Mittäterschaft und Entdeckungslust, Orlanda Frauenverlag Berlin 1989), è subentrato un capovolgimento per cui le donne, le madri venivano accusate di complicità; e anche questo è stato devastante… Non si è ancora riusciti ad uscire da questa impasse: o la negazione (per cui la madre non c’entra niente), o l’accusa di complicità. In questo dibattito, invece, emerge una cosa nuova, e una strada che io posso pensare fattibile anche per me.

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Luciana Tavernini

Uno dei problemi forti che hanno le donne – e che portano alla depressione – è proprio quello di assumersi il delitto del mondo, i grandi delitti della storia… Il sentirsi compartecipi del delitto, perché non si riesce a fermarlo. Mi sembra che qui venga fuori una strada diversa: quella di cominciare a raccontare la storia che capita dentro di sé rispetto a questo assistere; e in questo assistere, non prendere una posizione o l’altra per liberarsi da questo peso, altrimenti succede quello che ci dice Wanda Tommasi (La scrittura del deserto in Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005), la depressione, la mancanza di parole delle donne.

Trascrizione del dibattito, non rivista dalle autrici, a cura di Silvia Marastoni; revisione e sottolineature di Luciana Tavernini e Marina Santini.

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