di Elisa Messina
La filosofa autrice di «Donne che allattano cuccioli di lupo» si ispira alle Baccanti di Euripide per rovesciare la visione tradizionale della società e rimettere le donne al centro. «Il privilegio maschile è un dato di fatto. Dico no alla maternità surrogata, commercializza il corpo delle donne»
E se riscoprire un concetto arcaico di femminile e di materno come «potenza generativa» fosse una chiave utile all’umanità anche per imparare a rapportarsi in modo diverso alla natura? Tesi interessante e audace che è al centro di «Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno» di Adriana Cavarero, filosofa nota a livello internazionale, una delle protagoniste del pensiero femminista contemporaneo. Cavarero per il suo libro più recente, edito da Castelvecchi a fine 2023, sceglie un titolo evocativo, preso dalle Baccanti di Euripide, per guidarci in un viaggio tra mito, archeologia e letteratura contemporanea alla scoperta di una visione del femminile che dalla filosofia investe la società.
Chi sono le donne che allattano i cuccioli di lupo?
È l’immagine di una maternità senza limiti, chiamiamola il lato oscuro, viscerale, della maternità, quello che ci ricongiunge alla fisicità intesa come «physis», come racconta Euripide nelle Baccanti: le donne fuggono da Tebe e dalle loro case per andare nel bosco dove praticano una comunione dionisiaca con la natura e allattano cuccioli di umani e di animali. Un’immagine selvaggia della maternità che troviamo anche nelle pagine di scrittrici contemporanee come Elena Ferrante o Annie Ernaux. Penso, per esempio, alla descrizione dell’aborto che fa Ernaux in L’evento, o a quella che Lenù fa di sua madre in Storia della bambina perduta (romanzo del ciclo dell’Amica geniale ndr).
Per esplorare filosoficamente il concetto di maternità bisogna dunque rifarsi al mito e alla letteratura?
Certo, perché il pensiero filosofico classico ha rimosso il femminile. Relegandolo nella sfera della riproduzione quindi escludendolo dalla riflessione.
Rimossa a partire dalla filosofia e poi a scendere…
Rimossa soprattutto dai luoghi pratici dove si esercita il sapere e il potere.
Definire il femminile attraverso il materno non è un rischio, ora, in Italia, dove una parte politica dominante sembra incline a una visione tradizionale (e patriarcale) della donna?
Al contrario, io ribalto la prospettiva. Il pensiero femminista tende a non voler parlare di maternità perché, da una parte, teme di cadere in quella visione tradizionale e religiosa che la dipinge dolce, idilliaca, autosacrificale e, dall’altra, perché teme di ridurre il femminile al compito di riproduzione, quindi, di cacciare la donna in una gabbia biologica che la trattiene nell’ambito della natura, mentre l’uomo, proprio perché libero dal compito di procreare, è soggetto libero, dotato di logos e quindi dominante. Ecco, sfidando questa doppia censura ho ripreso il tema della maternità proprio riallacciandomi alla sua relazione con la natura. Partendo dalla biologia, che filosoficamente preferisco chiamare zoo-ontologia, la donna, proprio per la sua capacità di generare, va considerata al centro della vita, attraversata dal processo della vita, complice. Letta in questo senso diventa un’esperienza di conoscenza che ha un risvolto etico importante: ci insegna qual è il posto dell’umanità nell’universo, che non è quello di dominus e padrone.
Un’idea di materno che apre a un rapporto diverso tra umani e natura?
Sentirci padroni della natura, con tutte le conseguenze che questo ha comportato, è figlio di quella tradizione filosofica antropocentrica che ha dominato da Aristotele in poi, ma è solo un’illusione. Anzi, è arroganza. Se l’umanità avesse consapevolezza di essere solo una piccola parte nel mondo della physis il nostro atteggiamento verso l’ambiente sarebbe diverso.
Anche quando diciamo che stiamo andando verso la fine del mondo siamo antropocentrici. È un modo di dire assurdo. Semmai stiamo andando verso la fine della specie umana, il mondo continuerebbe ad esistere senza di noi, anzi, si avrebbero nuove e rigogliose forme di vita.
Donne come portatrici sane di una saggezza arcaica, insomma. Lei a questo proposito cita gli studi di Marija Gimbutas, l’archeologa lituana che teorizzava l’esistenza di una civiltà matrilineare antica.
Gimbutas (1921-1994, ndr) teorizzò la civiltà della “Vecchia Europa”, una civiltà matrilineare e pacifica, egualitaria e artisticamente raffinata che poi, in seguito a invasioni, viene soppiantata da una società più bellicosa, a trasmissione maschile, con organizzazione gerarchica e che non venera il culto della vita ma eroi guerrieri. Questa teoria nasceva da scoperte fatte sul campo: Gimbutas aveva visto che le statuette con donne corpulente, dai seni grandi, le “veneri neolitiche”, erano state trovate, in zone diverse, in strati del terreno profondi quindi più antichi, mentre le spade apparivano in strati più recenti. Il suo studio però fu contestato dal mondo accademico, che lo riteneva privo di base scientifica. Peccato che, trenta-quarant’anni dopo, le nuove scoperte sulle datazioni archeologiche dimostrarono che Gimbutas aveva ragione: una civiltà soppiantò effettivamente l’altra. E così successe al pensiero, da Platone e Aristotele in poi: la donna fu relegata nel mondo del naturale che segue leggi fisse e che quindi deve essere dominato dall’uomo.
Uccidiamo Aristotele?
Per carità, ammiro la tradizione filosofica. Non va cancellata ma decostruita nei suoi presupposti non detti, ovvero quando interpreta il sesso femminile come quello che “semplicemente” genera (quindi non conta) mentre il sesso maschile è quello che assurge all’intelligenza delle idee. Questa è la traduzione fondamentale della differenza sessuale secondo la filosofia che da Aristotele arriva fino ai nostri giorni. Che resta però non detta, un presupposto. Raro trovare testi chiaramente misogini, come quelli di Schopenhauer, dove si dice chiaramente che le donne sono inferiori, ma esiste l’idea aprioristica del maschile che si fa universale. La donna resta “non detta”, cancellata. Ma la potenza generativa è invece qualcosa di fondamentale che rivaluta la natura come molteplicità del vivente e rimette la donna al centro. Quello che chiamiamo Vita o Natura, con le maiuscole, non è qualcosa che si dà in generale, al di là dei singoli viventi: non esiste “l’idea Vita” ma solo la molteplicità dei viventi che passa attraverso corpi singolari. Ecco la potenza del generare.
Ma in una società che semplifica tutto non si corre il rischio di dar ragione alla deputata Mennuni di Fratelli d’Italia che in tv ha detto che la prima aspirazione per una donna è quella di fare figli?
No, questa sì che è da censurare: è la quintessenza del concetto patriarcale di maternità che ci arriva dalla tradizione religiosa e dalla letteratura. Io combatto da sempre l’idea che la maternità sia la realizzazione piena della donna perché la fa diventare “obbligatoria” quando invece è libera scelta. Per lo stesso motivo non mi piace tutto questo parlare di “denatalità”.
Cosa non le piace della parola denatalità?
È tipico di una cultura che non mette la capacità femminile di generare al centro della società, però dice alle donne: avete il dovere di fare figli. E intanto continua a tenerle fuori dalle stanze del potere e del sapere. A non pagarle quanto gli uomini, a ostacolarne le carriere.
Questo è ancora il grande limite alla valorizzazione del femminile?
Certo. Certo. Perché dietro il parlare di denatalità c’è la volontà di tenere le donne a casa a occuparsi dei figli. Ma questo pericolo c’è sempre stato, oggi ne vedo anche un altro.
Quale?
Lo sfruttamento del corpo delle donne attraverso la maternità surrogata, ovvero usarla come incubatrice di carne per figli che si comprano: è la riduzione della donna a utero, a contenitore.
Tutte le femministe sono contrarie allo sfruttamento del corpo delle donne, ma non tutte però sono contrarie alla surrogata.
C’è un’ipocrisia di fondo in chi difende la surrogata dicendo che può essere una libera scelta, un gesto di solidarietà verso chi non può avere figli: è solo un commercio gestito sul corpo di donne povere.
Michela Murgia nel libro postumo sulla genitorialità («Dare la vita», Rizzoli, uscito quest’anno a gennaio), parla della necessità di leggi che regolino la surrogata, perché un atteggiamento proibizionista tout-court apre alla clandestinità e allora, sì, allo sfruttamento.
Non mi convince: è come se ai tempi della schiavitù negli Stati Uniti, anziché chiederne l’abolizione, si fosse proposta una regolamentazione. Ho apprezzato molto Murgia perché ha militato per cause giuste, ma gli ultimi libri li trovo concettualmente confusi.
Sembra però che, sul piano politico, si voglia ostacolare la surrogata per colpire soprattutto le coppie omosessuali, ignorando che questa è praticata per la maggior parte dalle coppie etero che la fanno all’estero e lo tengono nascosto.
Infatti per disincentivare il ricorso alla surrogata bisognerebbe anche fare leggi meno restrittive sull’adozione.
A proposito di polemiche recenti, intellettuali e politici si sono scagliati contro l’uso femminista della parola “patriarcato”. Dicono non ha senso parlarne perché non esiste più.
Non sono informati. Patriarcato non è un termine femminista, è una categoria dell’antropologia passata alla sociologia e alle scienze sociali. Significa: tipi di società nelle quali il maschio occupa ruoli di potere e di privilegio. Non ha senso dire che c’era nell’Ottocento e ora non più, non si riferisce a un periodo storico.
Si critica chi parla di patriarcato per spiegare il persistere della violenza sulle donne.
Chiamarsi fuori, dire “non tutti sono maschi violenti” quando si cerca di spiegare che cosa c’è dietro i femminicidi, è una risposta sciocca. Si tratta semplicemente di riconoscere un dato di fatto: il ruolo privilegiato del maschio, e fare un’analisi sociologica di cosa questo comporta, ovvero il concetto che l’uomo possa possedere la donna.