29 Aprile 2023
il manifesto

Al tempo della Rossa, cronache dell’ultima diva

di Stefano Crippa


Squarci d’epoca e di un Paese che non esiste più, il ritratto di un personaggio della storia dello spettacolo e della musica italiana che non ha eguali in un percorso artistico alla costante ricerca della creatività. Milva, l’ultima diva (La nave di Teseo, pp. 288, euro 18) «l’autobiografia di mia madre» come la definisce nel sottotitolo l’autrice Martina Corgnati, curatrice di centinaia di mostre in Italia e all’estero, storica dell’arte e professore non insegnante presso la Scuola dei Beni Culturali dell’Accademia di Brera di Milano, presta il fianco a più chiavi interpretative. Un «lavoro psico-drammatico» – come spiega Giovanni Castaldi nella postfazione del volume, dove l’autrice prende il posto di Milva e la racconta in terza persona. Cinque vite, dall’infanzia agli ultimi giorni dove si pone l’accento sul suo multiforme talento e su una discografia vasta quanto varia. E i rapporti professionali che si intrecciano con quelli privati: da Maurizio Corgnati, padre di Martina e marito di una giovanissima Milva che l’aiuta nella sua maturazione artistica, a Massimo Gallerani. E il percorso che la porta a confrontarsi con Strehler, la scuola del Piccolo, i tour in Giappone e i trionfi tedeschi e francesi. L’incontro con la canzone d’autore, con Battiato e Jannacci.

Nei cinque capitoli, le cinque vite di Milva, Maria Ilva Biolcati – perché il parroco di Goro non volle acconsentire a quel nome senza santa protettrice, c’è il percorso di un’artista dai forti tratti e dalla determinazione ferrea ma che non nasconde le sue fragilità, l’ossessione per l’ordine: «Mia madre – spiega Martina Corgnati – ha sempre avuto un senso dell’ordine molto spaziale, ossessivo. Ma io credo che all’origine si trattasse di un’educazione molto dura impartita dalle suore e dal collegio. Penso che “l’ordine” per lei era diventato uno strumento per controllare l’ansia, e questo da bambina ci sta, da ragazzina anche. E poi da donna che si è trovata di fronte a compiti veramente ardui per una persona tutto sommato piuttosto sola com’era lei, senza un background che le consentisse di avere le spalle coperte. Mia madre non aveva le spalle coperte, e questo spero che emerga del libro». Milva cresce in una grande famiglia, dove il senso della solidarietà è spiccato: «Lei è nata nel 1939, e va ricordato che gli anni prima e dopo la guerra italiani sono difficilissimi. Le nostre realtà erano veramente povere, ai limiti della sussistenza. Noi non veniamo da Oxford, e intendo come Italia non individualmente. Nel 1945 mia madre ha sei anni; c’è appena stata la liberazione e si tratta ora di rimboccarsi le maniche. Ricostruire i valori democratici di un paese per la prima volta dopo decenni, ma anche umani e etici. La famiglia allargata era un espediente, uno strumento di vita per cui era normale venirsi incontro. E lo racconto quando parlo dell’alluvione: mia nonna Noemi accoglieva in casa le cugine di Rovigo, le nipoti. Non c’era problema in questo, se ce n’era si divideva. Questo era il mondo da cui veniamo, certo poi ce ne siamo dimenticati negli ottanta e novanta, in un’era di maggior benessere. Ahimè, non è detto che questo stato di benessere duri per sempre, e non è nemmeno detto che la famiglia nucleare sia un sistema di felicità maggiore. Era una necessità che era diventata una forma di naturalezza». Con Milva l’irrequietezza della ricerca tout court e l’afflato popolare andavano a braccetto senza che mai sembrasse una forzatura: Piazzolla e Amália Rodrigues, Berio, Vangelis. L’ascoltavi prodursi nell’Opera da tre soldi e la stessa emozione la metteva sul palco del festival di Sanremo, frequentato per ben quindici volte, ma senza che mai riuscisse a vincerlo, come lei stessa ricordava prendendosi in giro con garbata ironia. Artisticamente una carriera varia e incredibile, che ha una svolta importante con i due dischi dedicati ai canti della libertà: «Il primo è del 1965 ed è stato voluto fortemente da mio padre: c’erano i canti dei neri d’America, mentre il secondo Canzoni della libertà con gli arrangiamenti di Gino Negri (1975) – non era più con mio padre – è molto più politico. Un lavoro legato al presente, a una cronaca che non era più partigiana e politica e stava diventando piuttosto la cronaca dei primi anni di piombo». Nel 1965 quando arriva al Piccolo con Strehler è tutto in trasformazione. Quel fermento rappresenta la nuova cultura e un altro modo di fare teatro e coesione sociale.

Negli anni ’80 Milva cambia ancora, arrivano la canzone d’autore, Vangelis, Battiato. Ma – era lei stessa a sottolinearlo – la sua vera anima usciva prepotente dal vivo… «Sì, indubbiamente è vero: lei era un animale da palcoscenico dove dava il meglio di sé. Ho cercato di restituire nel libro ciò che era dovuto, da una parte, a Klaus Ebert che era un musicista e che è stato suo produttore e ideatore della discografia tedesca tra fine settanta e inizi ottanta. È lui che l’ha portata da Theodorakis e poi da Vangelis. E poi ho voluto sottolineare l’apporto di Massimo Gallerani con cui lei ha lavorato sugli autori italiani. Battiato è stata una sua idea: Massimo era attento, sentiva tutto, osservava tutto». Battiato è stato una tappa fondamentale nella carriera di Milva, si incontrano a pranzo e lui fa quasi scena muta. Rivelerà anni dopo che stava studiando l’artista, “come un sarto a cui adattare un repertorio adeguato”. «A dire il vero l’ha detto anche di Giuni Russo e Alice che insieme a Milva sono state le “sue donne”, artisticamente parlando. Credo che il rapporto con Battiato per mia madre sia stato illuminante, rasserenante e rassicurante. Lui la portava, quando non spessissimo si incontravano, alla conoscenza di mondi diversi, non solo musicali ma anche di vita. Franco aveva una sensibilità, una finezza di ascolto davvero unica. È l’unico autore che lei ha sempre cercato, anche alla fine. Non a caso con lui ha inciso tre dischi».

Con Enzo Jannacci la frequentazione (professionale) è breve ma intensa: un album, La Rossa (1980) in cui la canzone che intitola il disco è una fotografia perfetta di Milva, donna e artista. «Ho sempre amato Enzo, aveva un’ironia fantastica. C’è un elemento che li avvicinava molto, era la politica. Entrambi dichiaratamente e apertamente di sinistra, provenivano entrambi da un’estrazione sociale non propriamente da comfort. Un’appartenenza condivisa». Nei versi de La Rossa Enzo trasfigura Milva: “venuta su a patate e lenti”: «La bambina della Bassa che spacca tutto con la voce. È un’invenzione poetica e politica». Strehler è fondamentale nel percorso esistenziale e artistico di Milva, con lui arriva alla maturazione definitiva. E poi l’incontro con Milano negli anni che precedono il sessantotto, il Piccolo: «Siamo nel 1965 e tutto è in trasformazione e quel fermento rappresenta la nuova cultura, la nuova Milano e un altro modo di fare teatro e coesione sociale. Sia Giorgio Strehler che Paolo Grassi – ciascuno a suo modo certo – però erano in qualche modo pronti al salto. Forse si auguravano, forse contribuivano a preparare la nuova dimensione». Milva arriva al Piccolo proprio nell’anno in cui registra i Canti della Libertà: «Fortemente voluto da mio padre che la Resistenza partigiana, quella vera, l’ha fatta. Ci sono come dei semi che si mettono in rapporto e che poi germineranno in quello che sarà il Piccolo Teatro negli anni settanta». Anni in cui il rapporto con Strehler si rafforza, Milva non più artista da forgiare ma musa ispiratrice del maestro, protagonista di decine di spettacoli in cui lei sarà punto assoluto di riferimento.

Milva è mai stata realmente felice? «Penso che abbia avuto dei momenti e delle fasi di felicità, sicuramente lo era dopo i concerti, quando aveva successo era una felicità simile all’ebbrezza che ha provato tante volte. Ricordo in Giappone e in Germania la gente che l’applaudiva per un quarto d’ora senza smettere. Ci sono stati uomini di potere importanti che l’amavano e la stimavano. Sandro Pertini si è alzato ad un pranzo in un ristorante, per abbracciarla e farle il baciamano. Un’ammirazione bipartisan: l’amava Helmut Kohl, Willy Brandt ha voluto farsi fotografare con lei. È difficile suggestionare tutta Europa in questo modo: lei era commendatore, cavaliere per la Francia, Germania, Italia: quando riceveva queste onorificenze era felice. Però il problema di mia madre era, e poi domattina cosa facciamo? Faceva fatica ad accettare anche la continuità, la mediocrità della vita che fa parte dell’esistenza di ciascuno di noi».


(il manifesto, 29 aprile 2023)

Print Friendly, PDF & Email