1 Dicembre 2007

Alice Munro. Le mie radici nell’antica terra scozzese

Esce ‘La vista da Castle Rock’, una storia dal sapore arcaico ma scritta con tecnica modernissima Fragile e impavida l’ autrice ha una straordinaria fiducia nella realtà anche se tremenda Parla di mucche e di campagna come se per tutta la vita avesse fatto la contadina Il 9 giugno 1818 la famiglia Laidlaw partì dal porto di Leith e approdò a Toronto Il paese era immenso e fu un’ estasi conoscerne la magnifica natura
Pietro Citati

La vista da Castle Rock è un libro bellissimo: forse il più bello che abbia immaginato Alice Munro – uno degli ultimi scrittori che, oggi, fanno splendere dentro di noi la vasta e disperata luce della letteratura (Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pagg. 312 euro 18,50). Non saprei come descriverlo: potrei affermare che La vista da Castle Rock sia una storia di famiglia lunga tre secoli: o una cronaca della Scozia e del Canada: o la leggenda della Scozia e del Canada: o la storia della società dell’ Ontario dal 1850 al 1950: o una serie di racconti che fingono di essere un romanzo: o un romanzo nascosto da racconti; o il ritratto che Alice Munro disegna di sé e della sua vita – ma, dicendo questo, direi troppo poco. Mai la Munro è stata così ruvida ed arcaica, come se volesse emulare Walter Scott e Robert Stevenson; e mai, specie nella tecnica narrativa, così moderna. Il libro gronda ferite: ma subito esse si rimarginano davanti ai nostri occhi, e la Munro comincia a raccontare, perché raccontare è l’ unica cosa che ami e la diverta. Fragile e impavida, la Munro ha una straordinaria fiducia nella realtà, per quanto tremenda possa essere; e verso i suoi lettori, che si introducono nel libro, diventano compagni dei suoi personaggi, complici delle sue astuzie; e nutrono una tale simpatia per lei che il loro unico sogno è quello di diventare personaggi di Alice Munro. Questo rapporto con le cose e i lettori suscita in lei una gioia che, come un fiume sotterraneo, corre dietro le pagine: una felicità che non aveva mai conosciuto. Sebbene sia una spudorata bugiarda, è verissima: cosa ormai rara in una letteratura che alla verità di ogni specie, celeste e terrena, ha voltato le spalle. I personaggi sono veri: veri i sentimenti: vere le battute pronunciate durante i party: vero il vestito premaman o i minuscoli fiori rosa, ricamati negli angoli dei tovaglioli; vero il peso, il colore, il volume di ogni mobile e il rapporto che esso intrattiene con ogni personaggio; veri i matrimoni, le famiglie, i rapporti dei genitori coi figli, dei parenti fra loro, il profumo inconfondibile di ogni casa. Credo che il mistero sia lei, Alice Munro, questa signora di 76 anni, che è cresciuta nell’ Ontario e oggi vive nell’ Ontario. Immagino che abbia gli occhi color nocciola, come quelli di sua nonna: in uno dei due occhi, c’ è una finestra, una chiazza d’ azzurro assolutamente compatto, un celeste reso più luminoso dal color bruno-dorato che lo avvolge, «come capita ai cieli estivi, illuminati da meringhe di nuvole». Ama il duro lavoro e la dignità personale: è insieme astuta e innocente, meravigliata e fredda, ruvida e squisita, gremita di sottilissime sensazioni che brulicano come in un’ arnia; o, perduta in una specie di trance contemplativa, aspetta che la luce del mattino strisci tra i cedri del parco. Parla di campagna con la competenza di una contadina: discorre di mucche come se, per tutta la vita, avesse fatto la stalliera; e di caccia, come se ogni mattina inseguisse lupi e volpi argentate. Alla fine, capisce di essere composta di «molte personalità incoerenti e diverse»; e attende in silenzio la coerenza e la liberazione dalla scrittura. L’ architettura di ogni parte o racconto è liberissima, come una tela traforata e senza contorni: perché la realtà è andata in frantumi, e raccontare, nel 2007, è quasi impossibile. Non segue mai la linea retta: procede a balzi, a salti, con schegge, rotture, strane corrispondenze. Vagabonda, cambia argomento, si dimentica, parla sempre (in apparenza) d’ altro. Lascia immense omissioni nella trama, come se una parte del mondo fosse sparita. Noi attendiamo la fine del racconto: la fine non giunge mai, eppure è molto più evidente che se fosse pronunciata a piena voce. Sembra schernire ogni pathos: ma spesso i suoi racconti sono strazianti. Quando parla dei suoi libri, sostiene di «non costruire storie» ma di «acciuffare con la mano qualcosa nell’ aria»; e poi ci accorgiamo che pochi, oggi, posseggono come lei l’ arte della costruzione. *** Il libro comincia in Scozia, al principio del Settecento. La Munro insegue le imprese dei Laidlaw, un ramo della sua famiglia, che abitava nella valle di Ettrick. Allora la Scozia era poverissima. Il terreno muscoso non produceva nulla: l’ aria era umidissima: il mercato più vicino stava a quindici miglia, attraverso strade a stento percorribili e senza ponti: per nove mesi la neve impediva qualsiasi rapporto col resto del genere umano; quando scoppiavano le bufere, le pecore congelavano nei recinti, gli uomini morivano assiderati. Chiusi in casa durante l’ inverno, gli abitanti (celti, anglosassoni del sud, norreni e forse pitti) bevevano whisky, leggevano la Bibbia, parlavano di poesia. Le donne venivano sottoposte a una castità rigidissima. Gli anziani del paese andavano di casa in casa strizzando con forza i seni d’ ogni donna, sospettata di aver dato alla luce bambini illegittimi. Quando giungeva la primavera, William Laidlaw, che faceva il contrabbandiere di cognac, usciva di casa e vedeva una colonna di fairies, che appaiono anche nel folclore irlandese. Sentiva il cinguettio di donne alte come bambini di due anni: qualcuna cuoceva il pane, qualcuna mesceva un liquido misterioso da piccoli barili in fiaschi di vetro, qualcuna acconciava i capelli, senza smettere mai di canticchiare e farfugliare parole. Tutte camminavano pianissimo: ma William Laidlaw, che era un eroe della corsa, non riusciva mai a raggiungerle e a scorgerle in viso. Egli viveva sui sottilissimi limiti del nostro mondo: le creature di là, elfi o fairies o demoni o santi, invadevano e possedevano tutte le cose. Il 9 giugno 1818, la famiglia Laidlaw partì dal porto di Leith, e qualche tempo dopo scese a Toronto, in Canada. Era una terra fraterna: molto più simile alla Scozia che agli Stati Uniti. Il profumo della religione continuava ad avvolgerli: il peccato, la redenzione, il paradiso, l’ inferno, la dannazione erano presenze quotidiane nella loro vita. I fairies scomparvero. Questo era, finalmente, il mondo reale. Ogni famiglia si costruì prima una baracca, e poi una casa: viveva nella solitudine e nel silenzio, a quindici chilometri dalla famiglia vicina; quasi un’ esistenza monastica, che non conosceva né le visitazioni della grazia né quelle dei demoni. Lavoravano duramente: parlavano del lavoro: l’ amore fraterno era più intenso dell’ amore coniugale; e tutto avveniva come era accaduto nel passato, senza mutare un gesto o un’ abitudine. Poi qualcuno lasciava la casa. Faceva escursioni in canoa nei fiumi dell’ estremo Nord: oppure cacciava – topi muschiati, visoni, martore, linci rosse, lontre, donnole, volpi selvatiche – ; e allevava volpi argentate, vendendo le pelli ai turisti americani. Così i Laidlaw cominciarono a conoscere l’ immenso paese. Fu un’ estasi. Prima gli uccelli: i rigoli, i cardinali, gli itteri alirosse. Nella pianura il sommacco metteva fuori le sue parrucche color crema: le colombine erano in fiore, il verbasco innalzava le spighe fiorite, ritte come soldati; e il capelvenere cresceva così fitto da formare un tappeto soffice come le chiome delle ragazze. Le sponde dei torrenti erano fiorite di trillium sotto alberi di gemme rosa. E poi i ciliegi selvatici della Virginia e della Pennsylvania, su cui si schiudeva qualche gemma tenera prima che comparisse una sola foglia. E i ginepri e i biancospini e le querce bianche e rosse e i pini e i larici e i cedri e i noci e i mirtilli rossi a stelo alto, e i fiori rossi chiamati «pennelli del diavolo», e i rampicanti che avvolgevano i tronchi con un groviglio verde; e nugoli di farfalle piccolissime, di un verde così pallido che sembrava riflettere la luce delle foglie. I ragazzi si sdraiavano sotto i rami degli alberi, con la testa appoggiata al tronco, per vedere l’ albero salire sempre più in alto, fino a perdersi «in un lago capovolto di fiori». **** Sessanta anni fa, quando Alice Munro era ragazza, nel Canada trionfava la civiltà contadina. La sua vita era modestissima, quasi povera: ma lei sentiva di doverla difendere dal disprezzo dei ricchi. In quel tempo gli oggetti di casa non si cambiavano ogni mese, come oggi, ma si cercava di conservarli il più a lungo possibile, in condizioni decorose, e poi ancora un poco e poi ancora un poco, fino a quando andavano a pezzi. Il padre e la madre erano, in primo luogo, dei custodi: custodi della casa, della legge, della terra, degli animali, dei figli. Nessuno interveniva nella vita degli altri. Nessuno leggeva. Nessuno desiderava qualcosa che non producesse immediati risultati pratici. Se uno stravagante leggeva libri, pensava o escogitava progetti, gli altri dicevano che lo faceva per mettersi in mostra. Alla fine della giovinezza, la Munro fuggì quella vita ristretta: non la odiava, ma la difendeva dal presente che, con violenza ed arroganza, la distruggeva ogni giorno. Quand’ era lontana dall’ Ontario, a migliaia di miglia di distanza, sentiva un rimpianto acutissimo per il passato, e pensava alla sua vecchia casa – la cucina costruita nel 1860, le poltrone, le pareti mal tinteggiate, gli immensi pranzi famigliari – con un dolore sordo. Poi, quasi all’ improvviso, il rimpianto si consumò. I vecchi segreti sparirono. Le cose di una volta morirono per sempre. Dove c’ erano le aiuole di fiori e il pascolo e il prato e il cespuglio di boule-de-neige, ora si estendeva un sinistro cimitero moderno, con pezzi d’ auto, carrozzerie sventrate, fanali rotti, vetri infranti; e i fili spinati. Di tutto quello che Alice Munro aveva amato, restava soltanto un cespuglio di lillà. Quando diventò anziana, cominciò a cercare le tracce del trisnonno, il primo Laidlaw che aveva posato il piede sul suolo del Canada. Cercò invano negli archivi, tra le lapidi e i cimiteri, coperti di edera velenosa. Non trovò tracce, come se William Laidlaw non fosse mai esistito. Ma i nomi degli altri avi la assalirono: Mary Scott con la figlia Jane, Neil Armour e Margaret Armour, e Thomas Laidlaw e John Armour e James Armour, e Jimmy Armour… «Ora – queste sono le ultime parole del libro – questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d’ inverno dai corpi e dai fiati delle mucche – quelle mucche che noi incitavamo ancora con i richiami del tempo di Troia…» «E in una di queste case – non ricordo di chi – c’ era una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’ orecchio, quando in giro non c’ era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio cuore, e del mare».

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