17 Agosto 2015
la Repubblica

Amélie Nothomb: “Sono diventata scrittrice per sedurre mamma”

di Leonetta Bentivoglio

Con generoso narcisismo, la scrittrice belga Amélie Nothomb ama narrare tutto di sé. Eppure sembra che occulti più o meno tutto. Nei suoi vendutissimi romanzi, che ogni anno in Francia volano ai vertici delle classifiche ( tra un paio di settimane uscirà il prossimo, “Le crime du comte Neville”, atteso in Italia a fine febbraio, ed edito come gli altri da Voland), non smette mai di esporre lembi della propria vita.

I suoi numerosi fan conoscono sua madre (che nella realtà si chiama Danièle Scheyven, ed è moglie del barone Patrick Nothomb), la sua ossessione per il corpo (sensibilità dolorante, edonismo iperbolico, reiterati autolesionismi), il suo culto del Giappone (sfrenatamente disegnato in Stupori e tremori e in Metafisica dei tubi ) e le sue varie manie (l’esigenza di scrivere ogni giorno all’alba e a digiuno, il tè nero fortissimo che beve mentre lavora, gli assurdi e imponenti cappelli, i look neri da star del pop o della moda grunge, le esibizioni solipsistiche da  nerd di successo).

Letteratura ed esistenza, per Amélie Nothomb, paiono correre sul medesimo binario. Malgrado ciò ha una volatilità che la rende inaccessibile. È come se, nel suo perenne denudarsi (inAntichrista le due protagoniste, che compongono una sorta di Amélie sdoppiata, lo facevano con ostinazione davanti allo specchio), stimolasse il lettore a osservare la superficie per non mostrargli il fondo. Nelle sue storie nitide e feroci, talvolta surreali, spesso sanguinose, inaspettatamente esilaranti, tende a non dargli l’anima. Comunica inafferrabilità e leggerezza. Gioca le proprie carte nella distanza tra la persona vera e il suo personaggio di scrivente.

Anche quest’intervista sulla madre, figura dominante nei suoi racconti, si svolge all’insegna di un andamento impalpabile. Amélie accetta di parlarne per lettera, e dopo aver ricevuto le domande manda le risposte scritte a mano. La calligrafia è inviolabile e ben curata, con delle sinuosità di parvenza quasi ideogrammatica. Le frasi sono corte ed essenziali, e le sviluppa a partire da una premessa: “Non ho vaste teorie sul tema, ma sono sicura che essere amati o no dalla propria madre sia il fattore più determinante di ogni destino. Dalla mia mi sono sempre sentita amata: posso dire di essere nata con questo privilegio, sfociato in una fame d’amore ancora più grande, che mi ha fatto diventare ciò che sono”.

C’è quindi un rapporto esplicito tra sua madre e il suo estro letterario?
“Mi sono innamorata di mia madre quando lei mi portava nella pancia. A nove anni, di fronte alla mia eccessiva richiesta d’amore, mi ha detto: “Seducimi”. E io, per farlo, sono diventata una scrittrice. L’operazione ha funzionato. Mia madre è una donna di bellezza sovrana, e lo sa. Oltre a essere una dea, è l’incarnazione della gioia e dell’entusiasmo”.

E’ stata gelosa della relazione tra sua madre e sua sorella Juliette, la quale riceveva le lodi materne in quanto leggeva Gautier e dimostrava gusti “colti”? Dai suoi libri emerge un rischioso triangolo sentimentale.
“A dire il vero nel nostro triangolo amoroso non c’era gelosia, poiché io ero innamorata anche di Juliette che era un po’ una copia di mia madre in piccolo. Seducendo mia madre, sono riuscita a sedurre anche mia sorella. Se mia madre è una regina, Juliette è una fata”.

Ha riferito di aver attraversato fasi di anoressia durante l’adolescenza, e ha affrontato a più riprese l’argomento, soprattutto in “Biografia della fame”. Il legame con sua madre è connesso a questo passato?
“Certo. Ma il rapporto era anche o soprattutto con mia sorella: entrambe a un certo punto abbiamo smesso di mangiare per non uscire dall’infanzia. Restare bambine voleva dire rimanere insieme. Restare bambine significava rimanere per sempre le creature di mia madre”.

Si ha l’impressione che i personaggi femminili che la riflettono, nei suoi libri, non siano in grado di accettare il corpo, percepito come proiezione della madre.
“Sì, è possibile. Mia madre era la mia divinità. Avere un corpo sublime come il suo, un corpo di donna che lei ha portato sempre con fierezza, sarebbe stato come invadere un territorio sacro. Non voglio dire che lei abbia impedito quest’invasione. Sono stata io a decidere di non addentrarmi”.

Ne “La nostalgia felice”, uscito in Italia l’anno scorso, lei parla della sua tata giapponese come di una seconda madre.
“Lo è stata. Sono nata a Kobe, in Giappone, e ho trascorso i miei primi anni in vari paesi asiatici, seguendo i trasferimenti di mio padre diplomatico. A Kobe la mia adorata tata Nishio-san mi chiamava Amélie-chan e mi lasciava mangiare dal suo piatto. Quando tornai in Giappone, qualche tempo fa, in occasione del cortometraggio sulla mia vita realizzato da Laureline Amanieux e Luca Chiari, Une vie entre deux eaux, l’ho potuta rincontrare dopo decenni. Era ottantenne ed è stato troppo emozionante “.

Troppo?
“Prima di ritrovarla credevo che quest’esperienza sconvolgente avrebbe dovuto essermi proibita. Ma dopo averla abbracciata ho pensato che dovrebbero esserlo anche le separazioni. Nishio-san e io tremavamo come reattori. Lei diceva di vergognarsi e io pure. Mi sono sorpresa a pensare di voler essere altrove.
Quando avevo cinque anni ero più forte di così. Poi ho stretto a me la donna sacrosanta e me ne sono andata. Insomma, ci siamo riviste, le ho detto ciò che andava detto, ho lasciato che tra lei e me circolasse un amore terribile e siamo sopravvissute”.

Lei è stata sempre una lettrice compulsiva. Quali madri letterarie l’hanno affascinata o ispirata di più?
“Alcune di queste madri erano uomini, che però non erano padri, ma proprio figure materne: la Comtesse de Ségur, Proust, Madame de La Fayette, Henry de Montherlant e Oscar Wilde”.

Amélie Nothomb è la madre dei suoi romanzi?
“Sono, in effetti, emanazioni di me stessa. Non ho mai voluto creare esseri umani, neanche da piccola. Mai avuto fantasie del genere. Tutta la mia energia materna è stata convogliata nella produzione letteraria”

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