21 Luglio 2015
il manifesto

Amori travolgenti sull’orlo delle relazioni quotidiane

di Alessandra Pigliaru

«L’amore estremo ha un appe­tito insa­zia­bile». In que­ste poche bat­tute com­pare il segno di Iris Mur­doch, per la pre­ci­sione di ciò che fa dichia­rare a uno dei suoi per­so­naggi let­te­rari, Mar­tin Lynch-Gibbon pro­ta­go­ni­sta del romanzo del 1961, A Seve­red Head, ora Una testa tagliata (Il Sag­gia­tore, pp. 251, euro 19) a cura di Cri­stina Tizian e tra­dotto da Gioia Guer­zoni. La cifra distin­tiva dell’agiato qua­ran­tenne lon­di­nese Mar­tin è, tut­ta­via, al cen­tro di una nar­ra­zione più obli­qua della furia amo­rosa e le sue cadute. È infatti nelle abi­tu­dini di Mur­doch intrec­ciare molte esi­stenze sin­go­lari, dare loro il carat­tere tor­men­toso e corale di chi si fa pun­go­lare dall’eventualità e dal desi­de­rio di com­pren­sione, rinun­ciando all’algidità del con­cetto per andare alla ricerca dei corpi e di ciò che accade tra loro.

Niente è casuale nella costru­zione dei rac­conti a cui ci ha abi­tuati l’autrice, nono­stante nella sua scrit­tura let­te­ra­ria vi sia espli­ci­ta­mente più leg­ge­rezza, libertà di movi­mento. È lei stessa a farlo intuire in una con­ver­sa­zione con Brian Magee (1978), quando afferma che la let­te­ra­tura intrat­tiene e fa molte cose, men­tre la filo­so­fia ne fa solo una. Nono­stante per tutta la vita le abbia pra­ti­cate e maneg­giate entrambe con sapienza, la filo­so­fia e la let­te­ra­tura sono state per Mur­doch i punti di un dop­pio passo che non ha inteso giu­sti­fi­care né risol­vere. Anche se è dif­fe­rente la dif­fi­coltà della mate­ria da cui par­tono, sia l’una che l’altra – lo ammette — hanno a che vedere con la verità. E in par­ti­co­lare la let­te­ra­tura quando si misura con la memo­ria e in alcuni casi rende addi­rit­tura felici, capace com’è di mostrarci il mondo. Ecco la qua­lità della scrit­tura che sa con­fron­tarsi con le con­trad­di­zioni coria­cee del reale, che abban­dona il rigore sil­lo­gi­stico per espli­ci­tare come si possa arri­vare a un pen­siero che sia incar­nato, e al con­tempo imperfetto.

Una sepa­ra­zione incarnata

Una testa tagliata è dotato di grande carica sim­bo­lica fin dal titolo, con­duce a domande imme­diate. Durante la let­tura veniamo subito a cono­scenza che il taglio e ciò che ne rimane cir­co­lano nelle con­ver­sa­zioni tra i pro­ta­go­ni­sti su più livelli. Cioè se di crani e teste moz­zate è san­gui­no­sa­mente colma la sto­ria – più o meno dal paleo­li­tico a oggi — il taglio che qui si illu­mina è una sepa­ra­zione, intanto nella con­sa­pe­vo­lezza che «certe per­sone sono più il loro corpo di altre» e che «la testa ci rap­pre­senta più di tutto il resto, è l’apice della nostra incar­na­zione», insieme alla con­se­guenza di con­si­de­rare ser­vi­bile una rela­zione con chi si priva di parti di sé. Dice infatti Mar­tin: «non credo che mi piac­cia molto, una testa senza il corpo (…) Mi sem­bra un van­tag­gio sleale, una rela­zione ille­cita e incompleta».

Nes­sun esito tru­cu­lento allora, è invece sull’orlo delle rela­zioni quo­ti­diane che si spa­lanca la sto­ria di Mar­tin, Honor, Anto­nia, Pal­mer, Geor­gie in cui l’unica pri­va­zione visi­bile è ciò che media­mente si mette in scena – affet­ti­va­mente ed ero­ti­ca­mente, attra­verso tra­di­menti, scambi, pre­va­ri­ca­zioni e lan­guori fuori tempo mas­simo. Seguendo i per­so­naggi e le per­so­nagge di Mur­doch può acca­dere di essere indul­genti verso le altrui e le pro­prie ambi­va­lenze, le distanze cal­co­late, le ambi­guità con­cesse come vie di fuga, fino ad arri­vare al punto impor­tante: il «filo d’intimità» di cui chiac­chie­rano i pro­ta­go­ni­sti quando viene scam­biato mala­mente con la familiarità.

Il nodo dell’intimità

D’altro canto, Mar­tin è in cerca di sal­vezza: «un amore potente e colos­sale, che non avevo mai cono­sciuto prima di allora». Un’insistenza tota­liz­zante, insomma, che attra­verso la vul­ne­ra­bi­lità di cui si è fatti si scon­tra con la ridda tumul­tuosa degli altri, pre­ve­dendo spesso «un brutto gar­bu­glio di inti­mità e amore». Allora nella resti­tu­zione del rituale tanto ben descritto da Mur­doch, per bocca della miste­riosa Honor si trova forse un’ulteriore let­tura: «Sono come una di quelle teste tagliate che usa­vano le tribù pri­mi­tive o gli alchi­mi­sti; le unge­vano d’olio, e met­te­vano una scheg­gia d’oro sulla lin­gua per­ché con­di­vi­des­sero le loro pro­fe­zie. E chissà, forse una lunga con­sue­tu­dine con una testa tagliata potrebbe por­tare a una cono­scenza dav­vero ano­mala delle cose. Ma tutto ciò è lon­tano dall’amore».

Che l’idea di inti­mità sia tan­gente a quella di amore è un dato che attra­versa la sto­ria del pen­siero e delle sue nume­rose rap­pre­sen­ta­zioni. Altret­tanto nota è la con­fu­sione che spesso viene a con­fi­gu­rarsi tra i due ter­mini — limi­trofi, sci­vo­lo­sa­mente con­ti­gui ma che a ben guar­dare non sono sino­nimi. Del resto «ci sono per­sone, com­prese quelle accop­piate o spo­sate, che mai, in tutta la loro vita, sono entrate in inti­mità». Hanno vis­suto per anni l’una accanto all’altra ma senza per que­sto imma­gi­nare di spor­gersi, anzi «non ne hanno nem­meno sospet­tato la pos­si­bi­lità; non hanno mai oltre­pas­sato que­sta soglia, non ci hanno nem­meno pen­sato (…) L’Altro è diven­tato un essere fami­liare ma non intimo». Con­cen­tran­dosi invece sull’intimità come risorsa, si può fare uno spo­sta­mento; di que­sto ci informa Fra­nçoise Jul­lien nel suo De l’intime. Loin du bruyant amour (Gras­set, 2013), fine­mente tra­dotto da Rosella Prezzo. Ideal­mente seconda parte del ragio­na­mento comin­ciato nel 2011 con Phi­lo­so­phie du vivre (Gal­li­mard 2011), il sag­gio di Jul­lien Sull’intimità. Lon­tano dal fra­stuono dell’amore (Raf­fello Cor­tina, pp. 191, euro 14) apre a una accu­rata disa­mina della que­stione, anzi­tutto pre­ci­sando che l’intimità è il con­tra­rio dell’intimistico. Ha piut­to­sto a che vedere con il para­dosso dell’accostarsi al limite. Accolta molto meno di quanto si imma­gi­ne­rebbe, nell’uso comune rap­pre­senta ciò che è celato, adden­sato all’interno delle cose e al fondo della sog­get­ti­vità, poi rin­trac­cia­bile anche in un fuori che deter­mina una rela­zione con altro da sé.

L’intimità è infatti una pros­si­mità con se stessi e con altri, deter­mi­nando secondo Jul­lien il dop­pio segno di rac­co­gli­mento — stando pro­fon­da­mente presso di sé – e di con­di­vi­sione – toc­cando altret­tanto pro­fon­da­mente l’altro da sé. Il pas­sag­gio ulte­riore sta­bi­li­sce l’implicazione di interno ed esterno, cioè quando si arriva al pro­prio intimo, al limite di un interno, si trova anche l’apertura verso gli altri, le altre.

Una morale indiziaria

Idea sug­ge­stiva, in molti hanno pro­vato a pen­sarla: «L’intimità non è tanto la feli­cità per­fetta quanto l’ultimo passo per arri­varci». Sten­d­hal nel suo De l’amour sem­bra esserne sicuro, un po’ meno Roland Bar­thes quando nei suoi famosi e bel­lis­simi Frag­ments cita l’intimità in rela­zione alla ferita nel cen­tro del corpo, più è aperta e «più il sog­getto diventa sog­getto»; tale, pro­se­gue, è la ferita d’amore che non rie­sce a richiu­dersi. Secondo Jul­lien più sem­pli­ce­mente «in un mondo che si rove­scia, in un totale ribal­ta­mento, l’intimità, a sua volta, si rove­scia e fa pre­ci­pi­tare». E quindi spesso viene scan­sata pro­vo­cando per­dita e mise­ria affet­tiva – che è sem­pre simbolica.

Per Jul­lien è così impor­tante porla all’attenzione che può essere addi­rit­tura con­si­de­rata l’inizio di una morale sep­pure indi­zia­ria, senza quindi un fon­da­mento neces­sa­rio ma aperta alla cate­go­ria della pos­si­bi­lità – e, come direbbe il filo­sofo, di vita­lità. Si chia­ri­sce meglio cosa Jul­lien intenda quando avverte che l’intimità non è un valore, né tanto meno una virtù, non si ammanta di nes­sun dover essere. E anche se non rimanda imme­dia­ta­mente a una respon­sa­bi­lità è pur vero che sce­glien­dola ci si impe­gna. Si può rispon­dere al suo appello, oppure no.

Forse è suf­fi­ciente dire che sia l’intimità che l’amore, espe­rienze entrambe, pos­sono acco­starsi peri­co­lo­sa­mente al fra­stuono se non se ne capi­scono i segnali; insieme a Lily Bri­scoe creata da Vir­gi­nia Woolf nel suo To the lighthouse, potremmo spin­gerci allora a con­si­de­rare che desi­de­rare l’intimità stessa è cono­scenza. Anche Iris Mur­doch e Fra­nçoise Jul­lien non potreb­bero che essere d’accordo. In fondo «Chi sa che cosa siamo? Che cosa pro­viamo? Chi sa, per­fino nel momento dell’intimità, que­sto è sapere?»


(il manifesto, 21/7/2015)

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