23 Maggio 2010
D la Repubblica

Anne Holt la giustiziera

Poliziotto, avvocato, ministro: infine giallista. La scrittrice scandinava racconta la sua nuova (imperfetta) detective

Tiziana Lo Porto

Nel 1993, quando esordì, la norvegese Anne Holt aveva alle spalle una laurea in legge, due anni di lavoro in polizia, un’avviata carriera da avvocato e una da giornalista. Di lì a poco sarebbe diventata ministro della Giustizia per un anno (dal ’96 al ’97 per l’esattezza). Per poi tornare a scrivere, sfornando in meno di una ventina d’anni due serie di otto e quattro romanzi, e diventando una delle gialliste più conosciute e vendute al mondo (4 milioni di lettori nei 25 paesi in cui è tradotta). Dodici polizieschi in tutto, di cui La dea cieca (appena uscito per Einaudi Stile Libero, nella traduzione di Giorgio Puleo) è il fortunato esordio: nel 1994 sorprese e conquistò lettori e critica, aggiudicandosi il prestigioso Riverton Prize come miglior romanzo poliziesco norvegese dell’anno, e dando poi vita, nel 1997, a una seguitissima serie televisiva. A fare da musa a quest’opera prima è la dea bendata – nell’iconografia ufficiale – per non essere influenzata dalle parti. Anche a rischio di non poter vedere. Affascinata dalla giustizia (a dirla con Cechov, “agitata dalla sua assenza”), Anne Holt è arrivata alla conclusione che scriverne può rivelarsi molto più utile che praticarla in tri- bunale. Nel gennaio del 2000 ha sposato la sua compagna Tine Kj¾r. E con la loro bambina, Johanne, le due donne vivono a Oslo, città in cui ha ambientato decine di scene del crimine. In Italia la fortuna di Anne Holt è cominciata un paio di anni fa con Quello che ti meriti, il primo libro della serie che ha per protagonisti la coppia di investigatori Johanne Vic e Yngvar Stubø. Un successo immediato, così come lo sono stati gli altri due volumi della serie, Non deve accadere e La porta chiusa. Con La dea cieca è partita la pubblicazione in Italia anche della seconda serie, quella sull’investigatrice lesbica Hanna Wilhelmsen. È lei la protagonista del romanzo, “una donna straordinariamente bella, da poco promossa al grado di detective”. Hanne Wilhelmsen è una poliziotta modello, che ha come unico punto debole quello di essere innamorata di un’altra donna, Cecilie, con cui convive da quando aveva diciannove anni. Hanne entra in scena lentamente, lasciando che il lettore si attardi prima su altri personaggi: il cadavere di un uomo assassinato e ritrovato nella prima pagina del libro, un presunto assassino fermato dalla polizia e in attesa di processo, una donna che trova il morto e viene poi scelta come avvocato difensore del presunto assassino, l’ex della donna che è anche uno dei poliziotti che indagano sul caso, un avvocato penalista assassinato dopo il ritrovamento del primo cadavere. Hanne Wilhelmsen intuisce che i due omicidi sono collegati, e imbocca la pista del mondo degli avvocati, e quella della droga. Impossibile non restare affascinati dalla Wilhelmsen, che è istintivo accostare alla sua creatrice, Anne Holt. La scelta di un nome così simile al suo è del tutto casuale? “Sì, direi che è solo una coincidenza. Di solito non perdo molto a tempo a decidere come debbano chiamarsi i miei personaggi. Cerco di trovare nomi che siano il più comuni possibile. Lei non si immagina quante Hanne Wilhelmsen ci siano in Norvegia”. Come la sua Hanne, lei ha lavorato nella polizia. Anche lei è stata ostacolata dalla sua famiglia quando ha deciso di diventare detective? “No, anzi, ho costruito Hanne Wilhelmsen come la mia antitesi”. E lo è rimasta in tutti gli otto libri della serie? “Sì, anche se negli anni Hanne è cambiata in molte cose. Nella Dea cieca aveva poco più di trent’anni, era molto intelligente, molto forte e bella. Teneva tutti a distanza, ma era comunque capace di avere degli amici. Man mano che la serie è andata avanti, è diventata più introversa, più sfiancata e ostile”. Anche Oslo è cambiata? “Sì, leggendo l’intera serie di Hanne ci si rende conto di quanto in questi anni Oslo si sia evoluta dal punto di vista tecnologico. Ma il primo e più importante cambiamento è stato il suo diventare una città multiculturale. Negli ultimi romanzi della serie mi sono ritrovata ad affrontare il razzismo e altre tematiche imposte da questa sua nuova natura. E se la serie fosse nata oggi, la questione razziale sarebbe stata di sicuro il tema dominante”. A inizio anni 90, ha scelto invece la giustizia come tema principale… “Sì, anche se non la definirei esattamente così. Più che altro è una specie di idea dominante, un chiodo fisso da cui è nato il libro. Quando ho scritto La dea cieca mi stava a cuore più che altro la possibilità di inventare personaggi che avrei continuato a usare nei romanzi successivi. Poi però ha messo momentaneamente da parte la Wilhelmsen e ha avviato una serie in cui, a investigare, è la coppia Vik & Stubø. Si era stancata di Hanne? “Non direi. Nel 2007 ho anche pubblicato un romanzo (La porta chiusa, n.d.r.) in cui si incontravano tutti e tre: Hanne, Vik & Stubø. E l’anno dopo sono tornata a scrivere una storia in cui è Hanne Wilhelmsen a investigare (1222, ancora inedito in Italia, n.d.r.). Quando ho inventato Vik & Stubø l’ho fatto solo perché volevo scrivere storie che non erano adatte a Hanne. Così come ci sono vicende da raccontare che sono più vicine a Hanne, che a Vik & Stubø”. In cosa è diversa Hanne da Vic & Stubø? “Loro sono senz’altro più felici, più soddisfatti delle loro vite. Wilhelmsen avrebbe bisogno di un aiuto psicologico, ma non osa chiederlo. Ha troppa paura per farlo”. È facile raccontare un personaggio irrisolto come lei? “Quando scrivi un poliziesco di solito hai a che fare con personaggi irrisolti: la sfida sta nell’evitarlo, è la cosa che dà più soddisfazione. Il poliziesco è un genere in cui i protagonisti di solito sono tormentati: rompere questa regola, come ho fatto con Vik & Stubø, è stato difficile quanto intrigante”. Nei suoi romanzi ha affrontato più volte il tema della famiglia. Ha denunciato i limiti di quella tradizionale e l’assenza di un nuovo modello che ne prenda il posto. Pensa sul serio che sia possibile costruire una famiglia funzionale? “Nessuna famiglia è perfetta, e solo affrontandone le imperfezioni si può costruire un altro modo di vivere i rapporti tra marito e moglie e tra genitori e figli. Purtroppo non ho la ricetta per una nuova famiglia. Se l’avessi la scriverei, la pubblicherei, la venderei: allora sì che diventerei ricca!” Lei è cresciuta nella piccolissima città di Lillestrøm. Ma per sua figlia ha scelto Oslo. Secondo lei una capitale può garantire un’infanzia migliore? “Da bambini si può essere felici in cittadine minuscole, grandi metropoli o aree rurali. La cosa importante, ancora una volta, è la famiglia in cui cresci. Io, per esempio, posso dire di avere avuto un’infanzia felice. L’infanzia è un momento della vita che lascia inevitabilmente cicatrici e ferite. È così per tutti. A me ne ha lasciate pochissime”. Di recente ha detto di amare gli Stati Uniti, più di una volta li ha definiti il paese più interessante, affascinante al mondo. Durante l’ultima campagna presidenziale americana ha sostenuto la candidatura di Barack Obama. Dopo la sua elezione non ha avuto la tentazione di trasferirsi lì con la sua famiglia? “Ho vissuto in America per diversi periodi nella mia vita, anche se negli otto anni di amministrazione Bush mi sono ben guardata dal metterci piede. Con Obama ho ripreso a amarla. Da quando ho una figlia, però, non ho mai pensato di lasciare la Norvegia per sempre. È un buon paese dove crescere, sia per una bambina sia per u- na figlia di genitori dello stesso sesso”.

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