11 Marzo 2006
la Repubblica

Azar Nafisi

L´autrice di “Leggere Lolita a Teheran” racconta il suo rientro in Iran durante la rivoluzione khomeinista. Le speranze tradite, la repressione e la censura sulla sua amata letteratura occidentale. E spiega perché resta insopprimibile il bisogno umano di sognare leggendo i grandi capolavori

La storia che voglio raccontarvi comincia all´aeroporto di Teheran, decine di anni fa, quando i miei mi mandarono in Inghilterra per proseguire gli studi. I parenti e gli amici presenti quel giorno si ricorderanno di me come di una ragazzina viziata, che correva in giro per l´aeroporto gridando che non voleva partire. Dal momento in cui mi afferrarono, mi misero sull´aereo e il portellone si chiuse, l´idea di tornare a casa, in Iran, diventò un´ossessione costante che mi tormentava giorno e notte. Fu questa la prima lezione vera e propria sulla caducità e sull´imprevedibilità della vita. L´unico mezzo per ritrovare la mia Teheran perduta erano i ricordi e qualche libro di poesia che avevo portato con me. Nelle sere di sconforto, in quella cittadina umida e grigia chiamata Lancaster, mi raggomitolavo sotto le coperte con la borsa dell´acqua calda, e aprivo a caso uno dei tre libri che tenevo sempre sul comodino: Hafiz, Rumi e una poetessa iraniana moderna, Forugh Farrokhzad. Leggevo fino a tarda notte, un´abitudine che non ho perso, e mi addormentavo solo quando le parole mi avvolgevano, simili agli aromi di un vecchio negozio di spezie, facendo riemergere la mia lontana ma non dimenticata Teheran.
Allora non sapevo che stavo costruendo una nuova casa, un mondo portatile che nessuno avrebbe avuto il potere di strapparmi mai più. E mi adattai alla nuova casa leggendo e studiando Charles Dickens, Jane Austen, le Bront e William Shakespeare, che incontrai con un brivido di puro piacere il primissimo giorno di scuola. Più tardi, ovviamente, avrei cominciato a scoprire l´America attraverso lo stesso prodigio dell´immaginazione: i libri di Francis Scott Fitzgerald, Saul Bellow, Mark Twain, Henry James, Philip Roth, Emily Dickinson, William Carlos Williams e Ralph Ellison.
Che fossi in Inghilterra o in America, comunque, al centro della mia esistenza c´era sempre l´idea del ritorno.
Il mio Iran perduto si imponeva in tutti i momenti della mia vita e arrivai persino a trasferirmi per un semestre nel New Mexico solo perché laggiù le montagne e le notti stellate mi ricordavano quelle della mia infanzia. Alla fine dell´estate del 1979, due giorni dopo la discussione della tesi, eccomi dunque a bordo di un aereo diretto a Teheran via Parigi.
Ma appena atterrai all´aeroporto di Teheran, capii senza ombra di dubbio che la casa di un tempo non era più casa. E, in effetti, sono convinta che la propria abitazione non dovrebbe mai essere “troppo casa”, vale a dire troppo confortevole e perfetta. Mi viene sempre in mente l´affermazione di Adorno secondo cui «la forma più elevata della morale è non sentirsi a casa a casa propria».
Quindi devo essere grata alla Repubblica islamica dell´Iran per avermi spronata a pormi delle domande, per avere modificato la mia concezione di casa, e per tante altre cose.
Casa mia non era più casa anche in un altro senso; non tanto perché mi aveva destabilizzata e costretta a cercare nuove definizioni, ma soprattutto perché aveva fatto in modo che le sue stesse definizioni entrassero in me, trasformandomi in un´entità “aliena”. Nel nome del Paese, della religione e delle tradizioni che pure erano miei, si era stabilito infatti un nuovo regime, pronto a dichiarare che il mio aspetto e le mie azioni, ciò in cui credevo e quello che desideravo come essere umano, come donna, scrittrice e insegnante era sostanzialmente estraneo a questa casa.
Nell´autunno del 1979 insegnavo Huckleberry Finn e Il grande Gatsby in aule spaziose al secondo piano dell´Università di Teheran, senza rendermi conto della straordinaria ironia della situazione: giù in cortile c´erano studenti islamici e di sinistra che gridavano: «A morte l´America!» e, poco più in là, l´ambasciata degli Stati Uniti era assediata da un gruppo di universitari che dicevano di «seguire la via dell´imam». Il loro imam era Khomeini, che aveva intrapreso una guerra in nome dell´Islam contro l´Occidente pagano e le sue miriadi di agenti infiltrati. Non era solo una guerra religiosa. Il fondamentalismo che predicava era basato tanto sulla religione quanto sulle ideologie estremiste – comuniste e fasciste – dell´Occidente. Allo stesso modo, i suoi obiettivi non erano solo politici; con l´appoggio dei radicali di sinistra condusse una sanguinosa crociata contro l´»imperialismo» occidentale, a favore dei diritti delle donne e delle minoranze, della libertà culturale e dell´individuo. Questa volta mi accorsi di avere perso la connessione con l´altra casa, l´America di cui avevo letto in Henry James, Richard Wright, William Faulkner e Eudora Welty.
In un adattamento russo dell´Amleto distribuito in Iran, Ofelia fu eliminata dalla maggioranza delle scene; nell´Otello di sir Laurence Olivier, la parte di Desdemona fu tagliata nella maggior parte del film e anche il suicidio di Otello fu espunto perché, secondo i censori, avrebbe rattristato e demoralizzato le masse! In Iran le masse erano una strana categoria, perché parevano soffrire di più assistendo alla morte di un personaggio immaginario sullo schermo che non subendo fustigazioni e lapidazioni di persona. E, mentre a scuola le studentesse venivano rimproverate se ridevano apertamente o se correvano in cortile, se avevano le stringhe delle scarpe colorate o se portavano braccialetti variopinti, nei cartoni animati di Braccio di Ferro fu eliminata Olivia da quasi tutte le scene perché la relazione fra i due personaggi era illecita.
Il risultato fu che i cittadini iraniani, uomini e donne, cominciarono inevitabilmente ad avvertire la presenza e l´invadenza dello Stato in ogni momento della loro quotidianità. Lo Stato non si limitava a punire i criminali che minacciavano la vita e la sicurezza della popolazione, ma controllava le persone, comminando pene detentive e frustate se solo si aveva lo smalto sulle unghie, le scarpe della Reebok o il rossetto sulle labbra; vigilava su ragazze e ragazzi che apparivano insieme in pubblico. In breve, ciò che fu messo sotto accusa e «sotto sequestro» furono i diritti individuali e civili degli iraniani.
Anni dopo, la fatwa dell´ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie non volle stabilire un confine tra l´Islam e l´Occidente, come dissero alcuni, ma fu una reazione ai pericoli rappresentati per una mentalità totalitaristica – che non può tollerare alcuna forma di ironia, ambiguità e irriverenza – dalla fervida fantasia di un individuo. Come affermò Carlos Fuentes, l´ayatollah aveva emesso una fatwa che, attraverso lo scrittore, colpiva la stessa forma democratica del romanzo. Questa racchiude una molteplicità di voci, con prospettive diverse e talvolta opposte, in uno scambio critico in cui una non elimina l´altra. Poteva esserci una sovversione più pericolosa di questa democrazia di voci? E, in questo senso, lo straordinario patrimonio della letteratura americana continuò a ricordarmi in quegli anni quanto la democrazia vera dipenda da quella che potremmo chiamare «immaginazione democratica».
Invece, secondo i “guardiani della moralità” della Repubblica islamica, libri come Lolita o Madame Bovary erano moralmente corrotti; davano il cattivo esempio ai lettori e li spingevano a commettere azioni immorali. Come tutti i totalitaristi, questi burocrati non riuscivano a distinguere la realtà dalla fantasia, e pretendevano di imporre la propria versione della verità sia sulla vita sia sulla finzione letteraria. Eppure, non leggiamo Lolita per saperne di più sulla pedofilia, così come non decidiamo di andare a vivere sugli alberi dopo avere letto Il barone rampante di Calvino. Non leggiamo per trasformare le grandi opere letterarie in repliche semplicistiche della nostra realtà, ma per il sensuale, puro e semplice piacere di leggere. La ricompensa sta nella scoperta dei tanti livelli nascosti all´interno di queste opere, che non si limitano a rispecchiare la realtà, ma rivelano uno spettro molteplice di verità, andando così contro l´atteggiamento di qualsiasi mentalità totalitaria.
In Iran, invece, i governanti imposero sulle nostre vite e sulla nostra realtà i fantasmi della loro stessa fantasia. Le mie studentesse non potevano godersi i piccoli piaceri della vita che una di loro, Yassi, definiva “proscritti”, quelli così facilmente disponibili per gli altri, come la carezza del sole sulla pelle o del vento tra i capelli. La semplice azione di uscire di casa ogni giorno diventava una tormentosa e colpevole menzogna, perché eravamo obbligate a metterci il velo e ad assumere l´immagine fasulla che lo Stato aveva concepito per noi.
Per negare e sfuggire a quell´immagine a noi estranea, a quella falsità forzata che partiva dall´aspetto esteriore e permeava ogni sfaccettatura della nostra vita, dovevamo ricreare noi stesse e recuperare l´identità che ci era stata sottratta, resistendo all´oppressore con le nostre risorse creative e rifiutando di adottare il suo linguaggio. In Iran la resistenza era diventata sinonimo di confronto non violento, da attuare sia attraverso richieste politiche, sia con il rifiuto dell´omologazione, insistendo invece sul senso di integrità dell´individuo. In altre parole, chiedevamo di essere rispettate e riconosciute per quelle che eravamo e rifiutavamo di diventare gli spettri in cui il regime voleva trasformarci.
Con l´andare del tempo, inesorabilmente, le regole stesse che erano state messe a punto per tenere a bada i cittadini diventarono le armi con cui gli iraniani esprimevano il proprio dissenso. Dal momento che la Rivoluzione aveva trasformato le vie di Teheran e di altre città nel teatro di una guerra culturale, in cui i funzionari dello Stato non punivano i cittadini per la detenzione di pistole o granate ma per altre armi, anche più potenti (una ciocca di capelli, un nastro colorato, occhiali da sole alla moda), il regime aveva politicizzato non solo un gruppo ristretto di dissidenti ma tutti gli iraniani. Eravamo piene di energie, non tanto perché la politica fosse connaturata in noi, quanto per il desiderio di conservare la nostra integrità individuale di donne, scrittrici, insegnanti, in breve, di cittadine comuni che volevano vivere la propria vita.
Meno di dieci anni dopo la morte dell´ayatollah Khomeini i rivoluzionari “illuminati” (gli ex giovani veterani della guerra e della Rivoluzione) cominciarono a chiedere maggiori libertà e diritti politici. La scomparsa dell´ayatollah li aveva lasciati soli a fronteggiare la rabbia che provavano per i tanti sogni mai avverati e i tanti desideri mai espressi. Così, gli stessi ex rivoluzionari che nel 1979 avevano condannato ogni forma di modernità e democrazia, adesso dovevano guardare dentro se stessi e mettere in dubbio la propria ideologia. Porsi domande divenne una priorità perché sapevano di essere diventati un gruppo isolato all´interno della popolazione iraniana ed erano consapevoli che i loro ideali avevano perso in fretta credibilità.
Attualmente le forze più potenti in grado di cambiare il panorama sociale dell´Iran sono le donne e le generazioni più giovani, quelle stesse che, secondo le speranze degli islamisti, avrebbero dovuto riaccendere l´ardore politico da tempo perduto dai loro genitori. I membri di questa generazione, invece, hanno rifiutato di conformarsi alle regole autoritarie imposte loro; gli studenti iraniani hanno occupato le prime file nella lotta per le libertà sociali, culturali e politiche. Questi giovani sono perfettamente consapevoli di quanto la libertà politica dipenda dalla salvaguardia dei diritti e degli spazi individuali. Hanno sfidato i controlli morali inventandosi modi creativi per resistere alle norme imposte nell´abbigliamento, tenendosi per mano, ridendo apertamente e guardando film proibiti. Nei primi anni del nuovo secolo i “guardiani della moralità” si sono dovuti ritirare dalle vie di Teheran. E, in un certo senso, fa sorridere che molti giovani iraniani, vale a dire i figli di quelli che un tempo si erano schierati contro Il grande Gatsby, si siano messi a leggere Heinrich Bll, Milan Kundera e Francis Scott Fitzgerald, oltre ad Hannah Arendt e Karl Popper.
Una cosa che mi sono sempre chiesta è perché nelle peggiori condizioni politiche e sociali, durante guerre e rivoluzioni, nelle prigioni e nei campi di concentramento, la maggior parte delle vittime si accosti alle opere di fantasia… Ricordo che circa dieci anni fa incontrai una mia ex studentessa, da poco scarcerata. Mi raccontò che lei e una compagna di cella, di nome Razieh, anche lei mia ex allieva, si facevano forza ricordando insieme le discussioni fatte in classe o gli autori che avevano letto, da Henry James a Francis Scott Fitzgerald. La mia studentessa mi disse poi che Razieh era stata uccisa poco prima che lei fosse rilasciata. Da allora continuo a pensare ai luoghi che hanno attraversato queste opere letterarie, dalle biblioteche e dalle aule scolastiche alle celle buie delle prigioni. Sappiamo bene che la fantasia non può salvarci dalle torture e dalle violenze dei regimi tirannici, né dalle banalità e dalle crudeltà della vita.
James, l´autore preferito di Razieh, non l´ha salvata dalla morte; eppure c´è un senso di trionfo nella scelta fatta da questa ragazza quando ogni possibilità di scelta sembrava esserle stata tolta. Come molti prima di lei, Razieh aveva conservato il diritto di decidere come comportarsi di fronte a una fine spietata e immediata. Rifiutò di piegarsi al comportamento disumano e degradante impostole dai carcerieri, mantenendo vivo il ricordo delle esperienze che le avevano dato più gioia in tutta la vita. Di fronte alla morte, aveva celebrato ciò che attribuiva dignità e significato alla vita, ciò che più rispondeva al suo senso della bellezza, del ricordo, dell´armonia e dell´originalità: in altre parole, una grande opera della fantasia. Il suo personale mondo portatile.
Si potrebbe pensare che opere del genere acquistino grande significato in un Paese mutilato delle libertà fondamentali, ma che non siano granché rilevanti in uno Stato libero e democratico. Quanto sono importanti Fitzgerald, Twain e Flannery O´Connor, vi chiederete, per la vita nel mondo occidentale?
Risponderò semplicemente con un passo di Huckleberry Finn, in cui Huck deve decidere se lasciare andare Jim. Huck sa che a catechismo «t´imparavano che la gente che si comporta come ti sei comportato tu», cioè liberando uno schiavo, «finisce tra le fiamme dell´inferno». Eppure il suo cuore si ribella alle minacce di queste autorità “morali”. Si vede davanti Jim «di giorno e di notte, certe volte al chiaro di luna, certe volte durante un temporale, e intanto scendevamo il fiume parlando, cantando, ridendo. Ma non riuscivo a trovare qualcosa che mi faceva arrabbiare con lui, se mai il contrario». Nel momento in cui si ricorda dell´amicizia e dell´affetto di Jim e non lo percepisce più come uno schiavo, ma come un essere umano, decide: «Va bene, andrò all´inferno».
Nella letteratura americana Huck ha molti improbabili compagni di viaggio: le donne garbate e distinte di Henry James, quelle inquiete e tormentate di Zora Neale Hurston e di Toni Morrison, i sognatori, come il Gatsby di Fitzgerald; e tutti loro decidono che preferirebbero rinunciare al paradiso e rischiare l´inferno pur di ascoltare la voce del cuore e della coscienza. Tutti mostrano una toccante mescolanza di coraggio e vulnerabilità che sfida le risposte facili, le formule rigide e le soluzioni semplicistiche. Quanti di noi oggi rinuncerebbero al paradiso promesso dal catechismo per il tipo di inferno che alla fine Huck sceglie per se stesso?
Come ci ricorda Saul Bellow nel Dicembre del professor Corde, una cultura che ha perso la poesia e l´anima è una cultura che corre incontro alla morte. E la morte non sempre arriva sotto le sembianze di dittatori che appartengono a Paesi lontani; vive fra noi, sotto forme diverse, spacciandosi per un´amica. Confondere discorsi frammentari con pensieri profondi, politica con etica, reality show con intrattenimento creativo; dimenticare il valore dei sogni; perdere la capacità di immaginare una morte violenta in Darfur, Afganistan o Iraq; assistere agli omicidi in tv come a una notizia di poco conto: non sono forse tutti indizi del fatto che oggi più che mai ci servono il coraggio e l´integrità, la fede, l´immaginazione e i sogni che questi libri hanno infuso in noi? Non è forse il momento giusto per preoccuparsi, come fa l´eroe di Bellow, di quello che accade se un Paese perde la poesia e l´anima?
Abbiamo bisogno di scrivere tutto ciò. Di raccontare quello che accade a noi e agli altri mentre lottiamo per salvare noi stessi dalla disperazione, per ricordarci che i tiranni di ogni sorta non possono sottrarci il nostro bene più prezioso. Possono mettersi sulla nostra strada fanatici di ogni genere; possono condannarci, ucciderci e mutilarci nel nome del progresso o di Dio. Ma non possono privarci degli ideali. Non possono portarci via la nostra umanità.
Calvino una volta disse: «Possiamo liberare noi stessi solo se liberiamo gli altri, perché questa è la condizione sine qua non per la propria liberazione. Ci devono essere la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo». Poi aggiunse un´affermazione molto semplice che, per me, è l´essenza di tutto: «Dev´esserci anche la bellezza».
Solo in queste condizioni, nell´insistenza prettamente umana sulla bellezza, nelle idee rivelatrici, nei particolari della nostra storia, di ciò che temiamo, di quello che desideriamo, fiorisce la fantasia.
Troppo spesso ci capita di definirci creature pratiche, animali politici. Ma in noi alberga un impulso molto più grande, la tendenza verso quello che chiamerei semplicemente l´universale. Ed è proprio su questo terreno comune che ci avviciniamo a quello che realmente ci lega: cultura, storia, lingua. Perché è qui, in quella che a me piace chiamare “la Repubblica dell´Immaginazione”, che riveliamo davvero la nostra natura di esseri umani.

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