23 Gennaio 2020
Il Quotidiano del Sud

Bentornata Charlotte Salomon

di Franca Fortunato


Ho incontrato Charlotte Salomon diversi anni fa, grazie al libro Charlotte Salomon – I colori della vita, della mia amica e critica d’arte Katia Ricci (ed. Palomar 2006). L’ho rincontrata giorni fa al Polivalente di via Fontana Vecchia, Catanzaro, alla presentazione del libro a fumetti Charlotte Salomon – I colori dell’anima, di Ilaria Ferramosca e Gian Marco De Francisco (ed. Becco Giallo 2019). Il mio primo pensiero è stato “ben tornata Charlotte”, ben tornata alla donna che, nell’epoca buia della Shoah, pur restando aderente alla realtà del suo/nostro tempo, ha saputo fare della sua arte, della sua creatività, la fonte della sua/nostra salvezza spirituale e umana, scegliendo di vivere intensamente fino all’ultimo giorno della sua vita, finita a 26 anni ad Auschwitz. Stessa sorte toccò al marito Alexander Nagler. Charlotte è nata a Berlino il 16 aprile 1917 da Franziska Grunewal, musicista, e Albert, medico chirurgo, entrambi ebrei assimilati. Era figlia unica ed ebbe un’infanzia serena fino a quando a nove anni la madre si suicidò, gettandosi da una finestra di casa. A lei, per proteggerla, fu detto che era morta per un’influenza. Soltanto dopo il suicidio della nonna, molti anni più tardi, il nonno le rivelò che anche la madre e altre quattro donne della famiglia si erano tolte la vita. Il padre si risposò con Paula Levi, cantante lirica, con cui Charlotte ebbe un rapporto molto intenso. All’avvento del nazismo, con l’emanazione delle leggi antisemite, dovette abbandonare il liceo. Dopo un viaggio con i nonni in Italia, dove rimase affascinata dalle opere di Michelangelo, decise di dedicarsi all’arte e nel ’36 entrò all’Accademia, anche se ebrea, perché il padre era un reduce di guerra. Dopo il pogrom della “notte dei cristalli” la famiglia la mandò a Nizza, dove si erano rifugiati i nonni. Con lo scoppio della guerra, dopo il suicidio della nonna, dopo l’internamento suo e del nonno per tre settimane nel campo di lavoro di Gurs nei Pirenei, Charlotte cadde in depressione ed è per uscirne ed allontanare da sé la minaccia del suicidio che dette inizio alla sua autobiografia illustrata, “Vita? o Teatro?”, lavorando moltissimo e in soli due anni (‘40-‘42) dipinse 1325 fogli che affidò all’amico dottor Moridis, dicendogli: “Ne abbia cura. Le affido tutta la mia vita”. Una vita raccontata, in immagini e parole, come un viaggio a ritroso nel tempo e nella interiorità, con sullo sfondo il clima torbido, crudele e insensato in cui le è toccato vivere. L’arte per Charlotte diventa, non evasione, non fuga dal reale, ma unica possibilità di sopravvivenza, di costruzione del proprio destino di donna, che ama e crea per salvarsi dalla trappola mortale dell’odio e della vendetta, in cui gli altri vorrebbero rinchiuderla. L’arte l’ha salvata dalla depressione, dal vittimismo, dal rancore così come il disseppellimento di Dio dentro di sé ha salvato Etty Hillesum, la pensatrice ebrea olandese morta ad Auschwitz a soli 29 anni, un mese e 21 giorni dopo Charlotte, che ha saputo, attraverso la scrittura – ha scritto finché ha potuto, fino all’ultima cartolina gettata dal treno nell’ultimo viaggio per Auschwitz – confrontarsi con la sofferenza sua e di coloro che la circondavano. Come Charlotte anche lei non mirava a “salvare se stessa” ma a lasciare testimonianza di come uscire da un destino, deciso da altri, che si presentava ineluttabile e dare un senso universale alla sua vicenda. Charlotte lo fece con la sua pittura, Etty con la sua “scrittura del cuore” e la sua presenza nel campo di smistamento di Westerbork. Quando Charlotte fu uccisa nella camera a gas era incinta di quattro mesi, testimonianza di amore per la vita, di speranza e umanità salvata per sé e per noi.


(Il Quotidiano del Sud, 23 gennaio 2020)

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