2 Marzo 2012
il Fatto Quotidiano

“Blue nights” di Joan Didion

Lidia Ravera

Certe latitudini c’è un arco di tempo che precede e segue il solstizio d’estate, poche settimane appena, in cui il crepuscolo diventa azzurro». Cominci a notarlo quando aprile finisce e inizia maggio. Non è che faccia più caldo, è la luce, che dura oltre il tempo del giorno e porta con sé il presagio dell’estate. Sono le Blue Nights, che danno il titolo a questo struggente reportage, in libreria dall’8 marzo per “Il sa ggiatore”, dal territorio del lutto, di Joan Didion, scrittrice e sceneggiatrice, nata nel 1934 a Sacramento, vissuta per la prima parte della sua vita nel sole costante della California hollywoodiana e per l’ultima nei nitidi inverni newyorchesi, cui seguono, appunto, le «notti azzurre», invisibili da Los Angeles. «Durante il periodo delle notti azzurre pensi che la fine del giorno non arriverà mai», scrive Didion nell’introduzione, «Quando le notti azzurre volgono al termine, provi un brivido improvviso, un timore di ammalarti, nel momento stesso in cui te ne accorgi, la luce azzurra se ne sta andando, le giornate si son fatte più corte, l’estate è finita». La percezione della fine delle «blue nights», nella vita di Joan Didion, è scatenata da due morti: quella del marito, 30 dicembre 2003, improvvisa, mentre stava apparecchiando la tavola e lei gli parlava dalla cucina. E quella della figlia, (unica, amatissima, adottata alla nascita), venti mesi dopo. Blue nights ( notti azzurre, ma anche notti tristi), dedicato alla figlia Quintana Ro, è stato scritto dopo L’anno del pensiero mag ico, dedicato a John Gregory Dunne, anche lui sceneggiatore e scrittore, il marito. È un dittico coraggioso ed essenziale che condivide, con l’impalpabile platea dei lettori, pensieri «sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore». Per uno scrittore di razza è inevitabile mettere in parole la misteriosa enormità, la dismisura del dolore provocato dalla scomparsa di un essere umano molto amato, molto vicino. Quel vuoto definitivo, quella ferita immedicabile. Se decidi di tacerne, ti assale la paura che non scriverai mai più. Se non scrivi di quella ferita, sai che non puoi scrivere di nient’altro. Per questo, spesso, queste inevitabili autobiografie di un lutto, si rivelano toccanti e necessarie, quasi catartiche. Ne ricordo soltanto alcune: Nei mari estremi, di Lalla Romano, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forrest, cui muore di cancro una figlia di 4 anni. Si sente, pagina dopo pagina, il corpo a corpo, la lotta furibonda e sanguinosa, fra la misura, la disciplina dello scrivere e il magma ribollente della disperazione. Alla fine a vincere è il racconto, si spartisce il peso con l’ipotetico lettore, si prende una distanza. E, per un po’, la bestia è sedata. Lo stile della Didion, così volutamente disadorno, antiretorico, così dettagliatamente visionario sembra essere lo strumento perfetto per organizzare in un discorso compiuto l’innominabile. Come nei suoi romanzi, un uso sapiente della ripetizione di tre frasi, che riappaiono, qua e là, come un tema in una partitura musicale, è l’unico artificio che l’autrice concede al lirismo. La temperatura emotiva si alza, ma è una questione di ritmo, come se la pagina si mettesse improvvisamente a palpitare. L’identificazione scatta, perché la morte degli altri, prima o dopo, è esperienza di tutti, ma non degenera in facile commozione, perchè la scrittura domina e raffredda. In Blue Nights, Didion non racconta soltanto la morte di sua figlia, a venti mesi dal giorno del matrimonio, quando aveva gelsomini del madagascar intrecciati nei capelli e un fiore di frangipane tatuato sulla pelle. Racconta le luci e le ombre di una maternità elettiva. L’amore narciso che riversa sulla bambina l’eccedenza d’ingegno dei genitori, caricando la sua infanzia di parole da grande. Ma, soprattutto, racconta il modo in cui la malinconia ti aggredisce, quando, dietro di te, il passato è, ormai, una vita intera. È come passare un confine invisibile: «un giorno siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi. Il giorno dopo non più».

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