1 Ottobre 2010
Autogestione e politica prima

Buone pratiche di vicinato e di prossimità

Alessandra De Perini.

Recensione di SPERANZA NEL BUIO, Guida per cambiare il mondo
di Rebecca Solnit (Fandango libri, Roma 2005)

Chi avrebbe immaginato, solo due decenni fa, un mondo in cui fosse scomparsa l’Unione Sovietica e avesse fatto il suo arrivo Internet? E che il prigioniero politico Nelson Mandela sarebbe diventato presidente del Sudafrica trasformato o che la rivolta zapatista nel Messico meridionale avrebbe segnalato il risorgere dell’universo indigeno? Rebecca Solnit, saggista e critica d’arte femminista, dalla prosa brillante e incisiva, attiva nei movimenti del suo paese, gli Stati Uniti, pone queste domande all’inizio del testo intitolato Speranza nel buio – guida per cambiare il mondo, una raccolta di brevi saggi, pubblicata nel 2005, in piena epoca Bush. La Solnit afferma che ci sono momenti in cui non solo il futuro, ma lo stesso presente sono oscuri e che solo poche persone riconoscono quanto sia radicalmente trasformato il mondo in cui viviamo. L’autrice vuole proporre una nuova visione del modo in cui avvengono le trasformazioni e sostiene, criticando la concezione meccanicistica del cambiamento, basata sulla logica dei rapporti di causa/effetto, che bisogna innanzitutto “cambiare l’immaginario del cambiamento”. Questo, secondo lei, è il grande problema di oggi. I cambiamenti, le rivoluzioni che contano, infatti, per la Solnit, si svolgono innanzitutto dentro di noi, nella nostra mente e nelle forme della nostra immaginazione. Il cambiamento più difficile è rendersi conto che la politica nasce dalla diffusione delle idee e dalla immaginazione che prende forma. I cambiamenti che contano sono così difficili da fare, perché non scorrono lungo il tempo lineare della Storia, ma seguono il tempo della vita materiale, con i suoi umori, la sua lentezza, le improvvise intuizioni. La storia, dice Rebecca Solnit, non è un esercito che marcia sempre avanti, obbedendo al principio di causa ed effetto, è come “un granchio che scappa lateralmente”, è “un rivolo d’acqua che gocciola sulla pietra consumandola”, un “terremoto che spezza secoli di tensione”. A volte poche persone ricche di passione cambiano il mondo, a volte le parole di una persona sola ispirano un movimento, anche dopo molti anni. A volte il cambiamento avviene improvvisamente, come quando cambia il tempo; a volte, invece, è necessario un accumulo graduale di cambiamenti impercettibili perché si determini una svolta nella storia.
Senza speranza, tuttavia, nessun cambiamento è possibile. Convinta che il mondo attuale sia assai migliore di quello di ieri, la Solnit sostiene che i motivi di speranza oggi non mancano. La società civile, infatti, negli ultimi vent’anni ha assunto un ruolo sempre più influente e significativo. Il futuro è oscuro, è vero, ma non nel senso di cupo e minaccioso, quanto piuttosto imperscrutabile, inconoscibile. Accadono, infatti, tutti i giorni cose impreviste e imprevedibili dalla nostra immaginazione.
La trasformazione del mondo attuale, secondo Solnit, è dovuta non solo al capitale globale, ma anche e soprattutto ai sogni di libertà e giustizia di tanta gente in ogni parte del mondo. Ci adattiamo alle trasformazioni, senza valutarle pienamente e tendiamo a dimenticare quanto sia cambiata la cultura. Decisioni che sarebbero state impensabili solo pochi decenni fa, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, oggi sono possibili. Il mondo è sempre più imprevedibile rispetto alla nostra capacità di immaginazione. Nel 1982, per esempio, un milione di persone si radunarono nel Central Park di New York per chiedere il congelamento bilaterale degli ordigni nucleari, come primo passo sulla via del disarmo. Non l’ottennero e molte di quelle persone tornarono a casa deluse o sfinite. Tante però continuarono la lotta, così in meno di un decennio furono negoziate riduzioni significative delle armi nucleari, con l’aiuto dei movimenti antinucleari europei. Da allora, la corsa al riarmo prosegue e nuove nazioni scelgono il nucleare. Questo però non compromette il valore di quella lotta. L’attivismo di quella stagione è finito a causa della sua visione rigida e di un calendario difficile da rispettare, ma anche perché, sostiene la Solnit, nessuno aveva saputo prevedere che alla fine del decennio la guerra fredda sarebbe terminata. Quelle e quelli che si erano impegnati nella lotta non sono rimasti in campo sufficientemente a lungo per raccogliere il “dividendo della pace” e per questo sono rimaste/rimasti a mani vuote. È sempre troppo presto per tornare a casa, dopo l’impegno politico attivo ed è sempre troppo presto anche per calcolare gli effetti delle nostre azioni. Un’attivista che militava nel “Women Strike for Peace” (Donne in sciopero per la pace), il primo grande movimento antinucleare degli Stati Uniti (ottenne il Trattato per la limitazione dei test nucleari del 1963) racconta di come si sentisse stupida e inutile una mattina, mentre protestava sotto la pioggia di fronte alla Casa Bianca. Alcuni anni dopo però, le capitò di ascoltare il dottor Benjamin Spock che dichiarava di essersi convinto proprio allora ad intervenire contro i test nucleari per la pericolosità della ricaduta dei materiali radioattivi che si ritrovavano nel latte materno e nei denti dei bambini: quel piccolo gruppo di donne così appassionate e impegnate, che si dichiaravano casalinghe e protestavano sotto la pioggia davanti alla Casa Bianca, abitata allora da Kennedy, e mettevano in ridicolo i membri del Comitato parlamentare per le attività antiamericane gli avevano fatto capire improvvisamente che, come loro, era giusto che anche lui dedicasse attenzione e impegno al problema.
Le trasformazioni hanno in comune il fatto di avere inizio nella speranza e nell’immaginazione. All’inizio di ogni grande cambiamento c’è chi punta sul futuro e spera che il suo desiderio si avveri o chi pensa che l’incertezza e il gioco d’azzardo siano meglio della sicurezza e dello sconforto. Vivere significa rischiare e sperare è pericoloso. La speranza è per Rebecca Solnit “un’ascia che serve ad abbattere le porte in caso di emergenza”. La speranza si serve di ogni parte di noi per far cambiare rotta alla società, per allontanare il futuro dalla guerra, dall’annientamento dei tesori del pianeta e dallo stritolamento di masse di persone povere e marginali. La speranza chiede l’azione e agire è impossibile senza speranza. Sperare significa donarsi al futuro, prendere un impegno preciso nei confronti del futuro. Tutto può accadere e tutto dipende dal nostro agire o dalla nostra mancanza di azione. Per chi oggi si impegna per un futuro migliore è già in atto la sfida più grande, quella in cui si rischia il tutto per tutto. In ogni parte del mondo è in corso un processo di sradicamento causato della volontà di dominio globale. La civiltà tecnologica sta distruggendo la natura da cui dipendiamo. Tuttavia il futuro, benché oscuro, dipende in parte ancora da noi, dalla nostra azione, dal nostro pensiero.
In questo libro Rebecca Solnit rende conto del mondo incredibilmente trasformato in cui viviamo e propone di non sottovalutare le vittorie politiche degli ultimi vent’anni che, una dopo l’altra, pone davanti ai nostri occhi perché le vediamo con occhi nuovi e ci rendiamo conto di quanto siano importanti per il presente: sono punti di riferimento nel disorientamento generale, leve straordinarie per uscire dallo sconforto e dalla delusione e progettare nuove trasformazioni. La Solnit fa un bilancio delle possibilità e dei pericoli che abbiamo davanti in questo momento e cerca di cogliere in ogni parte del mondo quei segni di libertà e di giustizia di cui abbiamo bisogno per continuare, appunto, a sperare e a non rinunciare all’azione.
Lia Cigarini, sempre molto attenta a quello che accade negli Stati Uniti, nel numero 92 (marzo 2010) della rivista Via Dogana, intitolato “Cambiare l’immaginario del cambiamento” riprende la Solnit, collocandola tra quelle donne che si danno l’autorità di indirizzare l’agire politico dei grandi movimenti (pacifista, ambientalista, no global), nei quali sono attive. Basta pensare a Naomi Klein, autrice di No logo, che ha saputo convincere il movimento No global americano sul valore politico e l’efficacia degli atti simbolici e culturali, evitando così la deriva della contrapposizione che conduce inevitabilmente allo scontro di piazza, come è avvenuto in Europa. Oppure si pensi, dice Lia Cigarini, a Sara Horowitz, a Susan Sontag, a Elinor Ostrom, alle tante filosofe, sociologhe, economiste che, abituate a una politica diretta, agiscono e prendono la parola in prima persona. Cigarini afferma che i testi di queste donne, in cui c’è l’eco profondo del femminismo degli anni ’60 e ’70, costituiscono la teoria dei movimenti attuali in Usa. Anche in Italia, continua la Cigarini, ci sono tante donne che camminano nella politica e fanno teoria (per esempio, il movimento di “Autoriforma della scuola”, il Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano che ha prodotto il “Sottosopra” sul lavoro, il movimento “No dal Molin” di Vicenza e molte altre esperienze in ogni parte d’Italia), ma non hanno la forza di cambiare il modo di fare la politica né l’immaginario connesso, secondo cui il necessario compimento della politica sarebbe la costruzione di un partito o la rappresentanza parlamentare. Secondo Cigarini, i partiti italiani, divenuti delle pure sigle per eleggere deputati e senatori, come negli Usa, nell’immaginario di tanti militanti e di elettori/elettrici sono ancora il cardine della politica e della democrazia e questa mancanza di consapevolezza “finisce per mettere ai margini della politica quello che succede nelle aree creative, che dovrebbero esserne invece il centro”. A questo punto Lia Cigarini, rilanciando la sfida di Rebecca Solnit, si rivolge: ai delusi e alle deluse della politica, in particolare a quelle e quelli della sinistra italiana che continuando a ripetere che tutto va a rotoli, chiedendo loro di voltarsi verso le aree creative che ci sono, e tante, in primo luogo quella delle donne; a quelle e quelli che non credono più nel valore e nell’efficacia del voto per cambiare le cose o a quelle e quelli che fanno una politica reattiva, di pura contrapposizione alle mosse dell’avversario, ma anche a quelle donne impegnate nella politica della differenza che troppo insistono sulla pratica del partire da sé e delle relazioni e che forse, senza volerlo, ostacolano la varietà delle narrazioni, l’aprirsi di nuovi orizzonti. L’impegno politico non va visto unicamente come risposta alle innumerevoli emergenze e ai pericoli del mondo contemporaneo, afferma Lia Cigarini, riprendendo la Solnit, ma come una parte gioiosa della vita quotidiana. Già circolano nuove narrazioni e bisogna tener conto del fatto che non tutte/tutti sono disponibili a portare un bagaglio pesante, fatto di delusione, disperazione e profonda sfiducia. Ecco allora la sfida che con molto coraggio la Solnit lancia alla politica tradizionale di sinistra: dissolva nell’acqua le proprie certezze, non per sostituirle, ma per costruire nel presente, faccia la politica del presente, del qui e ora, mettendo al primo posto il contesto reale dell’azione e non l’ideologia, non pretenda di controllare il futuro, ma si decida ad abbandonare il potere per trovare la libertà.

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