di Alberto Asor Rosa
Sulla strada tracciata da Amelia Rosselli e Alda Merini, le raccolte di versi più interessanti degli ultimi anni sono di autrici. Donne capaci di costruire una lingua nuova e anticonformista. Ecco un vademecum per orientarsi
È assai notevole – come ho già rilevato più volte anche su queste pagine – il ruolo giocato dalle poesie scritte da donne nella storia della poesia italiana contemporanea. Alle cose già dette, vorrei aggiungere ora altre considerazioni, approfittando di alcune recenti, importanti pubblicazioni.
In una linea genealogica approssimativa, s’intende, ma penso, non del tutto incoerente, ci sono all’inizio di questa fase del discorso le autrici che, sia pure su di una scalarità generazionale non indifferente, sono di sicuro punti di riferimento per quanto è avvenuto dopo: parlo di Amelia Rosselli; Alda Merini; Patrizia Cavalli (da vedere Poesie, 1974-1992, Einaudi); Biancamaria Frabotta (da vedere ora il recentissimo Tutte le poesie, 1971-2017, uscito nella collana Lo specchio di Mondadori).
Giovanna Rosadini, nella prefazione a Nuovi poeti italiani, vol. 6 della serie della collana “bianca” einaudiana, che elenca e rappresenta poetesse delle generazioni successive (dal ’47 all’81 le date di nascita delle autrici presenti), si chiede esplicitamente: «Si può parlare di una specificità femminile in poesia?»; e risponde con una frase di Amelia Rosselli: «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere». Spiega più avanti Rosadini: il «primo elemento che accomuna le scrittrici riunite in questo volume» è «la forte tensione conoscitiva che ne permea i versi».
Se dipendesse da me, specificherei. Se la tensione conoscitiva è effettivamente presente in quasi tutte le poetesse italiane conosciute, dalla Rosselli, appunto, in poi, questa tensione si fonda e si trasmette su di un’esperienza linguistica che si allontana per quanto è possibile – cioè, il più possibile, senza al tempo stesso sfiorare i confini dell’incomunicabilità – dai linguaggi della comunicazione quotidiana. Vale a dire: è un’invenzione linguistica pura; molto più di quanto, secondo me, non accada nei poeti italiani contemporanei di sesso maschile, che continuano a mirare, nonostante tutto, ad un livello più alto e più semplice della comunicazione.
L’introspezione, quanto più si fa profonda, tanto più richiede un linguaggio proprio. Cioè: la conoscenza è conoscenza, è fuor di dubbio; ma a me pare che la conoscenza, per così dire, non si esaurisca in questo caso nel conoscere, ma pretenda di creare un mondo nuovo e diverso, che soltanto un linguaggio nuovo e diverso ha la facoltà, se non di conoscere, per lo meno d’intravedere. Ammesso che queste considerazioni abbiano un minimo di senso, altri, – o altre, ovviamente – potranno meglio di me approfondirle, o contestarle. A me pare, tuttavia, che queste considerazioni di ordine generale trovino una conferma in due splendide raccolte, apparse molto recentemente nella collana bianca di Einaudi, opera di due poetesse, direi, della generazione di mezzo: Patrizia Valduga (1953), Poesie erotiche; e Antonella Anedda (1955), Historiae. Siamo di fronte a esperimenti che testimoniano di un permanente lavoro di scavo e di approfondimento, su premesse già chiaramente date in passato, degno di ammirazione.
Valduga è autrice notissima, che nella “bianca” einaudiana ha già pubblicato diversi volumi. Mi concentrerò qui su poche osservazioni, che rimandano principalmente, anche se non esclusivamente, all’ultimo volume citato in precedenza.
Valduga è una maestra della forma chiusa, in particolare della quartina a rime alternate. In passato: Cento quartine e altre storie d’amore (1993), Quartine. Seconda centuria (2009); ora, in Poesie erotiche, nelle ampie sezioni “Lezione di tenebre” e “Cento quartine”, ma forme chiuse, per esempio la terzina, sono sparse un po’ dappertutto. Questo non esclude misure più lunghe del discorso; ma la ricorrenza dei metri chiusi mi sembra degna di considerazione.
Che vuol dire? Vuol dire che il pensiero-canto di Valduga è trattenuto dentro una ferma misura espositiva, nella quale parla più e prima a se stessa che ai suoi interlocutori.
Questo è ancor più visibile quando il tema dominante, come in questo ultimo caso, è l’amore: l’amore di ogni tipo e natura, da quello sentimentale e appassionato a quello più libero e sfrenato, fino a essere sboccato. Qui evidentemente c’è un’interlocuzione… come potrebbe non esserci, se il tema è erotico? Ma l’interlocuzione, anche nelle sue punte di voluta, volutissima volgarità, è il frutto di un colloquio che in un certo senso prescinde dall’interlocutore – oggi ovviamente, “il lettore” – e si rivolge pressoché integralmente ad un essere che una volta molto concretamente c’era, e con il quale appunto s’interloquiva, ma che ora non c’è più. Solo cogliendo l’eco profonda di questo lontano rapporto, il lettore di oggi entra nel gioco e coglie l’interlocuzione profonda che anche a lui viene offerta.
Di tutt’altro registro è la poesia di Antonella Anedda. Si potrebbe dire che la poesia di Valduga è fieramente asseverativa, quella di Anedda profondamente discorsiva. Comporta cioè sempre l’ipotesi di un colloquio, magari solo ipotetico o potenziale, con qualcuno che sta appena al di là della parola scritta, e potrebbe essere (anche solo potenzialmente), ripeto, uno qualsiasi di noi. Farò due esempi.
Scrive Anedda nel componimento di esordio: «Ogni tanto uso una lingua mia / la invento impastandola al passato / non la consegno se non in traduzione». I tre versi si spiegano meglio se si tengono presenti i tre versi che precedono quelli che abbiamo appena citato, e che dunque aprono l’intera raccolta. Sono in lingua sarda, cioè la lingua originaria, archetipica, dell’autrice. Il gioco ritorna diverse volte nella raccolta: sta a significare che, per l’appunto, come dice con grande chiarezza la stessa autrice, si può inventare una lingua poetica solo dall’introiezione di un passato, che si è depositato sul fondo del proprio presente, e aiuta a rivelarlo.
L’altro esempio. Scrive in un altro componimento Anedda: «Succede a volte fino a che siamo vivi, / di provare una pace inspiegabile. Forse la letizia / di cui parlano i santi e che non chiede niente, / è solo attenta, premuta sulla terra, / distante dalle stelle…». «Premuta sulla terra,/ distante dalle stelle…»: potrebbe essere una autodefinizione della poesia di Antonella Anedda.
È «contro la terra», cercando di spremere il senso – anzi, i sensi – e di tradurlo in un linguaggio comprensibile e umano, ma non ovvio, e mai scontato, che il ragionamento-discorso di Anedda si dispiega. Ci fa pensare che sia ancora possibile immaginare una realtà che non sia tutta ridotta a polvere e scarto.
(la Repubblica, 15 ottobre 2018)