31 Luglio 2013
Alfabeta2

Clarice Lispector, Le passioni e i legami, Feltrinelli 2013

recensione di Luisa Muraro

 

Era nata nel 1920 da genitori ebrei ucraini in fuga verso l’America attraverso un’Europa che si stava riprendendo dalla follia della Grande guerra e non sapeva di andare incontro a peggiori tragedie, ma sulla strada dei fuggiaschi un mostro era già appostato, l’antisemitismo. Arrivarono vivi in Brasile, i genitori e le tre figlie. Clarice, la minore, tornerà in Europa alla fine della seconda guerra mondiale (nel 44-46 la troviamo a Napoli), sposa di un diplomatico che la portò anche negli Usa, una vita che non le piaceva e cui pose fine con il divorzio. Tornò a vivere a Rio con i suoi due bambini, e riprese la sua strada che era di scrivere. “Non potrei vivere senza scrivere”, dirà. Il suo primo romanzo era apparso nel 1943. Di sé confidò pubblicamente: “Come nacqui? Per un quasi. Potrei essere un’altra. Potrei essere un uomo. Fortunatamente sono nata donna. E vanitosa. A un elogio sul giornale, preferisco che esca una mia buona foto”. Come mostra l’immagine di copertina di Le passioni e i legami, Clarice Lispector era una donna bella che nelle foto sorride raramente. Scrivendo, sempre tra fine notte e prima mattina, aveva l’abitudine di fumare; l’alba del 15 settembre 1966, nel suo appartamento di Rio de Janeiro, si addormentò con la sigaretta accesa e scoppiò un incendio che, dopo mesi di ospedale e sofferenze, le lasciò la mano destra e le gambe offese. Morì di cancro nel 1977, aveva cinquantasette anni.

Ma tutto questo che ho detto e il tanto altro che si può dire di lei, diventa superfluo in presenza della sua opera. Devo spiegare come. Nella sua opera c’è il molto e il tanto altro di ogni esistenza umana, tra gli estremi coincidenti del silenzio e del reale, ma è tutto preso nel processo del suo diventare impersonale: “io ho l’impersonale dentro di me e non è corrotto né corruttibile dal personale che talvolta mi inganna: ma mi asciugo al sole e sono un impersonale dal nocciolo secco e germinativo” (Acqua viva, Sellerio 1997, p. 27). In altre parole, la sua materia prima è il vivere e il sentire che per forza di cose sono il suo proprio vivere e sentire, che lei disfa perché si veda di che cosa sono fatti. La parola è l’agente di questa operazione, che lei, Clarice, asseconda.

Il fascino della sua scrittura è grande e strano, difficilmente analizzabile; una componente ne è il senso di liberazione che dà a chi legge, per una silenziosa decantazione dell’anima dalle cose che ingombrano, ma senza che niente di essenziale sia perduto, anzi: quello che era andato perduto ora è ritrovato e salvo.

I letterati del suo paese non hanno tardato a percepire la potenza innovatrice della sua scrittura, accostandola ai grandi della letteratura occidentale. Lei, che aveva fatto studi giuridici, obiettò con semplicità: io non li ho letti.

Davanti a un autore, qui un’autrice, di prima grandezza, tutti i commenti vanno bene e nessuno va bene. Conta la lettura.

Perciò facciamo festa al librone recentemente pubblicato da Feltrinelli che raccoglie i titoli maggiori dell’opera di Lispector, a cominciare da La passione secondo G.H. a L’ora della stella passando per La mela nel buio e L’apprendistato, oltre a un buon numero di racconti, in traduzioni di qualità, autrici Adelina Aletti e Renata Cusmai Belardinelli. Dico librone perché si tratta di ottocento pagine e quaranta euro, costoso per le persone scarse di soldi, scomodo da maneggiare per tutti. Credo di aver trovato un senso a questa operazione editoriale: la vedo come un ritorno in forze, dopo che i singoli libri di Lispector, immessi uno per uno nel mercato, non avevano ricevuto la risposta che meritavano. Con questo investimento massiccio, l’editore dice al mercato: io ci credo.

Non ripasserò la storia che ho visto dall’osservatorio della Libreria delle donne di Milano, aperta poco prima che la scrittrice brasiliana arrivasse in Italia grazie a La Rosa di Torino che pubblicò Un apprendistato (1981) e La passione secondo G.H. (1982). Preferisco cercare il perché della finora inadeguata ricezione italiana. Un motivo sta nella scarsa o nessuna sinergia tra pensiero femminista e cultura intellettuale, in Italia. Feltrinelli, per esempio, ha pubblicato di preferenza le femministe Usa di successo, ignorando il pensiero femminista italiano. Lispector, che non è mai stata femminista, è molta più vicina al femminismo “latino”, che rivendica la fortuna di nascere donna, che a quello nordico della gender theory.

Un altro, diverso, motivo sta nella mancata percezione dell’attrito tra lei e la cultura cosiddetta postmoderna. Le parentele tra Lispector e le avanguardie letterarie del Novecento sono innegabili ma sono superficiali. Lei pratica consapevolmente la decostruzione della fiction narrativa e ne rende partecipe la lettrice o il lettore, ma lo fa per l’esigenza di rendere dicibile il vero e non per approdare alla sua insensatezza. Lo dice il finale della Passione secondo G.H., che consideriamo il suo capolavoro, e meglio ancora lo dice l’impianto dell’Ora della stella. Qui, in una forma altamente godibile, l’autrice spoglia sé stessa e la sua opera dalle maschere che inventa per riuscire a vincere l’interdetto che colpisce la verità, e lo fa davanti a noi, ma non è uno spogliarello di relativismo postmoderno. Lo fa perché a noi che leggiamo, almeno a noi, arrivi quel vero la cui esigenza la spinge a scrivere. “Finché avrò domande e non avrò risposte continuerò a scrivere”, dichiara Rodrigo S.M, il suo alter-ego.

(Luisa Muraro, “Alfabeta2” n. 31, luglio-agosto 2013)

 

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