24 Gennaio 2000
Alias

Clarice Lispector, lettere sul bordo della vita

Giulia Siviero

Camminò sul brodo della vita, senza timore, “nuda e scalza e a mani e vuote”. Come una creatura dal cuore selvaggio che seppe entrare “nel tessuto proibito della vita”. Il figlio disse di lei che era un incrocio tra una tigre e un cervo. Clarice Lispector fu allo stesso tempo pietosa e spietata, presente e “altrove”, come solo chi non ha timore di sporgersi può essere. Lo fu attraverso gli occhi delle donne cui diede corpo, nei romanzi e nei racconti per i quali è considerata la più grande scrittrice brasiliana del Novecento. E lo fu nella vita, penetrando nei segreti dell’anima per ritrovare un luogo che andasse oltre l’individualità: “È fino a me dove vado. E da me esco per vedere. Vedere cosa? Vedere ciò che esiste”. Perché, aderire totalmente e immediatamente al reale è, per lei, “il massimo della spiritualità, l’unico modo in cui lo spirito può vivere”. Attraverso non le “ruote giganti” dell’esistenza, ma quelle minute, impercettibili: “gatti che entrano dalla finestra, capelli che cadono in primavera”. Ecco perché, ne La passione secondo G.H., forse il suo capolavoro, è nella visione di uno scarafaggio che scopre la trascendenza. Ecco perché, nell’ingoiare la materia biancastra (come il latte materno?) che ne fuoriesce dal corpo, scavalca la vita singolare.
Ponendosi fuori dalla misura umana e di fronte a ciò che non ha forma, consapevole che ciascuno incarna per un momento, per il tempo di una vita, quel flusso che sta prima, ancor prima dell’inizio. Ma la nientificazione dell’io, la perdita di sé (percorso mistico?) in cui Clarice Lispector ci trascina, non è mai mortifera attrazione per il nulla, bensì vertiginosa e amorevole consapevolezza di appartenere alla radice della vita. E che l’ha fatta sentire in vita sempre, “poco importa se propriamente io – scrive – non la cosa che ho deciso di chiamare convenzionalmente io. Io ero sempre stata in vita”. L’estraneità, la dissidenza, il torcere ciò che si è irrigidito, il disprezzo di un mondo “tutto uguale”, sono il cuore selvaggio di Clarice. Che pulsa anche nelle lettere, irrinunciabili, de La vita che non si ferma (Archinto, pp. 98, € 17,00). La vita che non si ferma fu la sua che, nomade a seguito del marito diplomatico, visse sempre altrove: “Tutto è senza radici”, confessa. la vita che non si ferma fu la sua, che non si arrese mai a una de-finizione, finzione e fine allo stesso tempo: “Giuro su Dio – scrive alla sorella minore – che se ci fosse un cielo, una persona che si è sacrificata per codardia verrà punita e andrà all’inferno. Chissà se una vita tiepida non venga punita per il suo stesso tepore. Prendi per te ciò che ti appartiene, e ciò che ti appartiene è tutto quel che la tua vita esige. Sembra una morale amorale. Ma quel che davvero è immorale è avere desistito da te stessa”. Ciò che Clarice Lispector ci offre sono un mondo e un linguaggio che rompono le regole del simbolico e fanno esplodere la sintassi. Ciò che ci offre è la possibilità di stare sulla soglia, tessere una trama che si riverbera nelle forme altre. Nessun prato è mai stato verde per Clarice. E nessun cielo azzurro. Perché lì, sul bordo della vita, un prato non è mai verde. Un cielo, mai azzurro.

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