28 Febbraio 2019
DEP Deportate, esuli, profughe

Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti

recensione di Simona Lunadei

 

Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, Affinità Elettive, Ancona 2017, pp. 313.

 

Questa pubblicazione consta di due parti ben distinte e allo stesso tempo inaspettatamente coese: il diario di una adolescente, rara testimonianza femminile del lavoro coatto, e due saggi di Anna Paola Moretti. Il primo è una accurata esegesi del diario, il secondo offre un importante quadro storico sulla deportazione della popolazione civile. Tre scritture con un registro diverso, una autobiografia, un’analisi del testo e un saggio storiografico, che si integrano una con l’altra, in un crescente armonico. Se il diario ha una immediatezza, tuttavia lontana da ingenuità, la lettura appassionata e partecipe di Anna Paola Moretti disegna un incontro quasi complice e allo stesso tempo profondamente rispettoso. Infine la ricostruzione puntuale degli studi sulla deportazione e delle contraddizioni politiche del dopoguerra tra memoria e rimozione si arricchisce dell’analisi di un contesto particolare, quale quello marchigiano, in cui è radicata la vicenda familiare di Magda Minciotti.

Il diario di Magda Minciotti, pubblicato nel 2017, scritto tra il 1944 e il 1945, è un documento prezioso per diverse ragioni. Innanzitutto perché pone al centro il lavoro coatto, una infamia a lungo assente dalla storiografia sulla resistenza al nazifascismo. Questa ha avuto un centro di studi cadenzato dai soggetti presi in considerazione e dal contesto politico. In modo schematico immediatamente dopo la liberazione sono stati studiati i combattenti maschi organizzati nelle formazioni legate ai partiti di massa della repubblica, PCI e DC, poi a partire dagli anni Ottanta i resistenti non armati e le donne. Infine i militari che hanno rifiutato di giurare fedeltà alla RSI e sono stati internati in campi di concentramento nazisti. Ultima categoria presa in considerazione i deportati in Germania per il lavoro coatto, sui quali solo nel 2006 l’Aned ha avviato una ricerca-raccolta delle loro memorie. Un’assenza stupefacente visto che milioni furono le donne e bambine ebree, polacche, zingare, militanti antifasciste, partigiane, dissidenti costrette per anni a dissanguarsi nelle fabbriche del III Reich. I campi di concentramento a partire dal ’42 si trasformano in gigantesche fabbriche, alimentate da forza lavoro gratuita rastrellata in tutta l’Europa occupata. Tuttavia, come ha notato Brunello Mantelli, il confine tra deportati per motivi politici e/o razziali e lavoratori coatti è molto labile e ricorrere a queste classificazioni rischia di sviare la ricerca storica e quindi il giudizio politico sul nazifascismo. È possibile che questa rimozione sia dovuta anche alla scelta volontaria di molte e molti fuorviati da una propaganda che prometteva lavoro e cibo. Un’opportunità, rivelatasi ben presto ingannevole, che ha proiettato su di loro un’aurea infamante di collaborazionismo, cui è seguito un isolamento, condiviso peraltro con quasi tutti quelli che sono scampati alla deportazione. Basta citare per tutti gli scritti di Primo Levi e di Lidia Rolfi Beccaria, anche lei costretta al lavoro coatto presso la Siemens con ragazzine di appena 12 e 14 anni.

Magda Minciotti, appena poco più che adolescente, viene arrestata per rappresaglia nel luglio del 1944 in quanto sorella di Giacinto, un esponente della resistenza marchigiana, in cui era coinvolta tutta la famiglia. La stessa Magda con grande coraggio aveva sventato la distruzione di un ponte dove i nazisti avevano collocato della dinamite, dunque una partigiana, anche se il suo arresto non sembra motivato da questa azione. In realtà il suo giovane e prestante fisico risponde all’impellente necessità dell’apparato produttivo tedesco di mano d’opera gratuita. La pubblicazione di questo diario è preziosa perché getta una luce non solo sulle sofferenze dei vinti ma sul sistema di sfruttamento della manodopera da parte di importanti industrie tedesche, più che complici sodali con il nazismo. La Minciotti lavorò per la Siemens, che non a caso nel dopoguerra, malgrado sul suo sito sia costretta a menzionare il lavoro forzato, si è sottratta a qualsiasi inchiesta e ha avuto l’accortezza di bruciare tutto il suo archivio due giorni prima dell’arrivo degli alleati.

La lettura di questo diario sorprende per la maturità dei sentimenti, ben oltre la giovane età dell’autrice. Se da un lato vi è la descrizione puntuale dei disagi materiali, dalla fame al freddo, alla fatica, dall’altra c’è quasi un atteggiamento di sfida al nemico nel non voler manifestare le sue debolezze. Allo stesso tempo cerca di comprendere le sue compagne di sventura, anche quando le relazioni sono conflittuali. Difende a tutti i costi la sua dignità e il suo legame con la famiglia. È straziante la nostalgia della madre, così come il richiamo continuo ai valori mazziniani nei quali è cresciuta: la patria, la solidarietà, l’eguaglianza, non corrotti dalla prigionia. Simbolico è il fermo rifiuto a tagliare le sue lunghe trecce, quasi che in queste si concentrasse tutto il suo essere di prima della deportazione. Ciò che sorprende è anche la scrittura, colta, matura, complessa nel costrutto sintattico ed estremamente incisiva. Non a caso era stata una studentessa brillante, tuttavia il suo mancato inserimento nel sistema scolastico al ritorno dice molto sulla ferita irreparabile subita.

Un ritorno lungo e sfibrante, che reitera l’odissea di tutti i reduci, compreso il difficile reinserimento in una esistenza “civile”, minato da una grave forma di tubercolosi renale, contratta in Germania.

Un interrogativo nasce dal suo rifiuto di pubblicare il diario, come le era stato proposto dall’Anpi subito dopo la guerra, una prova che la memoria è un silenzio che attende, una prova di pazienza. Ma anche come ipotizza acutamente Anna Paola Moretti un rifiuto dalle contraddizioni del quadro politico della resistenza marchigiana dopo la liberazione, alle quali forse la Minciotti si sente estranea e probabilmente offesa.

Anna Paola Moretti riceve questo diario dal figlio della Minciotti e se ne prende “cura” con rara sensibilità e acume interpretativo. È difficile, fiumi di inchiostro sono stati dedicati a come “trattare” queste fonti, praticare un’intensa vicinanza e al contempo prendere le distanze da un soggetto che non può replicare. Altrettanto difficile è penetrare senza tradire l’esperienza dolorosa di chi consegna a un diario pensieri e parole. Una consegna anche gelosa della propria intimità, visto che la Minciotti aveva rifiutato di renderlo pubblico. Anna Paola Moretti è all’altezza di questa sfida e ci consegna non solo un diario, ma anche importanti indicazioni metodologiche.

Infine, ma non ultimo per importanza, il corposo saggio della curatrice sulla deportazione della popolazione civile. Un contributo essenziale a questa tematica a lungo trascurata dalla storiografia. La ricostruzione puntuale del dibattito scientifico si intreccia alle vicende successive alla liberazione dei protagonisti della resistenza al nazifascismo, in particolare nelle Marche. Le fonti archivistiche, la letteratura scientifica consultate e intelligentemente connesse alle memorie dei protagonisti tessono una narrazione equilibrata tra storia e memoria, come la stessa autrice menziona nel titolo del suo saggio.

(“DEP Deportate, esuli, profughe”, n. 39, gennaio 2019)

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