29 Aprile 2023
Avvenire

Cristina Campo, una pianta fiorita su Simone Weil

di Roberto Righetto


Il 29 aprile di cent’anni fa nasceva Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini, una delle figure più appartate, misteriose e inclassificabili della letteratura italiana. Poetessa e mistica, oltre che traduttrice e critica letteraria, ci ha lasciato nel 1977 a causa di uno scompenso cardiaco dovuto a una malformazione di cui soffriva dalla nascita. È stato grazie all’editrice Adelphi, che ha mandato in libreria a partire dall’87 le sue opere principali (Gli imperdonabili e Sotto falso nome raccolgono suoi saggi critici, mentre La Tigre Assenza le sue poesie), e alla pubblicazione della corrispondenza con alcuni suoi amici, Margherita Pieracci Harwell e Alessandro Spina in primis, che il pubblico italiano l’ha potuta conoscere più da vicino. Giustamente Enzo Bianchi, introducendo i lavori del convegno che si svolse a Bose nel 1998, ricordò le parole pronunciate dopo la morte da Spina, che lamentò come il lutto per la sua scomparsa fosse stato un lutto di pochi, chiedendosi «anche, con ragione, come mai i cattolici non si accorsero di lei».

Eppure Cristina Campo aveva presentato e commentato opere come I detti e i fatti dei Padri del deserto e i Racconti del pellegrino russo e scritto introduzioni a libri fondamentali quali L’uomo non è solo di Heschel e Attesa di Dio di Simone Weil. Bianchi la definì «filocalica, donna ricreatrice di bellezza, testimone della grande tradizione». Certo, i cattolici italiani non potevano condividerne le riserve sul Concilio, che l’avevano fatta avvicinare a monsignor Lefebvre e al cristianesimo ortodosso: il suo amore per i riti e la liturgia nonché per la carnalità del cristianesimo infatti l’aveva portata a criticare le scelte dei padri conciliari, senza però mai abbandonare la Chiesa cattolica.

All’incontro di Bose (i cui atti furono pubblicati dalla rivista Humanitas edita da Morcelliana) parteciparono anche Mario Luzi e padre Giovanni Pozzi, Giovanni Tesio e Maurizio Ciampa, Pietro Gibellini e Gabriella Caramore, oltre che Mita, la sua amica di sempre con cui aveva condiviso dal 1950 l’amore per Simone Weil. Margherita era volata a Parigi per conoscere la madre della filosofa francese che stava curando l’edizione delle sue opere, mentre Cristina non era riuscita per motivi di salute. Ma l’incontro con la pensatrice si rivelò fondamentale per entrambe e per Cristina ebbe il significato di una riscoperta del cristianesimo.

A Simone l’avvicinavano l’amore per l’assoluto e per gli ultimi, la scoperta di concetti come “ombra”, “attenzione” e “sprezzatura”, la ricerca di una perfezione sempre irraggiungibile nella definizione della propria vocazione. Lo rileva Wanda Tommasi in uno dei saggi del libro Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (pagine 122, euro 12,00), da poco pubblicato da Mimesis a cura di Chiara Zamboni; il libro raccoglie le relazioni tenute il 7 giugno 2022 all’università di Verona a un convegno sul pensiero di Cristina Campo. «Secondo la Campo – dice Tommasi – quella weiliana è una “grande didattica spirituale via negationis”: la Weil opera negativamente, distruggendo tutto ciò che può prendere idolatricamente il posto del vero Dio».

Francesco Nasti da parte sua rileva come Cristina si considerasse, rispetto al pensiero di Simone, «una pianta rampicante intorno alla roccia». E sottolinea come «per la Campo come per la Weil l’attenzione affonda la pienezza del suo significato nella parola greca hypomoné, il cui significato è anche quello di attesa che, insieme all’attenzione, orienta l’occhio e lo spirito dell’individuo alla percezione dei diversi piani della realtà, quello invisibile e quello invisibile». Siamo al centro della concezione della vita di Cristina, che nell’unica intervista rilasciata nella sua esistenza, alla Radiotelevisione svizzera pochi mesi prima della morte, dichiarò: «Credo pochissimo al visibile, credo molto nell’invisibile ed è forse la cosa che m’interessa di più». Il legame strettissimo fra la realtà e l’invisibilità è rimarcato da Antonietta Potente che a sua volta afferma: «Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli».

L’opera della Campo è poi segnata dall’incompiutezza, come segnala Laura Boella. Lei stessa l’aveva detto parlando di sé in terza persona: «Ha scritto poco e avrebbe voluto scrivere ancora meno». Rifiutava il ruolo dell’intellettuale, pur facendosi a volte coinvolgere nei salotti romani e fiorentini, e rifuggiva dal mondo della cultura italiana imbevuto di marxismo e psicoanalisi. Per Boella «il suo contesto o ambiente è quello dell’epoca imperdonabile in cui vivono uomini e donne imperdonabili. Un contesto tremendo, violento e per nulla datato: si tratta della civiltà della perdita, del vuoto, dell’orrore, del cattivo gusto, dell’imminenza della morte, del prezzo pagato per una vocazione».

Era lontana da ogni tipo di engagement e detestava i grattacieli e le nuove chiese, così come le nuove tendenze della pedagogia che voleva educare i bambini come se fossero dei piccoli adulti. Legata a Elémire Zolla e amica di María Zambrano, di quest’ultima condivideva questo giudizio fulmineo: «Io credo nella resurrezione, non in quella dei morti, ma in quella della carne». Allo stesso modo, la Campo individuava nel gesto di Maria Maddalena che cosparge di unguento prezioso i piedi di Gesù la genesi della liturgia. Riferendosi al suo breve scritto Note sopra la liturgia, così commenta Chiara Zamboni: «Non si tratta solo di ungere il corpo di Cristo, ma di esserci con tutta se stessa e mostrare quel gesto. È per questo che il suo gesto fa scandalo: rende sacro un legame intimo e corporeo. Dunque non riguarda solo l’anima, ma anche e soprattutto il corpo. E infatti, là dove il corpo è cancellato, l’anima fa in fretta poi a scomparire».


(Avvenire.it, 29 aprile 2023)

Print Friendly, PDF & Email