9 Marzo 2024
Quotidiano del Sud

Dall’assedio di Sarajevo a quello di Gaza

di Franca Fortunato


Sarajevo 1992, Gaza 2024. Una città e una Striscia sotto assedio, bombardate e ridotte alla fame. Priscilla Morris nel suo romanzo di esordio “Le farfalle di Sarajevo” racconta il primo anno di assedio della città, il peggiore in termini di morti e distruzione. Lo fa ispirandosi alla storia del prozio, un pittore paesaggista che decise di restare a Sarajevo durante l’assedio. Lo fa attraverso i diari del padre che salvò i suoceri dal loro appartamento bombardato. Lo fa attraverso i racconti di vita quotidiana di amici, parenti e conoscenti. Lo fa con lo sguardo di una donna estranea alla logica della guerra, di amico e nemico, raccontando la vita, la resistenza quotidiana di chi come Zora, la protagonista, tra “combattere e morire” sceglie di “vivere”, mantenendo vivo il desiderio di continuare a dipingere, lei che ha sempre dipinto la sua Sarajevo, i suoi monti e gole, fiumi e foreste, moschee e chiese, e principalmente i suoi ponti ottomani «simbolo dell’unione dei popoli, incontro tra Oriente e Occidente». Zora racconta delle manifestazioni per la pace e dei “cecchini” che sparano addosso ai manifestanti «che portavano candele, cantavano canzoni di pace» e sugli striscioni avevano scritto «Sarajevo, mio amore», «Dite di no al nazionalismo, vogliamo la pace». Lei, serba, innamorata della sua città, vuole continuare a vivere insieme con musulmani e croati, salvando la sua umanità e quella della sua città che «è stata sempre esaltata come un modello di tolleranza». Vuole mantenere le relazioni con i vicini nel suo palazzone di dieci piani, dove musulmani, serbi e croati convivono in amicizia da sempre. Sarajevo assediata, privata dell’acqua, dell’elettricità, delle linee telefoniche, ovunque posti di blocco, ferrovia bombardata, aeroporto bloccato, strade in uscita barricate, è una città isolata dal resto del mondo. La sua gente è intrappolata, come oggi i palestinesi nella Striscia di Gaza dove l’unica scelta è tra morire di fame e di malattie o sotto i bombardamenti. A Sarajevo sparano alle persone in fila per il pane, a Gaza mentre lottano per un sacco di farina. A Sarajevo arrivano gli aiuti umanitari, a Gaza vengono bloccati e pochi «cadono dal cielo». Bombardamenti sventrano case, palazzi, bruciano la biblioteca nazionale e universitaria dove Zora dipinge e insegna. «Una catena umana» cerca di salvare più libri possibili mentre nell’aria volano «farfalle nere», «frammenti bruciati di poesia e arte che si incastrano nei capelli delle persone». Nell’incendio bruciano i quadri di Zora che nella pittura trova «rifugio che la conserva sana di mente». Dipinge sulle pareti del suo appartamento, dà lezione a Una, bimba di otto anni, fino a quando una bomba non l’ucciderà e organizza, con i suoi studenti, nel palazzo squarciato dalle esplosioni, una mostra d’arte mentre le scale del condominio sostituiscono i caffè, i parchi e i bar dove incontrarsi. Zora e i suoi vicini si sostengono a vicenda, dividono il poco cibo che hanno e passano le giornate del rigido inverno intorno alla sua stufa, unica del palazzo, e qui cucinano, mangiano, stanno seduti, parlano e a volte suonano la chitarra, cantano e ballano. Mirsad, il musulmano, racconta storie popolari e tiene aperta l’unica libreria esistente, dove «dà in prestito sulla fiducia i libri che gli sono rimasti in negozio e spesso le persone si fermano a parlare di quello che hanno letto, sedendosi in cerchio sugli sgabelli, come se tutto fosse normale». Zora vede il suo mondo sgretolarsi ma lei, lontano dalla sua Sarajevo, riprenderà a dipingere come prima perché «l’arte sconfigge la distruzione della guerra». La sua Sarajevo non esiste più, Gaza non esiste più. Chi salverà i palestinesi dalla catastrofe umanitaria?


(Quotidiano del Sud, Rubrica Io donna, 9 marzo 2024)

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