Libri, saggi, diari, un sentiero di lettura nel mondo arabo che sta cambiando. Un mutamento, talvolta contraddittorio, che porta un segno femminile
Il rapporto con la modernità, l’occidente, l’ortodossia misogina nei testi di autrici come Nawal al-Saadawi, Fatema Mernissi, Suad Amiry, Hoda Barakat
Francesca M. Corrao
Negli ultimi dieci anni il Cairo ha cambiato aspetto. Oggi la città appare molto più pulita, un nuovo parco pieno di palme collega la storica moschea università di Al-Azhar con la cittadella, e la celebre rocca militare da cui Muhammad Ali guidò la rivolta per liberare l’Egitto dalla presenza francese, è stata restaurata. Come un grande fiume ogni sera la gente si affolla per le strade e lungo le vie illuminate donne di tutte le età vanno in giro a bordo di automobili lussuose o di semplici utilitarie. Questo è il segnale di un grande cambiamento: sino a non molti anni fa le donne che andavano a cena fuori o al cinema senza essere accompagnate da padri, mariti o fratelli, erano poche, e sicuramente «estremiste». Adesso un numero crescente di donne lavora, e ha quindi conquistato l’indipendenza economica e di conseguenza un certo margine di libertà. A differenza di prima può accadere che una professionista, se non ha trovato un compagno adeguato, scelga di vivere da sola: questo tuttavia avviene solo nei quartieri più «progrediti», dove le donne non corrono il rischio di essere stigmatizzate dalla comunità del vicinato, come accadrebbe nelle periferie, in cui le tradizioni arcaiche si sposano con i rigurgiti misogini degli integralisti, in barba a ogni dichiarazione di uguaglianza espressa nel Corano. Questa ricchezza di posizioni, però, tende a non essere percepita in occidente, dove si parla del mondo arabo senza sfumature, e quasi solo per metterne in evidenza il volto deteriore. Per capire la complessa eredità culturale dell’Egitto moderno può essere utile leggere un libro di qualche decennio fa, da poco pubblicato anche in Italia, Diario di un procuratore di campagna di Tawfiq al Hakim (Edizioni Nottetempo). L’opera apre infatti uno spiraglio su un mondo lontano e ci permette di sbirciare dietro i veli della vita di provincia. Attraverso l’ironico racconto di un procuratore di una piccola città sul Delta scopriamo una società chiusa ancora assorta nelle tradizioni antiche. L’autore racconta le indagini svolte per svelare gli assassini di un uomo apparentemente innocuo; a turbare la scena – come spesso nelle storie egiziane – appare, per scomparire presto, una splendida ragazza, e intorno alla sua figura si accendono mille enigmi e fantasie. Lo svolgimento delle ricerche rivela tante piccole scene, descritte con esilarante sagacia, di un mondo diviso tra la rigidità dei funzionari, inefficienti e corrotti, e la schiacciante prepotenza dei signorotti locali, sullo sfondo della misera vita dei contadini che si trascinano da una millenaria povertà verso un sistema moderno ma sempre più repressivo. Ma il romanzo è anche una occasione per denunciare l’insofferenza dell’autore per un lavoro cui è costretto per necessità mentre la sua mente da letterato lo porterebbe altrove, a Parigi in un ambiente artistico e trasgressivo che meglio risponde alla sua indole. Ironico e poco clemente, lo scrittore descrive i faticosi tentativi di un Egitto che stenta a imitare il mondo occidentale.
Da quando al-Hakim scrisse il suo Diario, però, molte cose sono cambiate. Oggi le università hanno aperto i battenti in tante zone che prima sembravano culturalmente ed economicamente ferme ai primi anni del Novecento. La città di Minya, per esempio, è diventata un importante centro di affari e di ricerche avanzate. Il cuore della resistenza fondamentalista non ha cambiato sede ma volto. Si muove verso una svolta democratica? È difficile a dirsi, anche se proprio la maggiore presenza delle donne potrebbe fare molto per cambiare l’atmosfera generale. Per il momento, però, la situazione si presenta controversa: se all’università le studentesse sono la maggioranza assoluta, non si può fare a meno di notare che siano quasi tutte velate: un velo tuttavia, che sembra rappresentare – più che una dichiarazione di castità – quasi un vezzo, un modo di dichiararsi diverse dalla cultura occidentale. In giro infatti non si vedono burqa’ o chador, ma fazzoletti decorati con ogni tipo di ninnolo e gioiello e magari indossati sopra un paio di jeans accuratamente sdruciti.
Su queste contraddizioni che segnano la situazione femminile nel mondo arabo esistono oggi diversi testi, dalla recentissima antologia Parola di donna, corpo di donna (curata da Valentina Colombo per gli Oscar Mondadori) all’ultimo libro della marocchina Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web (Giunti), che racconta attraverso numerose testimonianze l’aiuto che la tecnologia, se utilizzata saggiamente, può fornire anche nelle località più sperdute. La coraggiosa scrittrice, come tante altre intellettuali attive anche in Medio Oriente, ha creato una Ong per aiutare le donne a vendere i loro prodotti mettendoli direttamente online, nella convinzione che la vera sfida oggi consista nell’emancipare le donne dall’ignoranza e dalla sudditanza economica.
Da decenni, del resto, le organizzazioni non governative si moltiplicano in tutto il territorio. Tra le pioniere fu, di nuovo in Egitto, la scrittrice e medico Nawal al-Saadawi (autrice fra l’altro di Firdaus. Storia di una donna egiziana, edito nel 2001 ancora da Giunti) che organizzò una struttura per molti versi simile ai nostri consultori per insegnare alle donne analfabete le più elementari cure sanitarie. Ostacolata in ogni modo, prima dal governo e poi dai fondamentalisti, la scrittrice fu nel 2001 accusata di aver affermato che il pellegrinaggio alla Mecca era un costume pagano. In realtà al-Saadawi aveva voluto sottolineare l’atteggiamento di apertura dell’Islam ricordando che la religione sin dagli inizi aveva saputo accogliere usi e culture preesistenti che bene si accordavano con la nuova fede, ma un giudice del tribunale shara’itico accusò prontamente la scrittrice del reato di apostasia condannandola a divorziare dal marito (un musulmano non può essere coniugato con un’apostata). Solo la pronta reazione di alcuni intellettuali egiziani e una valanga di e-mail da ogni parte del mondo sono riuscite a convincere il presidente Mubarak a intervenire salvando la scrittrice dalle grinfie dei «calunniatori».
Che le donne siano le rappresentanti di questi nuovi fermenti del mondo arabo è dimostrato anche dalla loro presenza attiva a incontri e convegni internazionali, come quello su «Intellettuali e potere» che si è tenuto alla fine del 2005 presso l’università del Cairo. Sono state numerose le studiose che hanno presentato analisi fondate su una conoscenza seria dei testi critici occidentali e orientali, sulla base del presupposto che, come dice il poeta marocchino Muhammad Bennis, l’apertura verso le altre culture è in primo luogo una questione di ospitalità, di accoglienza. Voce di spicco nell’incontro è stato, fra gli altri, il poeta palestinese Murid al-Barghuti (autore di Ho visto Ramallah, uscito nel 2005 per Illisso edizioni), che ha ricordato gli intellettuali arabi costretti al silenzio in patria o alla fuga all’estero, dove rimangono spesso chiusi dietro un muro di indifferenza e che ha messo in evidenza come il problema della libertà e del potere non riguarda solo «gli altri» ma ogni essere umano, richiamando alla presa di coscienza individuale e alla necessità di sviluppare un forte senso di responsabilità.
Un comportamento esemplare in questo senso viene dal testo autobiografico di Suad Amiry – Sharon e mia suocera, edito nel 2003 da Feltrinelli – che racconta la sua esperienza di affermata architetta rientrata da Londra in Palestina per contribuire alla crescita della nuova Autorità palestinese. Nell’esilarante resoconto della sua vita quotidiana dà prova di come, da donna comune, è costretta a trovare soluzioni geniali per sopravvivere nell’inferno quotidiano, schiacciata tra le esigenze della suocera e le ordinanze di Sharon. Il materiale non manca, tanto che nel 2005 Amiry ha pubblicato un altro libro (Se questa è vita. Vivere a Ramallah in tempo di occupazione, Feltrinelli). Ma queste testimonianze di ordinaria follia si trovano in gran numero anche in Domani andrà peggio. Lettere da Palestina e Israele, 2001-2005 (Fusi Orari, pp. 240, euro 15), la raccolta di articoli di Amira Haas, una coraggiosa giornalista israeliana che si batte per la difesa del buon senso, al duro prezzo di essere invisa a molti. Incontrare l’altro è un’impresa difficile e dolorosa, scriveva Arnold Toynbee, e questa amara verità è ben nota agli arabi da oltre due secoli. Colonizzati prima e successivamente devastati da guerre fratricide sapientemente alimentate da interessi stranieri. Molti intellettuali ne parlano con amarezza, alcuni con ironia, altri invece si nutrono di questo orrore per sublimarlo in opere tra il surreale e il metafisico: fra questi, saggi critici (Adonis, La musica della balena azzurra, Guanda; Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti), poesie (Adonis, In onore del chiaro e dello scuro, Archivi del Novecento) e anche bei romanzi, come quello della libanese Hoda Barakat, L’uomo che arava le acque (Ponte alle grazie), dove si narra con straordinaria sensibilità lo smarrimento dell’uomo e il disintegrarsi dell’essenza della cultura materiale in Medio Oriente sotto i colpi di mortaio della guerra civile libanese.
Tuttavia non ci si rassegna e le attività culturali – mostre, festival, film, concerti, opere teatrali, dibattiti, presentazioni di libri – a Beirut come al Cairo si sono moltiplicate rispetto a pochi anni fa, grazie anche alle scelte di politici contestati. Un esempio viene dal pittore Farouk Husni, ministro della cultura egiziano da oltre un decennio, che continua ad aprire spazi culturali anche agli artisti dell’opposizione, senza badare troppo alle polemiche. Obiettivo di Husni è di dimostrare che le attività governative non emarginano gli intellettuali scomodi, accogliendo in questo senso l’invito più volte reiterato del Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz: anche nelle più recenti interviste in occasione del suo anniversario, il più amato scrittore arabo non ha perso infatti la sua grinta e ha incoraggiato i giovani a darsi da fare per frenare l’avanzata oscurantista.
In questa direzione del resto vengono organizzate iniziative dedicate ai fautori di una cultura aperta e moderna. Prossimamente è previsto un omaggio a Muhammad `Afifi Matar, poeta filosofo scomodo, vittima spesso dei suoi modi «passionari». A settanta anni il Consiglio superiore della cultura riconosce finalmente i meriti di questo amante di Empedocle e cancella così il ricordo dei giorni di carcere negli anni Novanta (si era dichiarato contrario all’intervento militare dell’Egitto in Iraq, ed era «scivolato» sul pugno di un poliziotto rompendosi il naso). Anche allora il tam tam degli intellettuali arabi e occidentali, dentro e fuori dall’Egitto, lo hanno salvato dal carcere; ha vinto la solidarietà e così anche il diritto alla libertà di opinione.
Fra le altre figure della cultura egiziana, il cui valore viene adesso riconosciuto spicca anche il nome del poeta `Abd al-Mu’ti al-Higazi che, rientrato da un decennio dall’esilio volontario in Francia, cura oggi una rubrica sul più diffuso giornale egiziano, al-Ahram; e da lì parla liberamente dei fatti del giorno senza risparmiare i suoi strali all’amico di un tempo, il ministro della cultura per l’appunto. Ad al-Higazi il Consiglio superiore della cultura ha recentemente dedicato una giornata di studi convocando i massimi esperti di poesia a parlare della sua produzione. A guidare i lavori Gabir Asfour, il grande critico letterario prestato all’amministrazione pubblica per gestire un’operazione culturale faraonica: lanciare la cultura araba nel mondo e tradurre migliaia di libri dalle lingue occidentali in arabo ogni anno. Tra i presenti la vera responsabile del progetto, la dinamica e colta Shuhra Muhammad al-‘Alim; che ama scherzosamente dire di sé che è più brava di Shehrazad perché è riuscita a dare alle stampe mille e un libro in un anno invece che in tre come la celebre eroina dei racconti orientali.
Attualmente Shuhra Muhammad al-‘Alim sta promuovendo la traduzione di racconti italiani in collaborazione con la facoltà di lingue dell’università di `Ayn Shams e il ministero degli affari esteri. Un’altra iniziativa in questo senso è stata promossa dal poeta Hasan Teleb che, assieme ai docenti di italiano dell’università di Helwan, sta traducendo un’antologia dei poeti italiani del Novecento. Il problema è l’assenza di coordinamento tra gli intellettuali italiani e quelli arabi. Ancora oggi, sebbene fioriscano meritevoli iniziative in cui gli intellettuali arabi sono invitati a partecipare a incontri e scambi in Italia, si riscontra che troppo spesso i nomi sono sempre gli stessi oppure non sono significativi; e lo stesso accade in Oriente. Si tratta di un vecchio problema: già all’inizio del secolo scorso al Cairo la poetessa Mayyi Ziyada traduceva poeti italiani assolutamente ignoti, e lo stesso facevano negli anni Cinquanta a Beirut i redattori della rivista «Shi’r» che pubblicavano accanto ai testi di Montale (che, come poi Mahfuz, ha avuto la fortuna di ricevere il Nobel) i versi di illustri sconosciuti. Senza sparare a zero sul passato, sarebbe auspicabile che oggi, nei paesi di lingua araba, come in Italia, non si ripetessero gli stessi errori.