28 Giugno 2008
Alias

“D’amore e d’odio” romanzo storico femminista

Il novecento differente di Maria Rosa Cutrufelli

Ida Dominijanni

C’è un’estraneità femminile dalla Storia che la generazione femminista degli anni settanta ha sfidato, rileggendola e reinterpretandola. Non esclusione o marginalità o minorità, ma presenza differenziale: differente modo di abitarla, giudicarla, raccontarla. Non sempre abbiamo vinto la sfida: spesso la Storia torna a sfilarcisi di mano, le parole mancano, il giudizio recalcitra, la lateralità ci seduce. Talvolta invece la differenza gioca e vince. In D’amore e d’odio, l’ultimo suo romanzo (Frassinelli, pp. 465, € 18,00), Maria Rosa Cutrufelli accetta la sfida più alta per una scrittrice, quella del romanzo storico, gioca e vince. Non è la prima volta: già nel romanzo precedente, La donna che visse per un sogno, ricostruendo la vita di Olympe de Gouges l’autrice si era misurata con l’impronta femminile nella Storia. Stavolta però la prova è più ardua, la storia essendo quella che noi e le nostre madri, nonne, figlie, abbiamo direttamente vissuto, o che direttamente ci è stata raccontata: il nostro Novecento, in sette quadri, sette tempi, sette protagoniste, sette voci narranti. Voci femminili e maschili, perché non c’è separatezza femminile – anche se spesso tocca alle donne separarsi, dagli amanti, dalle radici, dalle illusioni politiche, mai per ripiegare però, bensì per prendere il largo, quasi a ribaltare il mito di Ulisse e Penelope, e rilanciare la scommessa con la vita. Il Novecento, scrisse una volta Angelo Putino, si aprì con una mutazione della specie: donne dappertutto, nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole, dove prima non erano; cambia il panorama, comincia, appunto, un’altra Storia.
Non ci sarà più riparo dagli eventi mainstream: le donne li abitano e li muovono, e il loro sguardo non è più corto ma più lungo, penetra la Storia con le storie, la politica con la quotidianità, le ideologie con i sentimenti, l’utopia con la trasformazione di sé. Cutrufelli rilegge il secolo con questo stesso sguardo, si mette sulle tracce di questa mutazione.
Sette tempi: 1917, la Grande guerra; 1922, il fascismo; 1946, la Repubblica e la ricostruzione; 1972, la rivoluzione senza la Rivoluzione; 1989, il nuovo ritmo del mondo senza Muro; 1994, le disillusioni del Progresso; 1999, l’addio al secolo che non smetterà di non passare. Sette protagoniste: Nora ed Elvira, due sorelle nella Torino operaia e socialista degli anni dieci e venti, e poi le loro figlie, nipoti e pronipoti, Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina. Non si pensi però a un romanzo familiare: nulla di più lontano. Non è il sangue ma la Storia a decidere le continuità e gli strappi, gli incontri e le separazioni, i trasferimenti e i ritrovamenti. La guerra decide il destino di Nora, il fascismo quello di Elvira, il ’68 e il ’77 quello di Leni e della sua amica Miriam, l’89 quello di Carolina; ma niente è automatico, e mai un personaggio scade nel prototipo o nell’idealtipo. C’è la Storia infatti, e c’è il caso, o per meglio dire non c’è Storia senza il caso, e non c’è azione soggettiva se non a questo incrocio fra Storia e caso. “Tutte le cose – si legge a un certo punto in uno dei brevi intermezzi tra i sette quadri – sono depositi di infinite possibilità.
Ogni cosa contiene il fantasma di ciò che non è e invece poteva essere, la fantasia di ciò che forse sarà o al contrario non sarà mai e che non dimeno lascia una traccia luminosa di sé”: le eroine del romanzo danno forma alla loro esistenza muovendosi fra queste eventualità e prendendosi il rischio della libertà, negli anni venti sotto il fascismo come negli anni settanta in democrazia. Sostenuta da una mole evidente di lavoro d’archivio, la narrazione corre non solo nel tempo ma anche nello spazio: la genealogia di Cutrufelli si distende lungo tutta la penisola, da Torino a Siracusa e da Roma a Bologna, non senza qualche incursione in quella America di cui solo chi viene dal Sud, come l’autrice che è siciliana conosce la familiarità costruita nel corso del tempo dalla rotta dell’ emigrazione transoceanica. Fatti e luoghi sono narrati con la stessa precisa ed evocativa puntualità: i corpi massacrati che arrivano dal fronte all’ospedale di Borca di Cadore come i corpi che si dispongono al consumo nella Roma povera ma bella del secondo dopoguerra; le mosse circospette della clandestinità sotto il regime come l’autoreclusione dei militanti “duri” degli anni settanta. Talvolta infatti le stesse cose ritornano, diverse, di generazione in generazione: il libro è anche una genealogia politica della sinistra italiana, della sua grandezza e dei suoi tic, della sua centralità in un paese che senza di essa non sarebbe mai diventato un paese e tuttora rischia di perdere se stesso.
Ritorna anche e si trasforma, di generazione in generazione, l’amicizia fra donne, che salda ciascuna delle storie raccontate e tesse come un filo invisibile e tenace la trama della Storia più grande. All’origine della genealogia c’è una coppia di sorelle, la prima voce narrante è di un’amica a un’amica e racconta di un’altra amica; il quarto tempo, Bologna 1972, è la storia di un’amicizia fra due donne; il quinto, Berlino 1989, quella di un amore fra due donne. Le figure maschili sono molte e di rilievo, ma di decennio in decennio si allenta il legame con loro delle protagoniste, dall’amore coniugale eternizzato all’amore disilluso di chi scopre che tutto si è condiviso “tranne il senso della vita”, allo spostamento del desiderio dall’altro all’altra che avviene senza traumi, come un impercettibile scivolamento perfino autorizzato dalle madri. Siamo alla fine degli anni ottanta, il secolo delle donne ha macinato molta libertà. Ma di nuovo, sbaglierebbe chi pensasse a un romanzo agiografico, o a uno spostamento dalle magnifiche sorti e progressive della sinistra a quelle femministe: la lezione del Novecento sta nell’averle dichiarate chiuse per tutti e per tutte, e l’autrice lo sa. Nella chiusa, magistrale, del romanzo, di nuovo le stesse cose ritornano: nell’odore del naufragio di una nave di immigrati, Delina rivive l’odore dell’internamento nel campo di concentramento di Ferramonti (una perla storica del libro, con pagine di rara pregnanza). “D’un tratto era dentro il mio naso, acre come allora: sapeva di fatica e di rabbia, di speranza e umiliazione, di pazzia, di vita che sbatte contro un filo spinato. E adesso arrivava a folate da ogni angolo del Mediterraneo, dalle coste dell’Africa, dai Balcani, dalle rotte asiatiche.. . Non ci lascerà in pace, l’odore del vecchio secolo”. Non ci lascerà in pace, no. Ma ci ha lasciato molti doni.

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