3 Giugno 2016

“Diamoci il tempo di pensare”

di Gemma Pacella

 

«Dice Luisa Muraro: non c’è da proibire, ma da non sbagliare e se ci parliamo e ci capiamo, in primis tra donne e con gli uomini forse sbagliamo di meno». Con questo intento di dialogo e di confronto di idee, Katia Ricci avvia l’incontro alla Merlettaia di Foggia, lunedì 16 maggio 2016, intorno alla questione dell’utero in affitto, a partire dall’ultimo libro di Luisa Muraro, L’anima del corpo- contro l’utero in affitto, Editrice La Scuola.

La discussione, infatti, nasce dall’interesse di capire che cosa muove donne e uomini a usufruire della gestazione per altri e a mettere a disposizione il proprio corpo e che cosa ognuna/o considera essenziale per sé, come precisa Katia, e cresce lungo il filo del confronto tra posizioni diverse, ciascuna delle quali mette in luce l’aspetto che maggiormente colpisce tra i tantissimi che sono coinvolti da una questione come quella sulla maternità surrogata. Dunque, proprio a partire dalla varietà di definizioni date, utero in affitto, surrogata, Gpa … è chiaro che il punto non sia quello di rintracciare una visione universale e assoluta, bensì quello di ripercorrere quali non vanno dimenticati, se si ha a cuore la libertà e la rivoluzione che le donne hanno compiuto, per esempio la relazione materna, «primaria, fondante e fondativa» (Katia) di tutte le altre, che rischia di essere spezzata ad opera di un mercato neoliberista.

Ebbene, proprio quel patriarcato che il pensiero femminile ha abbattuto e superato, tenta sempre di ritornare sotto forme diverse e agendo sul continuum maternum e sul corpo delle donne. «Oggi il mercato risponde al desiderio di avere figli con i propri geni, basandosi su un sistema che comprende medici, cliniche, agenzie, avvocati e corpi di donne e che sostituisce e rimuove la relazione materna e, con lei, la ricerca di un nuovo senso della paternità che tanti uomini nel post patriarcato cercano, come ricorda Muraro».

«La maternità, dice Katia, è stata sempre nascosta o mitizzata, considerata il destino naturale della donna, e ora senza essere stata simbolizzata la si cerca di cancellare. Cresce la libertà? Non credo» e, soprattutto, ne guadagna il progresso umano? Apparentemente si direbbe di sì, ma più che di evoluzione nel caso di utero in affitto si può parlare di involuzione: i rapporti di forza che fagocitano la relazione, non solo corporea, con la madre alimentano un neo schiavismo.

A me, giovane donna, non madre, ciò che più interessa è la questione del desiderio e della surrogazione che vedo come fenomeno maschile e, ancora, la questione della libertà.

Prima fra tutti c’è la potenza e l’energia del desiderio, di cui parla la filosofa. Può capitare che quest’ultimo a volte sia oscurato, eclissato dal desiderio di qualcun altro/a. Io, infatti, in passato volevo a tal punto che le coppie omosessuali potessero avere le stesse chances delle coppie etero da aver vagliato l’ipotesi di essere d’accordo con la Gpa. Poi, però, mi sono chiesta: tu lo faresti? Ebbene, interrogare il mio desiderio mi ha allontanata dagli altri e mi ha riportata a me: no, non lo farei.

E allora ho capito che c’era qualcosa che non andava. L’anima del corpo ha funzionato da specchio: leggendolo ho ritrovato le mie fattezze, ho riconosciuto me e la mia fisicità e mi ha aiutata a tenere vivo il mio desiderio.

Mi sono chiesta: che cosa accomuna il desiderio di una coppia che intende avere figli/e e che ricorre all’adozione, con il desiderio di una coppia di avere figli/e e che, al contrario, ricorre alla surrogata?

Sono uguali questi desideri? Certamente per un verso si, sono entrambi desideri di avere una creatura. Inizialmente può sembrare che il desiderio più potente sia quello della seconda coppia che ricorre alla surrogata, così accecante da spingere i genitori ad avere una creatura “ad ogni costo”.

Tuttavia, a bene guardare il desiderio più potente è per me quello della coppia che ricorre all’adozione perché il loro desiderio “egoistico” (nel senso di incentrato sull’io e, dunque, singolare) si somma a quello di dare una famiglia e delle possibilità a quelle creature che non le hanno avute. Perciò è un desiderio molto più energico e creativo di quello che accompagna una coppia che ricorre alla surrogata e che, per questo, si soddisfa, si accontenta e si imbeve di un desiderio solo singolare, solo egoistico.

Ancora, altro passaggio su cui mi sembra molto importante riflettere è che la surrogata sia un concetto maschile. Cosa significa “surrogazione”, se non un “fare finta che sia…”, ovvero sostituire una cosa per un’altra fingendo che ci sia un legame materiale, fisico e personale tra il sostituendo e il sostituto che, invece, non c’è. La stessa assenza di materialità tra i due termini del confronto la ritroviamo nella metafora, che –come mi insegna Luisa Muraro- si differenzia dalla metonimia proprio perché quest’ultima, al contrario, recupera la materialità nella relazione tra i termini impiegati nel processo di sostituzione.

E questo gioco di figure retoriche mi porta a riflettere su di un dato essenziale: mentre la madre evoca la creatura su un piano metonimico perché l’ha portata in grembo, l’ha partorita, gli ha insegnato a parlare la lingua materna, mantenendo un rapporto personale, fisico e materiale costante, al contrario il padre evoca la creatura sul piano metaforico, ad esempio perché le ha dato un nome, ma non necessariamente sul piano personale. Dunque, per tornare al punto: la surrogata è maschile perché anch’essa come la relazione paterna si muove su di un asse metaforico e produce un rapporto tra sostituendo e sostituto immateriale che spezza il legame fisico e personale.

Ancora un punto: la libertà. E se una donna vuole sottoporsi alla surrogata? Se lo chiede esplicitamente anche Luisa Muraro: “Ma posso farne io una questione se loro ci stanno?”

Per me libertà è essere e non lasciarsi essere. Bene, nel momento in cui lascio che la mia libertà si esaurisca e si appiattisca e si accontenti di esprimersi nel desiderio di qualcun’altro, allora quella non è libertà.

Le riflessioni sulla libertà sono al centro del dibattito anche di chi, come Cornelia, rievocando le parole de L’anima del corpo la definisce somma di desiderio+possibilità+necessità, rintracciando, così, un parallelo tra desiderio e libertà.

Uno degli aspetti più interessanti del confronto è ascoltare molte delle donne presenti rievocare il loro percorso di madri e il momento della loro gravidanza, come Donata che, proprio partendo dai suoi ricordi, chiarisce che la questione dell’utero in affitto non può essere una questione di diritti e di principi, bensì una questione tra sé e le proprie sensazioni, il proprio corpo, il proprio desiderio. «quello che il nostro corpo prova non ce lo possiamo far scappare. I diritti non sono e non devono essere tutti eguali».

Si inseriscono subito i pensieri di quante non sono contrarie all’utero in affitto e mantengono una posizione a sostegno delle coppie omosessuali, pur chiarendo che sono soprattutto quelle maschili ad insistere per la Gpa, al contrario delle coppie omosessuali femminili che, spesso, non condividono tale pratica. L’immagine evocata da Maria Rosaria, presidente dell’Agedo, è quella di un uomo che, dopo aver ottenuto un figlio a seguito di surrogata, pareva aver instaurato con la creatura un rapporto che a lei è parso quasi materno. Si tratta di un’immagine dai contorni molto sfocati: «i maschi hanno imparato dalle donne la relazione con la creatura, l’hanno imparato per effetto dell’uscita dal patriarcato realizzata dal femminismo», osserva Katia.

Lina riflette sulla commercializzazione del bene: «Come si può passare da bene personale a bene patrimoniale; come può essere la surrogacy? Esercizio di libertà o condizionamento economico? Non posso convincermi che in nome di un malinteso senso della generosità, si rinuncia a qualcosa che è più grande del desiderio umano di diventare genitrici e genitori. Questo qualcosa, la bambina o il bambino, cresce e si nutre attraverso e nel corpo di una donna. Quella donna è la madre. Non può essere nessun’altra o altro. Quel desiderio, dunque, va al di là dell’umano e diventa, se realizzato, un bene patrimoniale e dunque commerciabile. Una prostituzione legalizzata».

Altro profilo, questa volta sottolineato dall’intervento di Gianpiero, è il rapporto tra l’umano e la tecnica e la ricerca del confine tra l’uno e l’altra. Dalla voce di un uomo, che parte dal chiedersi come reagirebbe se gli venisse impiantato un utero (risposta: molto male) e che nutre ancora forti dubbi sulla surrogata,  viene fuori l’invasione di un certo «stile proprietario» che si sta prendendo con la forza ciò che di naturale ci resta: voglio tutto e, evidentemente, lo voglio a tutti i costi.

Anche un giovane uomo, Raffaele, si interroga soprattutto sull’aspetto  della commercializzazione del corpo femminile che accompagna la questione dell’utero in affitto e sulla preoccupante vittoria del capitalismo, di fronte a cui nemmeno la politica della sinistra italiana riesce a contrapporre un muro: l’idea di potersi scegliere un figlio o una figlia «come si fa con i cani di razza», è il sintomo di una dipartita dei valori di civiltà che il neoliberismo sta fagocitando.

Clelia parte dal suo grande desiderio di avere figli, un desiderio assoluto, alto di maternità, e ora di avere nipoti, ma il nodo fondamentale è l’idea di libertà, perché dice: «sono scelte che bisogna fare con una grande idea di libertà, altrimenti si tratta di scelte al ribasso».

Adele, ricollegandosi alla questione già posta, chiede se qualcuna in questa assemblea si presterebbe a fare un figlio per qualcun altro e perché: «La  libertà femminile  mi sembra un altro punto che dovremmo riprendere a discutere perché c’è confusione e la confusione scaturisce dall’idea di parità con gli uomini, del faccio quello che mi pare. Per le cose che sono state dette oggi non vedo quale potrebbe essere per una donna il guadagno simbolico della maternità surrogata.

La libertà femminile è innanzitutto libertà dal simbolico patriarcale, è quella libertà che permette innanzitutto di sentirsi libera anche quando ci si trova in una condizione di sopraffazione. La donna che indossa il velo nella società islamica e che dice che lo fa per sentirsi libera ha ragione solo nella misura in cui sa che la sua libertà non è il velo o il burqua, che è lo sguardo maschile che deve cambiare e non lei a nascondersi».

Antonietta riafferma la necessità di continuare a discutere, di non chiudersi nelle proprie posizioni e, soprattutto, di preservare quel nucleo di civiltà di cui ci siamo già sapute e saputi prendere cura, in primis la sessualità.


(www.libreriadelledonne.it, 3 giugno 2016)

Print Friendly, PDF & Email