di Silvia Acierno
Nell’Amant Duras scrive che per lei è sempre stato troppo tardi. A trent’anni la sua vita era già piena di avvenimenti. C’erano stati i ritorni dalla Cocincina dove era nata, la guerra, la deportazione del marito Robert Antelme, la resistenza, i processi sommari ai collabó e l’euforia del dopoguerra. Poi la morte di un figlio appena nato, il figlio di Antelme, quel cadaverino che le suore non le avevano neanche lasciato vedere. La relazione con Dionys Mascolo, editor di Gallimard. E la pubblicazione del Barrage sur le Pacifique, quel romanzo che Marguerite aveva portato alla madre, forse anche per infliggerle una sottile sofferenza, e per il quale avevano rotto definitivamente.
C’è l’appartamento di rue Saint Benoit, al numero 5, quartiere Saint-Germain. È il classico appartamento parigino con i tetti alti, gli stucchi, i camini di marmo… Lei l’ha fatto suo con dei mobili comprati dai rigattieri, gli uncinetti, i fiori secchi, i suoi piatti vietnamiti, le riunioni con il circolo di amici riempite dalle sue risate rauche, i silenzi, le frasi, il suo desiderio di piacere, in un continuo gioco di seduzione e provocazione. Tutto sta per sgretolarsi di nuovo, come quando si era innamorata di Dyonis Mascolo e ci aveva fatto un figlio. Un nuovo bonheur è alle porte. La passione brutale per Jarlot, giornalista, don giovanni impenitente, roso dal desiderio di diventare romanziere. Con lui Duras conoscerà l’altra se stessa, o comincerà ad abbandonarsi davvero a se stessa, ad essere in balía di se stessa. Di quella se stessa che viene dalla strada di Ram. La strada polverosa, immersa nelle risaie e nelle maree che la ricoprono, la strada dove passano le cars dei cacciatori, la via d’uscita da quel dolce inferno.
Per le sue biografe (Adler, Petrignani) Nené, passerá ad essere Marguerite, poi la Duras, la caricatura di sé, a faire du Duras, du surduras… Assieme a Jarlot anche la scrittura cambierá, verrà stravolta.
Dopo Jarlot tutto si sgretolerà e ricomporrà di nuovo. Ancora dal bonheur al malheur, dalla vita alla morte. Perchè Marguerite è così, non conosce le mezze misure, le detesta, non sa che farsene. Poi sono venuti l’alcolismo e la solitudine, l’alcolismo e Yann Andreas, l’ultimo amante, un ventisettenne omosessuale, l’alcolismo e le disintossicazioni, il coma e le rinascite. L’alcolismo: quello che ti deforma il corpo, lo gonfia, lo strazia. Marguerite non si riconosce più. Ma continua a bere disperatamente. Con Jarlot beveva, beveva tanto per dominare quella relazione burrascosa, per domare il desiderio onnivoro di quell’uomo. Ma allora era una cinquantenne che si sentiva ancora giovane, desiderabile, desiderata. Con Yann è diverso. Quell’alcolismo si è fatto più disperato. Lo nutrono la solitudine, la perdita di tante persone amate. E la paura. E il desiderio di Yann, quel desiderio così sconveniente non riusciva a placare più niente. Faceva parte di quella solitudine, di quella paura.
Poi sono venuti la pubblicazione dell’Amante, il successo planetario, il premio Goncourt, una specie di euforia. E la scrittura, sempre la scrittura fino alla fine.
Duras scriverà per il teatro, comincierà a cedere i diritti cinematografici dei suoi romanzi, a comporre romanzi che sono come opere teatrali, a scarnificare il romanzo e ridurlo a dialogo teatrale (Detruire, dit-elle), a fare film, a scrivere romanzi con l’occhio del regista, a scrivere e a filmare allo stesso tempo (L’Amant de la Chine du Nord), a filmare la parola, a scrivere e a distruggere la scrittura, a scrivere e a distruggere se stessa, a salvare se stessa. Marguerite sperimenta con un genere ibrido, fa del minimalismo letterario, si ispira alla letteratura americana, fa del “nuovo romanzo” tanto che Robbe-Grillet se ne vuole appropiare, si vuole appropriare di Duras e Marguerite si lascia corteggiare per poi reclamare la propria indipendenza. Ma soprattutto Marguerite ci racconta la sua storia che solo può essere raccontata con la sua voce e il suo stile.
Cos’è la scrittura di Duras? È provocazione, abbandono, ossessione, cedimento. La scrittura è una visione, un momento di panico, un’emozione, un legame immerso in una storia a volte mal costruita. Quando scrive, Marguerite non si allontana mai dalla sua vita, anche quando i personaggi non sono sua madre, i fratelli, il cinese, Dyonis, lei… Anche quando i personaggi si sfibrano, non sono altro che un uomo, una donna, dei fantasmi, delle voci criptiche, indecifrabili. E tutto accade nella mente di Duras. Ed è tutto così claustrofobico. Marguerite evade dalla sua vita, dalla relazione d’amore, dalla coppia (bisessuale, omosessuale, madre-figlio, fratello-sorella), una coppia che non può congiungersi, che si evade continuamente. Però Marguerite la evade per naufragarci dentro, per perdersi dentro, nell’orgasmo della parola e del ricordo.
Dietro la scrittura c’è il desiderio, desiderio a cui Marguerite non può sottrarsi. Desiderio e un narcisimo drammatico. All’origine della scrittura c’è l’infanzia, o meglio una pubertà travestita d’infanzia, vergine e innocente. L’enfant del romanzo L’amant de la Chine du Nord. All’origine della scrittura c’è la memoria, una memoria che inganna se stessa. Memoria che nello sforzo brutale di rimemorare, di avvicinarsi sempre di più a quel pericoloso fantasma che ci portiamo dentro, di mostrare senza fronzoli l’inafferrabile che abbiamo dentro, si allontana dall’infanzia, mente, trasfigura e così facendo si avvicina a quello che siamo diventati. Disperatamente tesa tra quello che siamo stati e quello che siamo.
A quel qualcosa che in qualche modo è all’origine della scrittura di Duras si può dare un nome: possiamo chiamarlo Indocina. Ombra interna. L’Indocina è sempre là. È sempre stata là, tra lei e tutto il resto. Marguerite la custodisce. È il suo territorio. È il luogo del suo corpo, della distruzione del suo corpo per mezzo dell’alcolismo, è il luogo dell’amore, è il luogo della scrittura, eccitante e amara.
L’Indocina è la terra dell’innocenza e della perdita dell’innocenza. Marguerite, lei, l’innocenza l’ha perduta presto. L’Indocina è la terra della trasgressione. Marguerite ha quindici anni e mezzo. Porta quel famoso cappello di feltro da uomo, quel vestitino di seta sgualcito, stretto in vita da una cintura pesante, quelle assurde scarpe laminate da sera con i tacchi, le labbra carnose dipinte di rosso. Marguerite va con un cinese che non è né bello né brutto. Ma che importa! Il cinese ha la pelle color miele, lavata dalle piogge. Indossa un completo di tussor. Se ne sta timidamente nella suo Leon Bollé. Lei lo desidera perché lui la vuole, perché lui la desidera con forza e con paura. Marguerite desidera il desiderio dell’uomo di prenderla, di violare quel corpo minuto. Marguerite desidera l’ammirazione spietata che il cinese sente per lei.
L’Indocina è anche la terra dell’incesto, sfiorato, sussurrato, forse realizzato, forse non realizzato mai completamente. La notte scorre nei corridoi della scuola di cui la madre di Marguerite è direttrice. Marguerite si stringe al corpo del fratello minore, le petit-frère, Paulo. È un abbraccio materno. Lei lo vuole proteggere dalle angherie e dai soprusi del fratello maggiore, l’ainé, Pierre. Forse lei ha già perso la verginità con il cinese. Forse questo abbraccio è accaduto prima. Lei e Paulo si stringono nella paura del fratello più grande. La paura paralizzante e traumatizzante di Paulo. La paura di Marguerite della paura di Paulo. La paura di Marguerite che Pierre possa ammazzare Paulo. La paura di Marguerite che la madre lasci che Pierre ammazzi Paulo. Si stringono, lei e Paulo, nella paura e nella gelosia di quel fratello maggiore. Pierre la pecora nera della famiglia, un buono a nulla. Pierre che passa il tempo e butta i risparmi della madre nelle fumerie di oppio e nei postriboli. Pierre che ha preso il posto del padre, morto quando Marguerite aveva quattro anni. Pierre che li batte. Pierre che manipola la madre, le ruba soldi e gioielli. Pierre il figlio amato da Marie Donnadieu. Di un amore che è come una corrente oceanica che travolge tutto, tutto il resto.
Marguerite e Paulo si stringono nella juissance, in una parola censurata, in una parola che conoscono senza poterla pronunciare, in una parola che poi Marguerite scriverà. Coppia vulnerabile e disarmata. O armata solo del potere distruttivo di un erotismo vietato.
L’Indocina è anche un paesaggio che rinasce inarrestabile dappertutto, altrove. Nelle acque stagnanti di un fiume. Quel fiume è il Mekong. Nel caldo torrido di una estate. Quel caldo è quello in cui sprofonda la terra delle risaie sul bordo dell’oceano Pacifico. In un lamento terrificante. Quel lamento è la nénia di una mendicante che è arrivata a piedi nudi fino alla scuola della madre, con le piaghe ai piedi, per affidarle un neonato che non sopravviverà. Nel gorgoglío della vegetazione, dei profumi, il gorgoglío delle parole che verranno, della musica di Duras. La sua parola erotica, sensuale e il piacere di quella parola. È un paesaggio interiore che Marguerite rievoca nei romanzi e ricostruisce spartanamente nei suoi film, girati nella casa di campagna comprata a Neauphle le Chateau.
L’Indocina è la madre, Marie Donnadieu. La fortuna tentata dalla madre quando, giovane paesana, figlia di commercianti, decide di seguire il primo marito che è direttore di una scuola in Indocina. La solitudine e l’amarezza della madre quando resta vedova per la seconda volta con tre figli da sfamare. L’emarginazione dalla comunità bianca della colonia. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia la solidarietà con gli indigeni, quando si rifugia nel bungalow di Prey Nop dove impiega tutti i risparmi di una vita per farsi dare in concessione quel terreno incoltivabile invaso per una parte dell’anno dalle maree del Pacifico. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quei suoi figli disgraziati: Pierre un mezzo criminale, Paulo, il ragazzo diverso, Marguerite la mezza prostituta. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quel suo aspetto trasandato, i capelli raccolti in una treccia indigena, i sacchi di cui si veste, la sua severità. L’emarginazione e l’umiliazione che rivivono nel desiderio di Marguerite per le luci di rue Catinat, dove si divertono i bianchi, per quello che brilla fuori mentre lei si nasconde nel buio del cinema Eden, nel desiderio avido dello sfarzo di una languida signora bianca, Anne Marie Stretter, apparizione in un ballo a cui Marguerite non parteciperà mai, o parteciperà solo senza mai esserci davvero, come Lol V. Stein, sonnambula, nascosta dietro le piante.
L’Indocina è la madre. La fatica di questa donna collassata nella chaise longue, quasi senza vita, senza voglia di vivere, abbandonata alla sua depressione. Poi l’improvviso scoppio di allegria. Pierre non c’è, è stato allontanato, rimpatriato in Francia. Le secchiate d’acqua per sciaquare i pavimenti della casa. Marie al piano. Marie che vede come per la prima volta quel famoso cappello di feltro da uomo. Una specie di sguardo complice scambiato con la figlia. La fatica e la follia annidata in quei repentini cambiamenti d’umore. La madre è anche la violenza, le botte con cui Marie si scaraventa sopra Marguerite perchè Pierre grida che se le merita altrimenti finirà come una puttana. Le botte che la madre le infligge per evitare che sia Piarre a picchiarla a morte, per calmare Pierre, la sua furia, per salvarla da Pierre e dannarla per sempre.
Di tutto questo, di questa madre, Marguerite si vendica quando la abbrutisce, mente su di lei, la dipinge come una folle, violenta, depressiva, una donna che spinge la figlia minorenne a sedurre gli uomini per farsi sposare, che prostituisce la figlia per farsi pagare i debiti di Pierre, ostinata a costruire dighe sul Pacifico che non terranno all’incalzare delle maree, una donna che nella finzione del romanzo si rovinerà in quell’impresa assurda.
Marguerite si vendica ma mai del tutto. Nello spiraglio si affaccia una donna una Marie più giovane, più bella, forse un po’ vanitosa, più mondana, una sconosciuta, quella che aveva sedotto il padre di Marguerite, suscitando l’invidia e le calunnie della comunità di maestri e istitutori venuti dalla Francia, quella che lo aveva amato alla follia, e che era ammattita dal dolore alla sua morte. Quella Marie la cui risata scoppia e crepita nelle labbra di Marguerite.
Contro questa donna e per lei Duras erige la sua scrittura.
(www.libreriadelledonne.it 29/04/2015)