19 Febbraio 2012
il sole 24 ORE

È la verità a costruire la poesia

Domenico Scarpa

Nel Nel settembre 1954 il “Notiziario Einaudi” pubblicava un articolo di Anna Maria Ortese sul Diario di Anne Frank, uscito sei mesi prima. In questo precoce bilancio su un’opera che andava suscitando emozione, la Ortese seppe trovare il giusto bilanciamento tra vita vissuta e parole scritte: Anne Frank, disse, era “l’adolescenza, e anche il genio dell’adolescenza”; era “la luce della coscienza, e questa coscienza si fa continuamente e perfettamente “espressione (…). La sua dignità e la sua bellezza sono in questo: che non vi è nulla che essa non voglia e non possa esprimere. Neppure la nausea”. Non sappiamo chi tra gli einaudiani ebbe l’intuito di chiedere proprio alla Ortese quell’articolo: se fu Italo Calvino che dirigeva il “Notiziario” oppure Natalia Ginzburg che aveva firmato la prefazione al diario. Di sicuro la Ortese parlò con cognizione quando venne a lodare, nella giovane ebrea olandese morta a Bergen-Belsen, l'”amore della realtà”. Anna Maria Ortese aveva incontrato un libro al quale era predestinata, imbattendosi per di più in una zona di sé stessa collocata nel suo intimo passato ma anche, e misteriosamente, fuori del tempo: “Un libro dove viene registrato il quotidiano, ma anche l’eterno ch’è nel quotidiano”.
Quell’articolo sul diario di Anne Frank è oggi raccolto nel volumetto Adelphi intitolato Da Moby Dick all’Orsa Bianca: un libro, come ha visto bene la sua curatrice Monica Farnetti, incostruibile, perché è vano tentare di estrarre, dal corpus della Ortese, un’opera compiuta sulla letteratura. La ragione di questa impossibilità è il medesimo quid che fa la grandezza del diario di Anne Frank: l’ironia che circola nella sua temperatura affettiva, la maturità che regge la sua adolescenza povera. Alla Ortese infatti non interessa la letteratura in sé e per sé, malgrado possegga (lo provano i suoi articoli su Leopardi, su Cvechov, su Buzzati, su Hemingway) quella fame perentoria che è la condizione per saperla ascoltare. La Ortese non si rammarica della propria gracile fortuna letteraria, bensì – lo scrive nel ’97 a Roberto Calasso – della “invisibilità o estraneità del mio nome nella attuale (e forse eterna) vicenda del linguaggio italiano”. Le sta a cuore il linguaggio quindi, e non la letteratura. Questa opzione, etica prima che estetica, la avvicina ad alcune grandi autrici del Novecento italiano: a Elsa Morante innanzitutto, i cui libri sono per lei “i più grandi scritti da una donna italiana in qualsiasi tempo. (…) Belli perché sono i libri della storia del mondo – la storia senza date -, sono la storia del mondo senza aste e nome”. E la avvicina a Natalia Ginzburg, che nel 1980 tentava di trasferire presso Einaudi l’opera intera della Ortese presentandola come “uno dei meglio scrittori che ci sono”: uno dei meglio, parole terra-terra e genere assoluto, né maschile né femminile.
In questo clima morale aveva preso forma, un decennio prima, il saggio di cui si riproduce la parte centrale ed essenziale: è un testo finora sfuggito alle bibliografie della Ortese, e che andrà integrato idealmente al volume curato da Monica Farnetti. “Rileggendo Paola Masino” apparve sul n. 11 (a. II, novembre-dicembre 1970) di “Il Bimestre”, rivista fiorentina curata da Enrico Gabbrielli Scalini e Sergio Salvi. La Ortese aveva conosciuto Paola Masino a Roma nel giugno 1937, subito dopo aver debuttato da Bompiani con Angelici dolori, raccolta di racconti consigliata all’editore da Massimo Bontempelli che era all’apice della sua fama ed era anche il compagno della Masino, scrittrice che aveva trent’anni meno di lui e che non somigliava né a lui né a nessun altro. “Penso – scrive di lei la Ortese in un articolo del 1989 raccolto in Moby Dick – che dei suoi libri rimarranno alcune cose fra tante: la stravaganza del discorso, l’ardire (così raro, ieri), e soprattutto una malinconia di fondo, quasi invisibile, come una nebbiolina. Propria di chi è nato in cima alla vita, e vede anche quel che gli altri non vedono, che sfugge all’occhio comune”. Queste parole sono la migliore introduzione a “Rileggendo Paola Masino”, un testo che anticipa, in forma breve e per più aspetti semplificata, i temi che molti anni dopo incardineranno un grande libro dell’ultimo Novecento: Corpo celeste, l’opera-testamento di Anna Maria Ortese apparsa nel 1997 da Adelphi. Lì la Ortese espone – con la sua voce elementare e impervia – che cosa siano per lei la ragione, la società, la libertà, la poesia, la verità, che cosa le faccia nascere e morire nel corso della storia, che cosa le saldi insieme o le separi. L’occasione del suo discorso fu un libro semidimenticato: Poesie, di Paola Masino. Lo aveva stampato nel ’47 Valentino Bompiani, presentandolo come la sintesi di una tradizione lirica, non solo italiana: “Accanto alla lettura acutissima dei moderni, tutte le esperienze da Saffo a Jacopone fino ai Petrarchisti cinque e seicenteschi sono accortamente assimilate”. Nel 1970, la poesia carnosa e astratta di Paola Masino fu restituita da Anna Maria Ortese alla vicenda secolare della lingua italiana (della lingua, non della letteratura), trovando posto in una rete di rapporti, che solo ora comincia a rendersi visibile, tra le scrittrici maggiori del nostro Novecento. Come Anne Frank e come la Ortese, Paola Masino sapeva trasfondere l’eternità nella vita quotidiana. L’ultima poesia del suo libro, Preghiera, conta appena quattro versi: “Dio, / andiamo io e te per mano / in una tua pianura. / Là giudicami”.

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