24 Settembre 2011

“E vecchi merletti” di Fiorella Cagnoni

Maria Castiglioni

“E vecchi merletti” è l’ultimo libro delle avventure della “detective per caso” – come la definì Oreste Del Buono – Alice Carta, creatura letteraria di Fiorella Cagnoni. Le sue precedenti imprese le potete leggere in Questione di Tempo (La Tartaruga Ed., 1985-2002) Incauto Acquisto (Tartaruga Ed., 1992), Arsenico (La Tartaruga Ed., 2001), Alice Carta in Inghilterra (La Chiocciola, Zane Ed., 2007).
Incomincerò questa presentazione prendendo da Dorothy Sayers (Oxford, 1893-1957) – grande scrittrice di gialli, 15 in tutto – una citazione dalla prefazione di un suo libro: “È stato detto che un interesse amoroso è soltanto un’interferenza in una storia poliziesca. Ma se si pensa ai personaggi che vi sono implicati, è l’interesse poliziesco, invece, che potrebbe sembrare un’interferenza esasperante nella loro storia d’amore…”
Il titolo del libro da cui ho tratto la citazione è Un’indagine romantica (Tartaruga ed., 1991), che potrebbe essere anche un altro possibile titolo di questo ultimo libro di Fiorella Cagnoni – edito dalla Casa Editrice Zane di Lecce, nella collana La Chiocciola.
Anche Angela Donahoe, studiosa inglese (Monash University) ha parlato di un focus, negli ultimi scritti di Fiorella, “much more personal and self-reflexive”.
L’intreccio tra storia d’amore e indagine poliziesca è ammesso dalla stessa autrice, a partire dal titolo della prima parte (Tra un delitto e l’altro) nonché in un dialogo tra la protagonista, la detective Alice Carta a Milano e la sua innamorata Giuliana Penna, in Messico, attraverso uno scambio telefonico che avviene, come è ormai usuale di questi tempi, in Skype:

“Abbiamo un elenco di quesiti interminabile.”
“Ti posso dire qualcosa che non c’entra niente?”
“Cioè?”
“Una volta ho visto scritto quesito, e la prima reazione è stata leggerlo come in spagnolo… come un piccolo queso, un formaggino insomma…”
“Interessante.”
“E poi sai cosa penso, tornando al tema ma un po’ a lato?”
“Dimmelo.”
“Tu hai fatto diciamo varie indagini, no?”
“Hm.”
“Dico, hai risolto qualche mistero, legato a delitti, assassini…”
“E allora?”
“Qui non c’è delitto, eppure c’è una ricostruzione. Di ragioni, di cause, di sospetti e tracce, ombre e luci… Questioni più di psicologia che di reato.”
“Mi fai tornare in mente Poirot,” sorrise Alice Carta.
“In che senso?”
“Diceva: la trama è sempre la stessa, è la psicologia che cambia. Ma cosa intendi? Che in mancanza di un delitto analizzo il mutamento improvviso di un amore?”
“Ma non nel senso che siccome non c’è un delitto indaghi sulla crisi di un amore. Piuttosto che indaghi su questo come se. Intanto che non c’è un vero e proprio delitto.”

Quanto c’è di romantico e quanto di poliziesco in questo libro? Sono due aloni/dimensioni che si intersecano continuamente, sia temporalmente che letterariamente. Viene creato dall’autrice un alone poliziesco intorno alla fine di un amore. Alice Carta cerca di indagare su questa fine come fosse un delitto e lo fa con l’animo – che le è congeniale – della detective, anche se sa perfettamente che in questo tipo di ricostruzione non c’è verità possibile, non c’è una precisa consequenzialità, il nesso causa/effetto sfuma e non esiste alcun assassino da scoprire.
E c’è un alone romantico – che uso nella sua definizione da manuale di letteratura come l’affermazione della libertà individuale, lo scavo psicologico e dei sentimenti, l’inclinazione alla dimensione pedagogica – che percorre anche la parte più propriamente poliziesca.
Quindi romanzo che combina più generi, poliziesco, romantico, pedagogico, che vuol intrattenere ma anche trasmettere un messaggio politico e culturale che attiene alla pratica politica delle donne degli ultimi decenni.
Una sfida ardita per l’autrice di cui si coglie la tensione a far sì che i propri personaggi esprimano fino in fondo – se un fondo ci può mai essere – inquietudini, drammi, desideri e speranze che hanno accomunato e accomunano una, e anche più di una, generazioni di donne e femministe.
“Che la letteratura sia dolce e utile” – ammoniva Orazio, e mi pare che Fiorella abbia fatto suo questo invito.
Il romanzo si divide nettamente in due parti di 90 pagine l’una.
La prima narra della fine, lacerante e fondamentalmente inspiegabile (come la nascita di un amore, ma di questa non ci si chiede il perché) di una relazione d’amore tra due donne; la seconda introduce lo scenario in cui avverrà il delitto e vi si addentra progressivamente, anche se, contrariamente al classico plot del romanzo giallo, perché appaia il cadavere occorre aspettare ben 146 pagine!
Che però il delitto sia nell’aria lo si intuisce già nella prima parte dove compare una pagina di diario, scritta dalla mano assassina, – espediente letterario che crea tensione e annuncia la futura entrata in scena della principale protagonista di ogni romanzo giallo: la morte.

Vivere la vita così – normale. Ma preparandosi all’atto FINALE, perché non si può sfuggire due volte al giudizio definitivo. L’unico giudizio DEFINITIVO è la morte. E se i tribunali degli uomini non condannano a morte, sarà la mia mano a castigare L’INFAMIA.
Nemmeno l’ombra… C’era una canzone che diceva… nemmeno l’ombra della perduta felicità… La felicità te la portano via, non la perdi, non è un accendino o una patente. Quelli si perdono, la felicità te la rubano.
Ogni gesto a suo tempo.
Cancellare il DISONORE.
Non farsi scoprire.
Non il delitto perfetto, che anche quello è una chimera. Al contrario – il perfetto delitto che lava l’onta.
Concedere qualche possibilità di ravvedimento? Difficile da pensare.
Intanto c’erano da sistemare tutte quelle fotografie. Anni e anni di fotografie buttate ancora alla rinfusa in scatole verdi di cartone, che neanche riuscivano a contenerle bene.
ORDINE. Fare ordine.

Qualche informazione per orientarsi nella narrazione: l’amore che si sta estinguendo e che assorbe tutte le prime 90 pagine è quello tra Vittoria e Alfonsa sulla cui vicenda si addensano, si diradano per poi raggrumarsi di nuovo in un fittissimo dialogo, i commenti/pensieri delle amiche della coppia, tra cui Alice Carta e Giuliana Penna: la cui storia d’amore sta invece nascendo proprio all’ombra di questa fine, forse ad indicare l’instancabile lavoro di Eros? O l’insopprimibile tenacia del desiderio dell’Altro.
C’è poi la coppia della tragedia, Matilde e Tomaso, vicini di masseria di Alice e Giuliana.
I luoghi sono Milano, la casa di Alice, le case delle amiche, la Libreria delle donne (prima parte) e, nella seconda parte, Lecce, la masseria dove inizia la vita in comune di Alice e Giuliana e i suoi dintorni, compresa la masseria del delitto, luogo per definizione isolato, come in tutti i gialli che si rispettano…
Accennavo a un “fittissimo dialogo”: questa è la forma preminente in cui si snoda la prima parte del romanzo, una scelta stilistica che ho trovato particolarmente felice e totalmente opposta al metodo di indagine poliziesca, che è invece l’esaltazione di un’unica mente, acuta, solitaria e interrogante. È come se per ragionare sulla fine di un amore occorresse una sorta di “detective plurale”. Si tratta di un dialogo serrato, a catenaccio, dove a volte le locutrici sono perfino difficili da riconoscere, così da sembrare le tante articolazioni di un monologo.
Dice Nathalie Sarraute, scrittrice franco russa e studiosa di teoria della letteratura, che “il dialogo è l’estensione funzionale di un monologo, è una sottoconversazione dell’autore con se stesso” ed è probabile che anche qui, come in tutti i romanzi, le molteplici personagge, cane e gatte incluse, incarnino i vari Sé dell’autrice, impegnata in una sorta di simposio con se stessa per capire che cosa porta a conclusione un rapporto d’amore.
Dice Susan Sontag che in un romanzo psicologico “non deve succedere niente”. E in effetti, in questa prima parte, non succede niente. Vale a dire che si sta ragionando su un già accaduto (la fine del legame) e si preannuncia quello che avverrà (un nuovo inizio d’amore, un delitto… e l’accostamento è inquietante). Dal punto di vista degli eventi stiamo galleggiando in un tempo sospeso, ma contemporaneamente il tempo è uno dei grandi oggetti dell’argomentare collettivo. Come in questo dialogo dove l’affastellarsi delle voci, nella concitazione e passione dello scambio del pensiero (chi non conosce questa situazione?) raggiunge anche degli effetti umoristici:

“Non è sempre così?” sussurrò Alice a Dolores. “L’amore romantico, quello che contempla e comprende la sessualità, è sempre monogamico, no?”
“Hm. Sì. Ma sei rimasta indietro di un argomento?” rispose Dolores prendendole una Marlboro dal pacchetto appena aperto.
“Dice che gli inciampi con Vittoria l’avevano confusa”, continuava Pilar, “e che la seduzione di Patrizia ha colpito nel segno, e anche lei si era invaghita. Era incantata da quella particolare condizione delle cotte”.
“Spiegazione debole,” sentenziò Stella.
“E quale sarebbe, questa parte mancante nella relazione con Vittoria?” chiese Sylvie. “No, non mancante… appisolata. Che veste ha, questa bella addormentata nella relazione?”
“Ma quale addormentata nel nosco! C’era tutto, per noi!” sbottò Vittoria. “Tutto, avevamo: progetti, realizzazioni, scambi, pensiero, divertimento, allegria, sincerità, sessualità. Vivevamo in un’armonia speciale, insostituibile. E se magari qualcosa per lei non funzionava, perché non dirlo?”
“Hai detto nosco?!” chiesero insieme Stella e Sylvie.
“Vittoria ha ragione,” tagliò corto Dolores. “Anche se magari con qualche problema, la loro relazione meritava un congedo meno traumatico.”
“Cosa vuoi dire?” chiesero insieme Stella, Sylvie e Pilar.
“Vuol dire che Alfonsa ha preteso che Vittoria smettesse di amarla troppo in fretta, avrebbe voluto che in quattro e quattr’otto Vittoria trasformasse la loro relazione in una bella amicizia, così – dall’oggi al domani. Vero, Dolores? Questo volevi dire?” riassunse Alice.
“Cielo ragazze, adesso ho bisogno d’esser tradotta?”
“Ma è stata Vittoria a buttarla fuori di casa! Dopo i tentativi di non far finire tutto! Quale quattro e quattr’otto?” diceva intanto Pilar. E già. Perché esasperata dalla gelosia e dalla rabbia Vittoria aveva intimato ad Alfonsa di andarsene dalla propria casa di Napoli, dove passavano insieme il fine settimana dei “giorni dei tentativi”.
“Va bene. Stiamo calme,” propose Alice Carta. “Dovremmo dirci allora cosa ogni una di noi intenda per meno traumatico, per troppo in fretta, e per quattro e quattr’otto.”
“Un rapporto come il nostro non lo butti via dall’oggi al domani,” disse subito Vittoria.
“Ma questo, Alfonsa non l’ha fatto,” ripeté Pilar. “Tu l’hai mandata via dalla vostra casa, piuttosto!”
“E vorrei anche vedere!” ribatté Vittoria. La sua voce era sempre troppo alta, ma nei suoi occhi era anche sempre pronto un fiotto di lacrime.
“Allora,” riprese Alice, “cominciamo dall’inizio: meno traumatico, come ha detto Dolores, cosa vuol dire? Che Alfonsa… quanto tempo sarebbe dovuta stare con Vittoria come se niente fosse?”

Meno traumatico… quattro e quattr’otto… troppo in fretta: le domande di Alice sono anche le nostre.
C’è un tempo per il delitto e c’è un tempo per la fine di un legame, ma in ambedue avvertiamo un processo di accelerazione. Per non uccidere forse bisogna non avere fretta.
Le questioni, i quesitos direbbe Giuliana, si rincorrono: quanto avrebbe dovuto aspettare chi era stata tradita? e per quanto tempo avrebbe dovuto fare come se niente fosse chi si stava allontanando?
Il tempo è la culla dell’amore, ma anche il suo aguzzino? Di certo l’indugio, come dice Alfonsa a un certo punto, non è concesso perché, nel frattempo, “tutti i non detti si ammassano da qualche parte”, come le ricorda Alice.
E questo tema, la durata di un legame, il due per sempre insito nella promessa iniziale (e che dà il titolo anche alla seconda parte), resta un nodo centrale della tematica del romanzo, quasi un’ossessione, e viene trattato a più riprese. Ecco un altro dialogo via Skype tra Giuliana e Alice (parla Giuliana e poi Alice):

“(…) O si pensa che il sogno d’amore sia soltanto l’incanto dei primi tempi, e dunque ad un certo punto lo si ripete cambiando partner, oppure si pensa che il sogno d’amore sia curare un rapporto, una relazione come dite voi, con accanimento terapeutico curare l’amore, prima di arrendersi. E si fatica, a farlo durare.”
“La tua storia più lunga quanto tempo è durata?”
Quella pausa. Per esser certa di dire davvero la verità. “D’amore? Un po’ meno di nove anni. Guarda, io la dico sempre, la verità. Subito.”
“E… già che sai tutto: cosa ti fa disamorare?”
“Non è vero che so tutto. Mi fa disamorare… la non consapevolezza. Sì, direi la non consapevolezza. Anch’io ne patisco, ma piuttosto di rado.”

Ma la consapevolezza di cui parla Giuliana non è tutto. Forse c’è una nota di presunzione (inconsapevole) in lei che non dà conto di un altro fattore, imprescindibile in un giallo, ma anche in un amore – e che è rappresentato da quella che l’autrice più avanti definirà come “la zona di semioscurità”.
Abbiamo sentito varie volte Chiara Zamboni rammentarci che, nel legame madre figlia e per estensione donna donna, esiste un “oscuro” per il fatto di appartenere allo stesso sesso. Non tenerne conto significa presumere una somiglianza che pare illuminare la scena mentre in realtà la oscura, rendendo indistinguibile l’una dall’altra o avvolgendole nella complementarità (Carta, Penna…).
Sintonia, complementarità: è questo il sogno d’amore?
Dal dialogo tra Alice e Alfonsa, pag. 75:

“Sai, per parecchio tempo non ci siamo parlate tu e io,” riprese Alfonsa, “ma ho pensato e detto grandi certezze che mi stanno crollando addosso. Addosso e dentro. Elena è una donna delicata, d’una delicatezza preziosa. L’ho amata con tutto il cuore, l’ho amata convinta di stare con lei nel vero sogno d’amore, con quella aderenza di pensieri che deve – deve – nutrirsi, deve esser guardata, conosciuta. Anche a costo di cancellare tutto. Perché in certi momenti il tutto di prima è niente, di fronte al sogno d’amore che ti regala un di più di essere. Ti sembro pazza?”
“Aderenza di pensieri,” ripeté Alice.
“Così tu hai definito una volta l’essere innamorate.”
“Ah ecco.”

Vorrei richiamare la vostra attenzione sull’aggettivo “vero” anteposto a “sogno d’amore”. Forse qui il desiderio si è impossessato della penna dell’autrice e ha spazzato via ogni logica per continuare a tessere la sua irresistibile trama … se un sogno di per sé non è vero, essendo un sogno, che cosa potrà mai essere un “vero sogno d’amore”? Qualcuno ebbe a dire che “la realizzazione di un sogno è ancora un sogno, più illusorio degli altri”. Ma tant’è…
Quella aderenza di pensieri (di cui al dialogo precedente) sembra essere il fondamento anche della nascita dell’amore tra la coppia Matilde-Tomaso. Si conoscono in carcere facendo gli scrivani per conto di una coppia di detenuti analfabeti. La loro aderenza nasce attraverso gli incipit delle lettere che si scrivono, dove l’uno da il la a quello successivo, del genere O cara moglie a cui è risposto stasera ti prego: un contrappunto amoroso e segreto per inanellamenti successivi che dura svariati anni.
Anche per Alice è fondamentale questo contrappunto, il non trovarlo sempre in Giuliana le provoca delusione.
Attenzione a questo dialogo Alice-Giuliana:

Giuliana non conosceva la canzone di Ivan Della Mea, la O cara moglie che aveva aperto le strade della relazione per Matilde e Tomaso. Alice la suonò al piano, la cantò dopo aver cercato le parole in Internet.
“Be’ adesso la sai,” disse quando l’ebbe conclusa tre volte.
“Sembri seccata,” dichiarò Giuliana.
“Seccata? No. Solo che… Capisco che non è sempre possibile, ma mi piace di più quando conosci quel che conosco io.”
“Capisco anch’io, ma tu devi capire che tutte pretendono che io sappia le canzoni di lotta e i ritornelli di Sanremo, i nomi i cognomi e le correnti dei più insulsi uomini politici, le virgole degli articoli di dieci anni fa su Via Dogana, le barzellette, le poesie di Patrizia Cavalli, le citazioni da Totò e… È umanamente impossibile, per una che ha vissuto in Messico quasi tutta la vita.”
“Be’ la buona notizia è che io non pretendo niente,” disse Alice alzandosi dallo sgabello del pianoforte per rispondere al telefono.
“C’è modo e modo di pretendere. Se una dice: mi piace di più, pretende.”

Marie Magdeleine Chatel, psicanalista francese, ha inventato, per definire questa delusione, una bellissima espressione: “la non somiglianza delle simili”. A voler essere oneste dobbiamo però riconoscere che questa supposta somiglianza non è solo appannaggio delle coppie omo (dove lo scivolone può essere più comprensibile…), bensì è un’aspettativa di tutte le relazioni con una forte carica di affettività: genitori-figli, coppie etero, amiche, amici, maestro/a-discepolo/a, partner in affari. Può dilatarsi, questa non somiglianza, fino a diventare avversione, odio, per l’impossibilità del suo contrario, oppure può incrinarsi lentamente, a partire da cose banali. E qui l’esergo di Agatha Christie, posto nella seconda parte, suona come un magistrale avvertimento: niente è tanto banale da poter essere trascurato.
È riferito alla scena del delitto, ma possiamo trasferirlo anche sulla scena di un amore:

Non le garbavano, le ombre con Giuliana. Quelle parti meno illuminate dello scambio quotidiano, quelle semioscurità che poi si diradano o smettono d’esser guardate. Difficili da evitare. E che questa scontentezza segnalasse la propria tenace dipendenza non le importava affatto: anzi, era felice di dipendere da Giuliana, di ricevere da lei quel di più di sicurezza e fiducia che trasforma una buona vita in una vita speciale. Che il di più di senso della sua vita dipendesse dalla relazione con Giuliana era un esercizio di maturità, non un’involuzione.
Né le piaceva cogliere delusione in Giuliana, quando lei si intestardiva su un dettaglio e scordava l’orizzonte. Delusione indiscutibile: non perché fosse evidente, anzi Giuliana aveva sempre un modo amorevole e delicato d’offrire ad Alice l’occasione per ripartire, – ma perché era lampante a lei stessa che le proprie pur sporadiche bizzarrie potevano suscitare soltanto scoraggiamento. Non pietà, com’è forse ovvio che mai sia in una relazione d’amore: un leggero avvilimento, d’illusione svanita. Il tempo del minuscolo sconforto.

Ecco comparire il tempo del minuscolo sconforto che può diventare slavina, sgretolamento o addirittura, e qui entriamo nel giallo, eliminazione fisica, assassinio dell’altro in quanto mostro da punire per ristabilire un ordine, una giustizia.
Ma quando tutto sarà compiuto non vi sarà giustizia, ma solo dolore che si aggiunge a dolore.
Infatti l’omicidio, dice Vittoria con una frase tanto profonda quanto semplice “non è mai una buona soluzione”.
Ma non c’è rabbia, astio, odio nei confronti dell’omicida, anzi è un sentimento di dolore per quel suo “amore deformato”, per “l’isolamento del suo cuore”.
Qui il romanzo si chiude con una sorta di rimando a se stesso, al suo inizio: l’amore non può mai essere chiusura, ripiegamento su di sé, abbandono del campo.
E così, al terminare dell’indagine poliziesca di Alice, si concluderà anche la sua (e delle amiche) indagine romantica attraverso quella che viene definita “l’unica conclusione certa”:

” (…) Vi ricordate… scusa, Adriana… vi ricordate il periodo del garbuglio Vittoria-Alfonsa?”
“Sì,” dissero Vittoria e Giuliana. Adriana si alzò da tavola per l’improvvisa urgenza di prendere una bottiglia di acqua frizzante dal frigorifero.
“Eravamo arrivate ad una conclusione certa, in quei giorni: che in amore come in ogni altra relazione importante dire il dispiacere, il disagio, la fatica, dirlo subito, aiuta più di ogni altra mossa,” continuò Alice. “Voi, anche voi, avevate dimostrato quanto sia difficile farlo.”

Difficile, impossibile?
Le ultime righe evocano un cielo stellato, un po’ come l’Inferno dantesco (Uscimmo a riveder le stelle), il che fa bene sperare…

Data la mia nota passione per le rime, vorrei terminare con una quartina:
E Alice Carta alla sua quinta investigazione conclude:
il delitto non è mai una buona soluzione.
Che sia di una persona o di un amore,
che cosa non poteva essere messo prima, in parole

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