7 Dicembre 2006
Fahrenheit

Elena Ferrante risponde alle ascoltatrici

 Perché i suoi personaggi sono donne sofferenti? Eva.

Cara Eva, il dolore di Delia, Olga, Leda è il frutto di una delusione. Ciò che si aspettavano dalla vita – sono donne che hanno cercato di rompere con la tradizione delle loro madri e delle loro nonne – non arriva. Arrivano invece vecchi fantasmi, gli stessi con cui hanno dovuto fare i conti le donne del passato. La differenza è che loro non li subiscono passivamente. Si battono invece con tutte le loro energie e ce la fanno. Non vincono, ma semplicemente vengono a patti con le proprie aspettative e così trovano nuovi equilibri. Io non le sento come donne sofferenti, ma come donne combattenti.

 

Sono semplicemente innamorata della sua scrittura, non ho curiosità sulla sua persona perché io conosco di lei quel che mi interessa: quello che risuona fra noi attraverso le parole dei suoi racconti. Io so che è donna perché nelle sue pagine sente, soffre e si tortura una donna; un uomo al massimo è in grado di capirle quelle pagine, non credo di scriverle, neppure quel camaleonte di Tolstoj che con la Karenina non ha fatto un cattivo lavoro. Io vorrei sapere: cosa legge, cosa le piace leggere? La conosce Paula Fox di “Quello che rimane”? È una scrittrice che mi piace quanto Lei, nelle sue storie c’è un’analoga, terribile, picevolissima suspence; la traduce in italiano, benissimo, un uomo: ecco al massimo capirei che lei fosse quell’uomo e che fosse rimasto intrappolato nelle sue atmosfere, un po’ alla “Zelig”. Saluti grati Cristiana
Cara Cristiana, la ringrazio per le parole incoraggianti. Mi ha colpito soprattutto una sua formula: “quello che risuona tra noi”. Anche a me piacciono i libri per quello che di loro risuona tra noi. Mentre scrivevo “La figlia oscura”, leggevo un vecchio racconto, “Olivia”, pubblicato da Einaudi nel 1959 e tradotto da Carlo Fruttero. Il racconto è uscito anonimo nel 1949, dalla Hogarth Press di Londra. Anche se non sappiamo niente di chi l’ha scritto, a me pare che abbia pagine di buona risonanza e glielo consiglio. Quanto a “Quello che rimane” di Paula Fox, la ringrazio per l’accostamento ma è troppo generosa. “Quello che rimane” è un libro che amo per la sua intensità narrativa. Dalla sua ricchezza di senso mi sento molto lontana.

 

Carissima Elena Ferrante, ho letto “I giorni dell’abbandono” e potrei dire che lei è donna in quanto ci si sente proprio così quando si viene abbandonate da quegli esseri senza cuore che sono gli uomini, tuttavia potrebbe essere anche un uomo perché ce ne sarà pure uno consapevole del male che fa e penso al grande Tolstoj della “Sonata a Kreutzer”: complimenti in ogni caso, ci sveli se vuole l’enigma o sennò l’arte è superiore in ogni caso
sua Mariateresa Gabriele

Cara Mariateresa, la ringrazio per aver letto “I giorni dell’abbandono”. Non credo che l’arte, come lei dice, possa prescindere dall’artefice. Credo anzi che chi scrive finisca, che lo voglia o no, interamente nella sua scrittura. L’autore c’è sempre ed è nel testo, che perciò ha tutto il necessario per risolvere gli enigmi che contano. Quelli che non contano è inutile porseli.

 

Cari amici di Fahreneit, vi scrivo per segnalarvi una circostanza quanto meno singolare, in relazione alla protagonista Leda dell’ultimo libro di Elena Ferrante, “La figlia oscura”, che ancora non ho letto, ma che mi sarà presto regalato. Ebbene, io vivo a Napoli, mi chiamo Leda, sono laureata in inglese (insegno e traduco), sono divorziata da alcuni anni e ho due figli, ormai adolescenti. Mi è sorto un dubbio, la misteriosa Elena (che secondo la mitologia è figlia di Leda ) è forse qualcuno che mi conosce? Con simpatia e stima, Leda
Cara Leda, che dirle? Chi scrive un racconto spera che le lettrici e i lettori trovino motivo di identificazione non solo nei dati anagrafici dei personaggi. Quando avrà letto il libro, mi scriva e mi dica se le affinità con la mia Leda hanno varcato la soglia del nome. Ci tengo, visto che lei è una lettrice che promette di dare molta soddisfazione. In poche parole tra parentesi ha fatto un’osservazione per me importante. Ho scelto il nome Leda non casualmente. Leda – lo sanno soprattutto gli studenti di liceo e i pittori – è la ragazza a cui Zeus si unisce sotto forma di cigno. Ma se le lettrici e i lettori interessati vanno a vedere, per loro divertimento, nel terzo libro della Biblioteca di Apollodoro (è un volume Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla), scoprono che, in una versione meno nota del mito, Leda è al centro di una complicata, moderna vicenda di maternità. La vicenda è la seguente. Zeus si sarebbe unito in forma di cigno non a Leda ma a Nemesi, che per sfuggirgli si era mutata in oca. “Dall’unione” sintetizza Apollodoro “Nemesi partorì un uovo che un pastore trovò nei boschi e portò in dono a Leda; Leda lo custodì in un’urna e, a tempo debito, nacque Elena che lei allevò come sua figlia”. Questa Leda e questa Elena, la sua figlianon figlia, mi hanno suggerito i nomi di due dei personaggi della “Figlia oscura”. Se leggerà, vedrà.

 

Di Elena Ferrante ho letto “L’amore molesto”, “I giorni dell’abbandono”, “La frantumaglia”. Diversi per struttura ideativa e composizione tecnica, dei due romanzi ho amato moltissimo “I giorni dell’abbandono”, per la scrittura spigolosa e appuntita. Scarnificare la lingua significa, per la Ferrante, scarnificare i concetti dove ridurre all’osso non equivale, tuttavia, ad una semplificazione ma ai risultati di una accurata analisi introspettiva, che lascia sospese per la riflessione le questioni di fondo: la solitudine, l’elaborazione del dolore, l’amore. In questo esercizio di feroce, inesausta ricerca di senso, la scrittura scolpisce stati d’animo e sentimenti, esibendone contraddizioni e ambiguità. Alcune domande: cosa legge Elena Ferrante? Quale il suo rapporto con i classici, la tragedia greca in particolare? Cosa pensa del rapporto letturascuola? Grazie Roberta Costantini
Cara Roberta, la ringrazio per le buone parole. Sono stata una lettrice accanita e ho scritto parecchio sul mondo classico da ragazza, per mio piacere e per motivi di studio. Nei tragici, specialmente in Sofocle, trovo sempre qualcosa, anche poche parole, che mi accendono la fantasia. Quanto al rapporto della scuola con la lettura so poco o niente. Dal mio osservatorio di madre posso dire che conta molto la sensibilità degli insegnanti. Un insegnante che non ama la lettura comunicherà quel disamore anche se si rappresenta, davanti ai suoi alunni, come un accanito lettore.

 

Gentile Scrittrice Elena Ferrante, non ho letto i suoi libri, pertanto immagino che la sua scrittura sia importante, piacevole e valida, dai films che ho visto che mi sono piaciuti, oltre che per la validità di detti films, per le problematiche che sollevano. Raramente ho letto analisi così profonde sui sentimenti e l’interiorità di noi donne. La nostra sofferenza interiore viene congedata con una frase offensiva :”Isteria”. Su ciò che provoca l’isteria, silenzio assoluto. La ringrazio per aver illuminato il nostro sottosuolo che, sono sicura, ci aiuterà a crescere e a farci rispettare. Io mi riconosco in ciò che lei porta in superficie. Anch’io, quando i miei figlioli (un maschio 48enne una femmina 42enne), se ne sono andati per la loro strada, ho incominciato a vivere e ad apprezzare l’azzurro del cielo. Lo stesso è stato quando ho preso coscienza che l’amore per mio marito non aveva ragione di essere. Al pari di Olga, dopo il dolore e il precipitare nell’abisso della sofferenza, ho compiuto i primi passi nell’autostima. Mi dispiace un po’ che lei abbia deciso di non palesarsi, qualcuno ha insinuato che dietro al suo anonimato ci sia un uomo, Goffredo Fofi. Sono fermamente convinta che quando ci si può guardare negli occhi tutto diventa più tangibile. La mia stima, sugli argomenti che lei tratta, non cambierà qualsiasi sia la sua corporalità. Ora che fahrenheit ha attirato la mia attenzione su di lei, leggerò i suoi scritti, in definitiva è ciò che conta. Cordiali saluti
Il corpo è tutto quello che abbiamo e non bisogna sottovalutarlo. I film che ha visto sono appunto, letteralmente, un “dare corpo” a ciò che c’è nella scrittura dei libri. Sono convinta, però, che una pagina abbia in potenza più corpo di un film. Bisogna attivare tutte le nostre risorse corporali di scrittori e di lettori per farla funzionare. Scrivere e leggere è un grande investimento di corporalità. Nella scritturalettura, nel comporre segni e nel decifrarli, c’è un coinvolgimento del corpo che gareggia solo con la scrittura della musica.

 

Grazie Elena, con i tuoi libri, soprattutto l’ultimo, sei riuscita a chiarire, a colmare, anche solo per un attimo, facendoci sentire meno sole, i vuoti delle vite di noi donne, madri, figlie e lavoratrici di questo tempo ingrato. Anche il mio compagno ha amato molto il tuo libro che ci ha dato spunto per riflettere ancora una volta su aspetti a volte confusi, altre incoffessabili dell’esistenza. Elisabetta
Cara Elisabetta, la ringrazio per il verbo “colmare”, è bello se usato per dire un effetto della lettura. Un libro per me deve provare a incanalare materia viva, magmatica, e perciò non facilmente riducibile alle parole e a quel genere, fondamentale per la nostre esistenze, che è la confessione.

 

Cosa pensa Elena Ferrante di questioni sociali come l’eutanasia? Che posizione ha sul caso Welby? E, più in generale, non pensa che per un intellettuale (quindi anche per uno scrittore) sia importante (se non addirittura un dovere) la partecipazione al dibattito pubblico sui grandi temi della vita civile? Roberta, Genova
Cara Roberta, penso che quando restare in vita è puro dolore o, peggio ancora, è la negazione di tutto ciò che consideriamo vita umana, il colpo di grazia – potente espressione di generosità, se preso nella sua lettera – vada sancito come un diritto fondamentale. Le devo dire però che esprimermi così, in poche parole schematiche, su un tema delicatissimo mi pare frivolo. L’ho fatto in questa occasione, non lo farò più. Bisogna sicuramente partecipare alla vita pubblica, ma non ricorrendo a formule d’occasione oggi su un argomento, domani su un altro.

 

Tutti i suoi libri, compreso l’ultimo, sono caratterizzati dal tema dell’abbandono, dei distacco, della separazione. È una sua ferita personale? Oppure ritiene che l’incapacità di stare insieme, di vivere un progetto comune, sia un tema forte, rappresentativo del nostro tempo? Dario Martella (Roma)
Caro Dario, io aderisco all’idea che bisogna scrivere di ciò che ci ha segnato a fondo. Tanto meglio, poi, se il racconto delle nostre ferite più insanabili cattura un po’ di quello che una volta si chiamava ampollosamente lo spirito del tempo.

 

Cara Elena Ferrante, siamo stati invitati a non fare domande sul tema della sua identità, ma la tentazione è forte. Aggiro il problema domandandoLe quale dei suoi tre romanzi è più autobiografico. In quale dei suoi personaggi (forse nell’ultimo, bellissimo, di Leda) si riconosce di più? Alberta
Cara Alberta, sento Delia, Olga e Leda, personaggi di finzione, come donne molto diverse tra loro, ma mi sento vicina a tutt’e tre, nel senso che ho con loro un rapporto intenso di verità. Credo che, nella finzione, si finga molto meno che nella realtà. Nella finzione diciamo, riconosciamo, di noi, ciò che per convenienza nella realtà tacciamo, ignoriamo.

 

Elena Ferrante, non so quanti anni abbia, né dove viva. Ma posso chiederle, secondo la sua esperienza, cosa sta succedendo alla mia (nostra?) città? A cosa si deve questa esplosione di violenza? E come si può arginare questo degrado? Alice Santosuosso (Napoli)
Niente di più e niente di meno di ciò che succede da decenni: un intreccio sempre più vasto e articolato tra illegalità e legalità. Il fatto nuovo non è l’esplosione di violenza, ma come Napoli, coi suoi problemi annosi, sia attraversata dal mondo e stia dilagando per il mondo.

 

Cara Elena Ferrante che bella opportunità, questa che ci viene offerta dalla sua casa editrice: scriverle e ascoltare per radio le sue risposte. Ne approfitto all’istante, perché un filo invisibile ci lega in un progetto narrativo che lei risolve con le parole io invece con le immagini. Le molecole sospese, quelle che danno agli artisti la possibilità della percezione devono essersi appoggiate, su di noi o almeno su certi temi, allo stesso modo. Tempo fa, quando la mia esperienza di mamma supplente si apriva nel suo pieno processo di responsabilità trasformando la mia solidarietà in impegno effettivo, ho sentito il bisogno di raccontare. Fare da madre e non essere madre, sentirsi divisa fra volontà e paura, sola e nessuna categoria d’appartenenza. Mi guardavo attorno e ripescavo nella memoria la mia infanzia e il rapporto con mia madre. Cercavo immagini per dare una struttura narrativa, che solo ora dopo “La figlia oscura” mi appare chiara, alle logiche scenografiche che giorno per giorno si componevano sui fogli. Tutto è partito dalle foto, dalle fotografie in bianco e nero che si facevano al mare. Sulla sabbia ho composto le scene. Bambine sedute in pose anni ’50, Barby sepolte fra palette e secchielli, Barby mamme grandi e colorate come totem di plastica, bambine che avanzano, bambine che suonano piani di sabbia. Piani, primi piani, programmi d’azione. Per un anno intero non ho fatto altro, moltissimi disegni, un po’ in tutte le tecniche, lavori illustrativi, graficamente passabili ma artisticamente imbarazzanti perché raccontavano il mio disagio. Produrre immagini come terapia per riprovare a crescere. Figlie oscure senza mamme e mamme bambole nascoste nella sabbia. L’altro giorno ho riaperto la cartella e ho capito che quei lavori erano il mio modo di affrontare il tema della maternità e tutte quelle mie bambole (sepolte nella sabbia, mamme o amiche, sorelle) sono come i personaggi del suo libro. La bambola, Leda, Elena, Nina, Marta, Bianca …. Con infinita stima, Miriam
Cara Miriam non credo che sul piano artistico ci sia mai qualcosa di imbarazzante. È lei, persona privata, che dopo la fase dell’espressione artistica, si ritrova con se stessa, con la sua normalità, e ha un’impressione di impudicizia. In questo la capisco e la sento vicina. Sono interessata a questo suo manipolare bambole e sabbia. Se vuole, mi invii qualche foto. So poco della simbologia delle bambole, ma mi sono convinta che esse non sono solo la miniaturizzazione dell’essere figlie. Le bambole ci sintetizzano come donne, in tutti i ruoli che il patriarcato ci ha assegnato. Se le ricorda le bambolesuore della futura monaca di Monza? A me interessava raccontare come reagisce oggi una donna colta, “nuova”, a stratificazioni simboliche di lunga data.

 

Gentile signora Ferrante, le scrivo dopo aver letto l’intervista che ha concesso a Repubblica. Di suo, sinora, ho letto solo “I giorni dell’abbandono”, scegliendo in una fase successiva di vedere il film. E come spesso capita, il passaggio da una arte all’altra mi ha lasciata insoddisfatta… nonostante la buona riuscita della pellicola, mi sono sentita orfana della sua scrittura. Come tutti, ignoro il suo vero nome, e persino il suo sesso. E ammetto che ne sono felice. Non è solo che in questo modo lei si è garantita la libertà di tutelare la sua intimità, riuscendo ancora di più a scavare nelle sue storie, come ha spiegato. Questa sua scelta garantisce anche noi lettori, ai quali lei parla da “autore assoluto”, facendo cambiato quello che c’è da cambiare quello che hanno fatto Battisti e Mina… Sgomberato il campo dal carico oneroso dell’immagine, rimane per noi “solo” quello che lei scrive. “Solo” su questo dobbiamo concentrarci. Ed è davvero tanto in un mondo nel quale immagini e notorietà schiacciano contenuti e identità. Mentre leggevo “I giorni dell’abbandono” (libro di cui mi sono ritrovata un paio di mesi fa a parlare con una collega, reduce dal naufragio del matrimonio per adulterio di lui, e con una donna ovviamente più giovane) anche la sua scrittura mi è sembrata “assoluta”. A volte difficile e dura, in quel suo essere tesa e analitica, ma sempre e solo “assoluta”. Se lei è una donna, in lei l’emotività non si trasforma in piagnisteo sentimentalista. Se lei è un uomo, è riuscito a comprendere e a descrivere senza fuorvianti pietismi sessisti. Per me, mamma di una bimba di tre anni, moglie a volte schiacciata da una routine stressante, figlia Cassandra incompresa, giornalista non in carriera, donna ormai sopra i quaranta ma alla perenne ricerca di equilibrio e identità, sono state particolarmente importanti le riflessioni sul periodo in cui la protagonista svezzava i figli, sull’odore delle pappe e del latte che si appiccica alle carni, al punto da esserne una opprimente emanazione. Le sono grata per quello che ha scritto, per tante ragioni, troppo lunghe e noiose perché le spieghi. E in realtà non credo neanche che ce ne sia bisogno che lei sia donna o uomo, solo figlia/o o anche madre/padre. Della sua intervista ho amato particolarmente la parte finale, quella relativa a Napoli. Non so se realmente lei sia nata/o nel capoluogo campano, o se l’abbia deliberatamente eletto a terra madre per una scelta di campo. Ma da meridionale sono originaria di Bari apprezzo il grande rispetto verso quella terra e le sue “emergenze”. Nei giorni in cui tenevamo la triste contabilità dei morti ammazzati, si sparava e uccideva anche a Milano e nell’hinterland, e nessuno si è sognato di parlare di emergenza per quegli omicidi. Una ventina di anni fa ero negli Stati Uniti conobbi un giovane palermitano. Insegnavo italiano agli studenti di un college, e invitai quel ragazzo a parlare con loro di Palermo, e quindi anche della mafia. “La mafia non è una accolita di siciliani ignoranti con la coppola e la lupara. È una multinazionale, che fa affari e muove capitali al sud come al nord come al centro, come all’estero” raccontò ai miei studenti. Non so cosa sia restato in quei giovani americani di quella “lezione”. So che ci penso ogni volta che mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, e soprattutto gli arresti di latitanti eccellenti invadono le nostre cronache. Perché pochi riescono a parlare del nostro sud ma dovrei dire di tutti i “sud” resistendo alla tentazione di dipingere se stessi con sfumature bucoliche in un folkioristico quadretto sudista che certifichi apertura mentale e non convenzionalismo (“amo il sud, e quindi sono di ampie vedute”). E anche per questo dalla sua intervista ho ricevuto in modo più urgente l’impulso a leggere il libro di Saviano… Per il resto, la ringrazio per averci regalato, negli attimi sospesi dei suoi romanzi, parole ricche di senso e contenuto. Mafalda Caccavo
Cara Mafalda, la ringrazio molto per la sua lettera. Mi piace questo suo ragionare col “se” e col doppio pronome. Io credo che bisognerebbe fare così con tutti gli autori di libri. Non penso tuttavia che sia possibile un “autore assoluto”. Di assoluto a questo mondo non c’è niente, nemmeno nel fondo più fondo della nostra biologia. Naturalmente la differenza sessuale è decisiva e io so che i miei libri non possono essere che femminili. Ma so anche che non è concepibile un’assolutezza femminile (o maschile). Siamo vortici di detriti, trombe d’aria che trascinano frammenti di provenienza storica la più diversa. Questo ci fa meno male incoerenti, complessi, non riducibili a uno schema senza che molto, moltissimo, resti fuori. I racconti tanto più sono efficaci, quanto più sono parapetti da cui si può guardare quello che resta fuori.

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