1 Aprile 2022
La Balena Bianca

«Essere donna pesa ancora molto». Il ritorno delle “Signore della scrittura”

di Martina Pala


Nel 1984 usciva per La Tartaruga Le signore della scrittura, opera prima di Sandra Petrignani. L’autrice si sarebbe affermata da lì in poi, tra le altre cose, come esperta di écriture féminine italiana del ventesimo secolo, dedicando la sua vita e la sua carriera a gettare luce su scrittrici più o meno note. Una missione, la sua, di cui ha sentito l’urgenza in tempi che oggi considereremmo non sospetti. Eppure, già nel 1984, Sandra Petrignani denunciava non solo un canone letterario monotono, unidimensionale e poco accogliente, ma metteva in guardia editoria, lettori e lettrici del pericolo tangente di dimenticare le poche eccezioni che fino a quel momento ne avevano fatto parte. Per questo decide, appunto, nel 1984, di pubblicare una raccolta di interviste ad autrici allora ancora viventi, tutte più che settantenni, con lo scopo di imporre e fissare le loro voci sempre più sbiadite.

Il fatto che a quasi quarant’anni di distanza La Tartaruga abbia deciso di ripubblicare questo volume, ormai diventato introvabile, rallegra e allarma allo stesso tempo. Scoraggia, infatti, che autrici «molto amate dai lettori (ma forse dovrei dire dalle lettrici, soprattutto)» come quelle qui intervistate, che tanto profondamente hanno segnato le sorti del loro secolo e di quella letteratura, debbano oggi essere riscoperte nonostante gli avvertimenti di Petrignani. Che la strada da percorrere fosse lunga nel 1984 e che lo sia ancora oggi, tanto da rendere queste interviste ancora più attuali, a tratti demoralizza. Non Petrignani, però, che negli anni ha continuato la sua battaglia letteraria (e politica) e torna a regalarci un cult della saggistica troppo poco conosciuto, e insieme, soprattutto, il coraggio di continuare il processo di riscoperta di autrici ingiustamente dimenticate.

Il suo lavoro dialoga con naturalezza con il ventunesimo secolo, come testimoniano molti passaggi del paratesto. Spiegando come, nel 1984, non abbia dovuto applicare nessuna selezione nella scelta delle autrici da intervistare, tante poche erano quelle che avevano potuto farsi strada fino a lì, Petrignani si unisce alla voce di Ferrante che nel suo ultimo volume, I margini e il dettato (e/o Edizioni, 2022), afferma provocatoriamente che ancora oggi non possiamo permetterci di lasciare al vento neanche un verso, quando si parla di écriture féminine: ennesima riprova che l’urgenza di allora è quella di oggi, e che questa ristampa è necessaria.

La nuova edizione di Le signore della scrittura non torna identica a se stessa, ma porta aggiunte preziose. A chiusura del volume troviamo, ora, una sezione bibliografica delle autrici intervistate, che sono ormai tutte scomparse; ad arricchire la sezione di Anna Maria Ortese c’è una lettera di Laura Lepetit (fondatrice della Tartaruga); una sezione dedicata a Natalia Ginzburg, esclusa nel 1984 perché non ultrasettantenne, è stata aggiunta.

La ristampa de Le signore della scrittura impone un confronto fecondissimo non solo tra le scrittrici intervistate a distanza di quarant’anni – chi è stata dimenticata? Dove e come si collocano le loro narrative oggi? Quali pensieri sono o meno ancora attuali? – ma anche, più in generale, tra il contesto contemporaneo e quello novecentesco. Se da una parte è innegabile che l’accesso delle donne alla scena letteraria sia oggi più facile e che, anzi, il mercato e il pubblico concedano una nuova e incuriosita attenzione alle scrittrici, dall’altra si tratta di un’attenzione spesso momentanea, che stenta a tradursi nella creazione di un canone scolastico e letterario autenticamente più eterogeneo. Il dibattito sull’argomento è acceso, e ci si muove consapevoli dell’arma a doppio taglio che rappresenta basarsi sul concetto novecentesco della differenza sessuale: a rileggere le interviste di autrici come Ginzburg o Morante (che pure sono tra le poche affermatesi indelebilmente) si percepisce forte il timore di essere isolate in un canone di sole autrici. Eppure, quello della riscoperta e della rivalutazione che Petrignani aveva iniziato e continua, è un passaggio obbligato, credo, nella speranza di imporre un processo più naturale di non esclusione di voci degne e segnanti della letteratura italiana.

Un altro confronto che sorge spontaneo è quello tra Petrignani autrice di allora e Petrignani oggi. La lucidità e la combattività, la consapevolezza e la tenacia, che traspaiono nella prima introduzione, si ritrovano identiche anche in questa nuova premessa al volume (nel quale l’introduzione del 1984 rimane così come era). È evidente l’imbarazzo pacato di una donna che si guarda teneramente quarant’anni dopo, capace di scorgere con sguardo severo errori (l’esclusione di Ginzburg per una rigidità di criteri tutta giovanile, per esempio) e cose che ora «cambierebbe. Ma va bene così». Di certo la prosa di Petrignani di oggi è più fluida e meno acerba, senza l’esigenza di dimostrare una certa poeticità, ma l’effetto complessivo, grazie alla struttura e al messaggio chiari, era vincente nel 1984 e lo è nel 2022. L’impressione è che al posto delle autrici, ancora in vita, che si preoccupavano di come la loro età anziana sarebbe apparsa in foto, ora c’è Petrignani, settantenne, più clemente, però, con se stessa, delle sue scrittrici.

Ma chi sono queste scrittrici?

Il volume si apre con Anna Banti, che pur avendo segnato profondamente ogni ambito da lei esplorato e tutto il suo secolo, oggi rimane un’autrice di nicchia, di cui si trova senza troppe difficoltà solo il capolavoro Artemisia e che, se torna ad essere ricordata, lo è quasi sempre come moglie di Roberto Longhi. Petrignani non riesce a prescindere da questa figura ingombrante, ma restituisce il ritratto di una autrice caparbia, controcorrente, severa, che si riconosce come emarginata in quanto scrittrice, ma che odia la definizione di femminista.

Quella femminista è una questione che il libro non poteva e non può evitare, e diventa infatti un tema ricorrente nelle interviste. Petrignani stessa, guardandosi indietro, si definisce «trentenne e femminista». Definizione che alcune delle sue autrici fanno fatica a digerire, o che allontanano con decisione. L’autrice della raccolta, nel suo paratesto, spiega lucidamente che queste scrittrici non sono e non possono essere femministe perché appartenenti a un’età che non contempla questa parola, anzi «se ne infastidiscono». E oggi? La nostra età la contempla? Le motivazioni che spingevano autrici di questo calibro ad allontanarsi dalla possibilità di essere inquadrate come femministe sono le stesse che nutrono lo scetticismo ancora contemporaneo nei confronti di un movimento sentito spesso come troppo radicale.

Il rischio che le parole di queste autrici avallino questo stato delle cose non è però da dare per scontato: c’è, indubbiamente; ma rimangono figlie del loro tempo, e soprattutto rimangono lucide osservatrici della realtà circostante. Il rifiuto del femminismo ufficiale non le esenta dal denunciare con estrema consapevolezza lo stato delle cose in cui vivono, il senso di esclusione e di ingiustizia che ammettono di soffrire e subire. Banti si riconosce al massimo in un femminismo umanista, perché «le donne sono cattive verso le altre donne»; eppure definisce come «un po’ femminista» il suo romanzo Lavinia fuggita, e ammette la sua contraddittorietà, messa in luce dall’intervistatrice, quando riconosce di vivere in una società che la svantaggia perché a misura di uomo.

Anche Natalia Ginzburg – di cui, dopo il successo della biografia La corsara (Neri Pozza, 2018), Petrignani torna a parlare in una finta intervista ricostruita a partire da tre colloqui diversi avuti nel 1982, 1986 e 1989 – che in articoli vari non si è mai spesa a favore dei movimenti femministi ufficiali, e la cui scrittura è stata spesso osannata da critici e colleghi perché abbastanza maschile, si ritrova a ragionare sulle componenti maschili o femminili del suo stile, e ad offrire personagge che sintetizzavano in modo aspro e spietato la loro condizione sociale. Eppure, la conclusione è la stessa che per Banti: un moderato umanesimo, che includa sì uno sguardo sulla madre, ma anche sul figlio.

Come Ginzburg in vita ha spesso ribadito di non voler essere chiamata scrittrice, così fa Elsa Morante nella sua pseudo-intervista – finzionale, infatti, è anche questo colloquio dal momento che la scrittrice già allora non concedeva più dichiarazioni. Anche il caso della romanziera italiana per eccellenza è tanto contraddittorio quanto interessante, e Petrignani riesce e restituirne tutto il fascino. Che la si chiami scrittore! D’altra parte «poche sono le donne veramente intelligenti», ma solo perché «scimmiottano l’uomo», spregiando «le loro grandi qualità femminili». E prendendone le distanze non significa, però, per Morante stessa ‘spregiarle’? La sua narrativa ci risponde: Ida, Nunziatella, Aracoeli, Santina, Mariuccia, Elisa e i loro ritratti mai stereotipati, le loro voci represse ma acute, le genealogie di livelli autoriali tutti femminili che creano sono la prova che Morante, nonostante tutto e nella pratica, non spreca le sue «grandi qualità femminili», ammesso che ne esistano di maschili o femminili. Insomma, la questione spinosa del (anti)femminismo è un fil rouge interessantissimo che conferisce unitarietà alla raccolta, che non impedisce alle autrici, anche le più contrariate, di denunciare la loro condizione svantaggiata di scrittrici e di donne in generale, e che fa dialogare posizioni diversissime.

Dopo un esordio letterario, incensato da Montale tra gli altri, Laudomia Bonanni fu completamente dimenticata, e solo molto di recente è stata riscoperta grazie agli interventi editoriali di Cliquot (che ha ripubblicato Il bambino di pietra) e Textus (che sta per ripubblicare Il fosso e La rappresaglia). Già Petrignani denunciava nel 1984 come i suoi libri fossero introvabili, e ne restituisce il profilo irriverente. Nel suo epistolario sono ricorrenti le polemiche nei confronti di una critica che la ignorava ingiustamente – scrive a giornalisti e critici per lamentarsene e richiede indietro libri mandati loro e ignorati – ma soprattutto riconosce in questo atteggiamento «una levata di scudi contro le donne». Neanche Bonanni si è mai definita femminista, eppure nei suoi romanzi riesce a mettere in crisi l’istituzione borghese della famiglia, il ruolo preconfezionato e imposto di madre e moglie, e a ‘narrativizzare’ nevrosi esclusivamente femminili. E tutto questo è perfettamente sintetizzato nella sezione che Petrignani le dedica.

Meno scettica nei confronti del femminismo è sicuramente Alba de Céspedes, il cui capolavoro Dalla parte di lei è stato ristampato solo l’anno scorso da Mondadori, dopo decenni di silenzio scandaloso. Petrignani la ritrae nella sua forza proverbiale, piena delle sue consapevolezze politiche, meno restia delle altre a schierarsi e a definirsi. D’altra parte, ha iniziato a scrivere a sei anni «una poesia dedicata alle donne che lavorano e che soffrono»: un inizio profetico della sua narrativa successiva, dedicata alle amicizie femminili, così poco raccontate prima del recente successo ferrantiano, e all’importanza che questo tipo di alleanza privata può avere su un piano pubblico. Il dialogo amicale, pacato, ma che poneva su due piani diversi Ginzburg e de Céspedes quando nel 1948 parlarono su «Mercurio» del ‘vizio’ femminile di cadere in un «pozzo» di torpore e malinconia – portando solitudine per Ginzburg e solidarietà per de Céspedes – si ripresenta anche attraverso queste interviste, così efficaci nel ritrarre posizioni sì diverse, ma in dialogo costante.

Una consapevolezza altrettanto lucida, e che porta ad esiti simili a quelli di de Céspedes e alla sua interpretazione del ‘pozzo’, è anche quella che Petrignani riesce ad inquadrare nell’intervista a Livia De Stefani, che parla di «storia comune delle donne». De Stefani spiega come le sue velleità prima e il suo mestiere di scrittrice poi non siano mai stati presi sul serio, non poteva che essere un «capriccio» il suo. Forse per questo conveniva pretendere di essere considerate scrittori? Maria Bellonci, che nella sua intervista si spertica nel celebrare gli effetti terapeutici che la scrittura ha avuto nella sua vita e nella sua persona, è accostabile a queste ultime due autrici perché lei stessa, fondatrice insieme al marito del Premio Strega, non solo crea un salotto letterario di amici della domenica che ha modellato e dettato le tendenze letterarie e commerciali del ventesimo secolo italiano, ma per sua stessa ammissione ha dato vita a un «gineceo letterario» di cui tutte le autrici ricordate da Petrignani hanno fatto parte in un qualche momento della loro vita.

Petrignani eredita, in parte, questo onere di mettere insieme e in dialogo voci così diverse, ma che tanto condividono anche solo in quanto scrittrici. In dialogo, infatti, possono essere lette anche le interviste a Ginzburg e Lalla Romano: se alla prima non piace parlare di sé, la seconda rifugge l’autobiografia, di cui pure, puntualmente, le due sembrano non poter fare a meno, a patto di ibridizzarla. E di nuovo, Petrignani ci offre lo spunto per riflettere sulle modalità e sulle motivazioni dietro questa ritrosia nei confronti di un genere e un modo di scrivere affibbiati tradizionalmente alle donne, che per non vedersi emarginate finiscono per esprimere l’urgenza repressa di parlare di sé attraverso una frammentazione della loro soggettività in diversi personaggi e personagge. Il rischio di una etichetta che peserebbe e le emarginerebbe è sempre tenuto in considerazione con ansia e maestria. La stessa Romano racconta a Petrignani di come sia lei che Ginzburg (rispettivamente con La penombra e Lessico famigliare) furono «liquidate […] (anche da lettori fini e intelligenti quali Alberto Arbasino) come scrittrici di confessioni». Possiamo quindi biasimare la scelta di voler essere considerate scrittori?

Lo stesso senso di estraneità ed esclusione è reso dal titolo dell’intervista a Fausta Cialente, che si sente «straniera dappertutto». Il riferimento questa volta è ai suoi continui spostamenti in giro per l’Italia e per il mondo, ma anche la sua intervista denuncia un certo pregiudizio nei confronti di questa autrice (e delle autrici, in generale), che si è vista censurare Natalia per lesbismo. Sebbene sia poi riuscita a ristampare questo titolo, oggi anche lei, come altre sue colleghe qui celebrate, subisce oblio immeritato.

Tra i modelli letterari che le scrittrici intervistate citano non vi sono mai donne (quali poi, se loro stesse sono state estromesse dal canone?). Eppure, il dialogo costante tra le interviste avviene anche grazie al fatto che le autrici intervistate si citano in continuazione, come visto prima con Romano e Ginzburg, o come succede con Paola Masino e Anna Maria Ortese. La prima, nella sua spietata filippica contro la letteratura contemporanea italiana, cita la seconda come esempio di scrittrice che ha scelto «silenzio, povertà e oscurità», perché incapace di reggere il peso del dovere di creare legami e amicizie artistici e di come lei invece non possa farne a meno. Un dialogo oppositivo ma non unidirezionale se Anna Maria Ortese, nella terza intervista finzionale della raccolta (costruita a partire da uno scambio epistolare e che diventa un vero e proprio saggio filosofico) conferma inconsapevolmente quanto affermato da Masino quando denuncia il bisogno e la mancanza di «solitudine, silenzio e ombra». E anzi è impressionante l’esattezza dei termini che tornano quasi identici.

Ritratti così diversi, personalità così contraddittorie e antitetiche sono riuniti dalla maestria e dalle conoscenze di Petrignani in un’opera solo apparentemente frammentata, che cela un’omogeneità inaspettata, costruita su rimandi e domande ricorrenti. Perché se l’identità femminile stessa non può che essere fluida e frammentata in assenza di un modello universale che le includa e rappresenti, è condivisa però l’impressione che la condizione di «essere donna […] pesa ancora molto».


Sandra Petrignani, Le signore della scrittura (nuova edizione), Milano, La Tartaruga, 2022, pp. 144, € 17.


(labalenabianca.com, 1° aprile 2022)

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