12 Agosto 2020
il manifesto

Franca Valeri, la gran lombarda

di Gianfranco Capitta


Autrice, interprete e creatrice di memorabili personaggi fra teatro, grande e piccolo schermo, Valeri è morta pochi giorni dopo aver compiuto cent’anni. In questo articolo, pubblicato poco prima del suo ultimo compleanno, la ricostruzione delle tappe più importanti di una carriera professionale e un’esperienza umana memorabili


Tra pochi giorni, venerdì 31 luglio, Franca Valeri festeggerà il suo centesimo compleanno. Chissà se gradirà gli auguri che l’Italia intera, e non solo, le farà. Schiva e sobria come è sempre stata fuori del palcoscenico, giusto una ventina d’anni fa, intervistata dal manifesto perché prossima al debutto all’Argentina (ultimo atto della direzione Martone) in un testo di Abraham Yehoshua, Possesso, si era stupita per l’usanza smodata da noi di festeggiare compleanni e ricorrenze (allora era il caso proprio di un suo storico amico, Giuseppe Patroni Griffi).

Ora il suo compleanno straordinario cade in una stagione tutta dedicata, sui giornali e in tv, a mostre e iniziative su «avrebbe compiuto cent’anni», è «scomparso da venti» o cose del genere, da Fellini a Sordi a Gassman. Lei, «la grande signorina» (proprio come Arbasino chiamava Ivy Compton Burnett) resta riservata, sempre. Anche ora che approda al secolo, che è quasi l’eternità.

Due soli grandi amori e compagni di vita confessa lei stessa nella sua autobiografia (Bugiarda no, reticente, Einaudi 2010) entrambi impari nei sentimenti rispetto a lei, ma da lei quasi rivendicati, i soli grandi amori della sua vita. Vissuti, goduti e sofferti lungo la sua inesauribile creatività.

Ovvero quella capacità di «creare», letteralmente, le nuove «maschere» del ’900, tragiche e insieme irresistibilmente comiche. Dall’illusione della rinascita dopo gli orrori del fascismo e della guerra, con lo stereotipo dello snobismo che ambiva a bypassare la durezza di un presente da vivere e reinventare, a tutte quelle altre donne che ha disseminato lungo gli anni ’50 nella rincorsa del boom, «intimo» prima ancora che economico e nazionale. Dalla «Signorina Snob» del dopoguerra (negli stessi anni di un curioso tentativo di Valeri attrice con Strehler) alla «manicure Cesira». Fino alla trionfale apparizione tv della fija della sora Augusta, quella maritata Cecioni, che riusciva a capovolgere e stravolgere lo sfondo meraviglioso e luccicante di Kessler e Bluebell, nella quotidianità (patetica ma irresistibile anch’essa), di una modernizzazione fatta di strafalcioni e paradossi. Un personaggio, la Cecioni, che con egregia disinvoltura maneggiava insieme telefono e tv, scoprendone in grande anticipo il lato «salvifico», penoso quanto esilarante, in una quotidianità ricalcata su fotoromanzi, tg orecchiati, e confusi ricordi di un’infanzia collettiva. È impressionante oggi poter rileggere quegli sketches che parevano improvvisati al momento, nei loro testi precisi e minuziosamente costruiti, pubblicati per fortuna in appendice a Tutte le commedie (La tartaruga/La nave di Teseo, 2020, pp.668, 22 euro), un libro che è il vero grande regalo di compleanno per «la Franca», e per tutti i suoi ammiratori.

Del cinema divenne subito una presenza unica e indimenticabile: è del 1955 la sua «cattivissima» boss che tiranneggia e quasi distrugge Alberto Sordi, Un eroe dei nostri tempi firmato dal genio di Mario Monicelli. E nello stesso tempo Il segno di Venere diretto da Risi. La televisione le ha certo dato la popolarità più straordinaria, la sua cartella curriculare nelle Teche Rai deve essere pressoché sterminata, così come il pubblico che l’ha applaudita per decenni, citando e rifacendo quelle sue maschere, dalla Cesira alla Cecioni, che sono divenute celebri almeno quanto quelle goldoniane. Ha avuto la fortuna, e la diabolica capacità, di appassionare i pubblici più disparati, da quelli intellettuali a quelli più popolari. Insomma, a suo modo, una maga. O meglio una sensibilità straordinaria, che agiva poi con abilità «scultorea» a dare corpo e parola a debolezze, orrori, ridicolaggini che attraversano la vita di tutti. Dovunque apparisse, e su qualsiasi medium e linguaggio si esprimesse.

DavveroFranca Valeri ha rappresentato un caso praticamente unico di attrice di successo in teatro, al cinema e in tv, e nello stesso tempo (o per lo stesso motivo) regista sagace e fulminante autrice. Anzi, di lei si può proprio dire grandissima scrittrice, originale e innovativa quanto colta e preparata sulla cultura di ogni epoca. E non solo quella «scritta»: la musica da sempre ha costituito una passione e un universo di tale importanza e fascinazione da investire e «condizionare» il suo privato e la sua scrittura: uno dei suoi compagni di vita era direttore d’orchestra, lei ha promosso e finanziato per molti anni un concorso nazionale per voci liriche, e ha tratto dalle opere personaggi e intrecci per il suo teatro.

Ragazza per bene, di buona famiglia (ebrea), di buona cultura, milanese di nascita e giunta con l’arte a Roma. Una naturale figlia di quella tradizione di «gran lombardi», che dalla storia migliore della letteratura italiana, aveva portato e «naturalizzato» nella capitale Gadda e Arbasino. E lei si è divertita per la sua sagace, folgorante capacità d’occhio e d’orecchio. Il linguaggio come il vestiario (non solo esteriore) sono sempre stati, fin dall’inizio suoi terreni prediletti di osservazione, misura, analisi, e interpretazione. Poi son venuti i dialetti, gli accenti, le ellissi, le occhiate, i sorrisi capaci di disegnare un atlante di umanità e di comportamenti, di amarezza e di tenerezza. Una capacità, unica e straordinaria, di mixare tutto questo negli sketches, nei paradossi con i suoi Gobbi (Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, a lungo suo compagno d’arte e di vita) che sfondarono anche nei teatri parigini, tanto da farla conoscere e apprezzare dai grandi di allora, come il maudit Jean Genet (e il ricordo di lei con Sergio Tofano affacciati qualche anno dopo dallo scostumato Balcon dello scrittore francese al Valle di Roma, resta una immagine mitica per chi ha avuto la fortuna di vederli).

Ma giànei primi anni ’60, in contemporanea con il suo successo televisivo come Cecioni, le donne della Valeri hanno sentito il bisogno di crescere e moltiplicarsi, in una dialettica a quasi esclusiva preponderanza femminile, in commedie che riuscivano a risultare divertenti quanto pensose e profonde. Le Catacombe nel ’62 fu il primo titolo, seguito da una produzione sempre più vasta quanto puntuta; le donne sempre a scoprire il volto oscuro dell’universo, ma con una energia e una autoironia che ne rendevano il giudizio inappellabile. La vedova Socrate in testa, magari a fianco alla Ferrarina (ciarliera ostessa padana in cerca d’affari nel demi-monde romano, appena ripubblicata da Einaudi nella collezione Teatro) fino a quelle di un pugno di anni fa, come Il cambio di cavalli.

Commedie che rilette oggi di seguito possono costituire un vero trattato, storico e sociologico: le sue donne sono una guida indiscutibile e preziosa nell’animo profondo, e nei discutibili sogni e nelle illusioni pretenziose, di un secolo italiano. Sempre facendoci ridere amaro, naturalmente. Molti di questi aspetti li sottolinea bene, nella postfazione a Tutte le commedie, Patrizia Zappa Mulas, non a caso attrice anche lei (e anche lei di origine lombarda). Perché il nodo vero della curiosità di quel personaggio grandioso che è Franca Valeri, oggi lanciata a superare il secolo (in simpatica sintonia con un altro nume tutelare e pensante della nostra scena, Gianrico Tedeschi) è quale sia in lei l’aspetto dominante e propulsore di questa arte che vola a livelli alti tra scrittura, interpretazione, messa in scena dei suoi formidabili personaggi. Dove l’attrice per altro compete con se stessa e la propria carica tra palcoscenico, schermo, televisione. Forse una mistura chimica, sempre pronta a riaccendersi, tra l’intuito profondo di tutto quanto esiste attorno e oltre a sé, e insieme la voglia di ricostruirlo e penetrarvi e in quel modo corroderlo. Insomma il mestiere di attore (all’antica, e quindi anche autore e regista di se stesso) intriso della capacità strepitosa della scrittura, formatasi e coltivata fin dall’infanzia, nelle stagioni più sensibili della vita. Attrice e scrittrice quindi, ma senza mai arrendersi al potere e all’ingiustizia.

Sono statericordate in questi giorni certe sue puntate in luoghi «inconsueti» per la cultura dominante, anche di sinistra, dall’ex cinema Palazzo al Valle occupato. Ma lei, divina davvero, è stata capace anche di peggio. Premiata «alla carriera» qualche anno fa a quella manifestazione promozionale che sono le Maschere d’oro per il teatro, ritirò con un sorriso di circostanza il premio dalle mani del promoter Gianni Letta. Poi afferrò il microfono, andò in proscenio, e pronunciò una invettiva memorabile contro l’abbandono e lo scarso amore per la cultura (e il teatro in particolare) da parte delle autorità che dovrebbero essere competenti. Indimenticabile, e insuperata.


(il manifesto, 25 luglio 2020)

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